Carlo Gesualdo e le Dame di Ferrara

Già il titolo potrebbe nascondere un tranello.

Sarà invece un preambolo

ad anticipare qualcosa di inaspettato

che inizieremo a scoprire e a comprendere

attorno al VII° capitolo di questo nuovo libro di:

LINA LO GIUDICE.

Si tratta dunque di un giallo?

E’ vero che per vocazione io vedo “giallo” ovunque

ma in questo caso è certo che ogni lettore o lettrice,

musicista o semplice appassionato,

scoprirà qualcosa e nasceranno dubbi, domande, 

indagini di vario tipo secondo la passione di chi legge.

Ma davvero il Rinascimento è stato in gran parte…

opera delle donne?

Ne è convinta anche una nota scrittrice francese

biografa per tradizione di famiglia

e premiata per aver riscritto brillantemente

fantastiche storie vere di femmine celebri.

Già nel secondo capitolo di questo libro

(raro saggio singolarmente piacevole)

troviamo una prima manciata di nomi:

solo alcune di queste creature superdotate

fra le tante che hanno fatto “segretamente” la Storia,

non solo quella della musica.

E quanto altro materiale troveremo

nelle preziose appendici ricche di sorprese

e nella bella introduzione di Carla Conti?

Ma non è tutto.

Coloro che vogliano farsi in un’idea chiara e sintetica

dell’Europa del XVI° secolo saranno soddisfatti e beati

già dal primo capitolo di quest’opera fresca di stampa.

Poi, l’autrice, dietro una copertina giustamente severa,

e nell’arco armonioso di 154 pagine,

riesce a mostrarci con disinvolta bravura

una panoramica ampia ed essenziale

che mette bene a fuoco la situazione d’ambiente

in cui nasce, vive, crea e scompare… Gesualdo.

Ed è sorprendente come Lo Giudice,

partendo da un capitolo della storia della musica,

riesca a raccontare in un quadro dinamico

la complessa tessitura e non solo,

di un quel favoloso periodo storico

che si sdoppia, raddoppia ed esplode

tra Rinascimento e Barocco.

Così incontriamo e ricorderemo Carlo Gesualdo:

Principe non proprio azzurro

posseduto da una storia tenebrosa e inquieta

quanto la sua musica, arte diversa e misteriosa

che con incredibile anticipo

precorre e ispira le rivoluzioni del nostro tempo.

Lui, compositore sospeso in dissonanza

sull’abisso della vita

resta magica-mente in bilico tra i secoli

aggrappato alla musica eterna maniacale passione.

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Titolo: Carlo Gesualdo e le dame di Ferrara

Autore: Lina Lo Giudice

Introduzione: Carla Conti

Editore: La Stamperia del Principe

Prezzo: € 15,00

Dati: 2013, 256 p.

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Pittura Inglese del ‘700

A Roma la pittura inglese è di moda; dopo la mostra su Alma Tadema ed i pittori vittoriani al Chiostro del Bramante è ora la volta alla Fondazione Roma, a Palazzo Sciarra, la mostra Hogarth, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità. La Fondazione, attraverso Arte Musei, e la Soprintendenza hanno dato vita ad una interessante esposizione di oltre un centinaio di pezzi pervenuti da quarantasette musei e collezioni private in massima parte di provenienza estera. Attraverso le opere esposte si ricostruisce un importante periodo della storia della Gran Bretagna tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del XIX; fu un periodo in cui cominciò a svilupparsi il grande impero inglese che poi raggiunse il suo culmine a fine ‘800. Uscita sempre tra i vincitori dalle guerre di Successione e da quella dei Sette Anni l’Inghilterra ridimensionò i precedenti imperi coloniali di Spagna, Portogallo, Olanda e Francia sviluppando una poderosa flotta che divenne padrona poco contrastabile dei mari, iniziò la conquista dell’India e inviò navi alla scoperta dell’Australia e di molte isole dell’Oceano Pacifico.

Contemporaneamente si ebbe una grande mutazione sociale, all’aristocrazia legata alla proprietà terriera si affiancò una borghesia operosa attiva nei commerci con le colonie e legata alla nascente industria basata sull’uso appena scoperto del vapore come forza motrice utilizzando il carbone fossile molto abbondante in Inghilterra.

Fino allora la pittura inglese era rimasta nell’ombra e la nobiltà, unica committente, faceva riferimento all’arte italiana e francese ma con l’affermarsi rapido e massiccio della borghesia iniziò a svilupparsi un tipo di pittura locale destinato a un’immediata celebrità e ancor più nel secolo successivo.

All’epoca i dipinti erano suddivisi per tipologie: storici, mitologici, religiosi, ritratti, paesaggi, nature morte; la Chiesa Anglicana non favoriva la pittura religiosa, i ricchi borghesi trovavano forse ridondanti i temi storici e mitologici, preferivano arredare le loro case con ritratti loro, di parenti, di amici e con paesaggi di ogni genere. In questo caso le distanze da loro prese con la pittura italiana erano più di forma che di sostanza in quanto molti degli artisti dell’epoca avevano fatto il loro bravo soggiorno a Roma e si erano documentati sugli stili allora in voga.

La mostra espone opere di numerosi pittori e si articola su sette sezioni curate da Carolina Brook e Valter Curzi; la prima, contenente anche un dipinto del Canaletto, mostra quadri che testimoniano lo sviluppo edilizio di Londra che dopo il grande incendio del 1666 ebbe una impressionante crescita demografica, la seconda fa perno sulla affermazione della borghesia come classe sociale in rapida espansione, la terza mostra opere di Hogarth e Fussli che si dedicano, specie il secondo, a dipingere scene relative a tragedie di Shakespeare. La quarta sezione segna il trionfo del ritratto in tutti i suoi generi, mezzo busto, figura intera, gruppi e contiene parecchi splendidi dipinti opera di Gainsborough, Reynolds, Zoffany, Ramsay. Ma la vera passione di tutti i committenti inglesi era  la pittura di paesaggio e la quinta e la sesta sezione sono ricche di quadri di genere; la quinta in particolare espone dipinti ad acquarello, tecnica fino ad allora poco stimata  che conobbe però una rapida espansione quando apparvero sul mercato confezioni di colori facilmente solubili che permettevano all’artista di dipingere”en plein air” cogliendo sfumature di luce senza essere costretto a lavorare in studio su schizzi e appunti per le difficoltà di gestire le materie organiche che costituivano i colori; la sesta invece presenta grandi quadri ad olio con paesaggi, a volte italiani, opera di Wilson e Wright of Derby.

L’ultima sezione mette a confronto i dipinti di due grandi paesaggisti inglesi, un po’ più tardi di quelli delle sezioni precedenti in quanto lavorarono anche nei primi decenni dell’800, Constable e Turner, il primo più legato ad una visione  statica del paesaggio inglese, il secondo, memore delle esperienze romane, portato a maggior dinamismo espressivo.

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06 Mostre Pittura Inglese del '700 5564HOGARTH, REYNOLDS, TURNER

Pittura inglese verso la modernità

Dal 15 aprile al 20 luglio 2014

Roma

Fondazione Roma Museo (Palazzo Sciarra)

via Marco Minghetti 22

Orario:

lunedì 14/20

venerdì e sabato 10/21

martedì mercoledì e domenica 10/20

Informazioni e prenotazioni:

tel. 06/69205060

Sito mostra

Sito web

Catalogo:

Skira

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 06 Mostre Pittura Inglese del '700 02-Joshua-Reynolds-Lady-Bampfylde

Il Falerno: Il vino imperiale della Campania Felix

Le fonti letterarie e gli studi archeologici testimoniano la grande fortuna che la vite e il vino ebbero nel mondo antico attestando una profonda conoscenza sia di questa coltura che della vinificazione, ossia di quell’insieme di operazioni che prendendo il via dalla vendemmia, determinano la trasformazione dell’uva in vino. Fu sicuramente grazie al vino che la coltivazione della vite ebbe così grande successo e così grande espansione nel mondo, fin dai tempi più antichi questa pianta fu ritenuta un dono del cielo, ed il vino per le sue qualità straordinarie, per l’ebbrezza che procura, attribuito alle potenze superiori. Il vino divenne la bevanda collegata al culto degli dei ed alla celebrazione di eroi, poeti e artisti e gli uomini l’offrivano in omaggio alla divinità.

La vite fu consacrata a Dioniso o Bacco, dio della fertilità e della vegetazione, divinità che nei suoi culti più arcaici era il dio delle linfe “il sangue delle piante” che ad ogni primavera saliva dalla terra e resuscitava gli alberi. Anche il suo abituale colore rosso è stato associato al sangue e, di conseguenza, direttamente legato alla vita. E poiché la vita eterna era privilegio degli dei immortali, si è creduto che bere vino permettesse di diventare simili a loro.

In epoca romana e per lungo tempo i vini campani tra i quali l’insigne Falerno, furono lodati dai poeti e avidamente ricercati e consumati in tutte le regioni dell’Impero; da Ateneo a San Paolo si conveniva sulla necessità di bere moderatamente e sempre miscelato con acqua l’inebriante liquido che per i Cristiani poi divenne il sangue di Cristo nell’Eucarestia, assumendo un ruolo importantissimo nei banchetti cristiani.

Nei territori della Campania settentrionale in epoca romana si producevano molti vini pregiati ma il più celebre fu il vino Falerno, questo “frutto di Bacco” nasceva da una terra fertilissima da cui traeva il nome, l’ager Falernus, il campo Falerno, territorio al margine settentrionale della Campania antica, compreso tra il fiume Garigliano a nord e il fiume Volturno a sud, un territorio di grandissima importanza strategica per la posizione geografica di cerniera tra Lazio e Campania, caratterizzato da un litorale suggestivo e incantevole, con estese spiagge ricche di sabbia fine e dorata. Una terra straordinariamente fertile, con un clima favorevole e un terreno molto fecondo al punto che gli antichi la definirono Campania Felix, cioè felice, fortunata, ferace, per la produzione cerealicola e in particolar modo per la coltura delle famose viti, che secondo le fonti antiche furono introdotte dai popoli greci, gli Aminei della Tessaglia.

La pregevole qualità del vino Falerno era dovuta per di più alle particolari caratteristiche dei suoli di quest’area della Campania settentrionale, terreni asciutti e ben drenati, composti da calcari inframmezzati con terreni tufacei di origine vulcanica e alla esistenza di aree pedemontane il cui suolo è riscaldato dalla presenza di fanghi caldi e vene sotterranee di acque termominerali e solfuree dovute alla presenza del vicino complesso vulcanico di Roccamonfina.

L’agro Falerno si configurò come entità a sé nel 340 a.C. con la battaglia decisiva a Trifanum, località nella piana di Sessa Aurunca, vinta da Roma contro i Latini ed i Campani, diventando così ager publicus populi Romani e nella seconda metà del IV secolo se ne avviò il processo di romanizzazione con la deduzione di colonie e con la creazione delle tribù Oufentina e Falerna, la costruzione della via Appia nel 312 a.C. e in particolare con la fondazione della colonia marittima di Sinuessa nel 296 a.C.

Questo territorio in età romana fu celebrato per la produzione dei suoi vini ampiamente esportati con le navi sui mercati italici e mediterranei nei caratteristici contenitori anforici, le anfore Dressel, prodotte in grande quantità nelle fornaci ancora attestate nella zona, soprattutto tra la fine del I sec. a.C. ed il I sec. d.C. .

L’anfora, il contenitore a due anse, nel mondo antico è il recipiente più diffuso per il trasporto marittimo delle derrate liquide o semiliquide che venivano commercializzate, in particolare il vino, l’olio, il miele, la salsa da pesce: il celebrato garum.

La Campania negli scrittori antichi fu celebrata come la regione più fertile d’Italia, ad esempio da Cicerone (I sec. d.C.) acquisiamo: I campani sono sempre pieni di superbia per la fertilità dei campi e l’abbondanza dei prodotti, per la salubrità, la disposizione e la bellezza delle loro città. E’ da questa abbondanza, da questa profusione di beni d’ogni genere che deriva anzitutto quella presunzione che spinse Capua a chiedere ai nostri antenati che uno dei due consoli fosse campano (Cic. l. agr. 2,95).

In età romana i veri intenditori del vino Falerno erano in grado di distinguere ben tre varietà: la più rinomata era il Faustianun, prodotto sulla media collina; quello di alta collina, il Caucinum; mentre il vino di pianura aveva semplicemente l’appellativo generico di Falerno così come apprendiamo dallo storico e naturalista Plinio il Vecchio che ne identifica tre specie: austerum, dulce, tenue, lamentando pure che ai suoi tempi (I sec. d.C.) i coltivatori guardavano più alla quantità che alla qualità (Plin., N.H., XIV 6).

Al tempo di Plinio il Vecchio il mondo romano conosceva 185 tipologie diverse di vino, con prevalenza di vini rossi, ai quali di frequente venivano aggiunte anche sostanze aromatizzanti (resine ed erbe) o dolcificanti (miele); i più famosi erano quelli liquorosi ottenuti da uve sovra mature o appassite.

E’ molto probabile che i Greci abbiano introdotto nell’Italia meridionale tecniche specialistiche di coltivazione della vite, anche se con l’arrivo dei romani nel IV secolo a.C. ci furono le condizioni generali perché tale produzione, accompagnata da ottime infrastrutture, potesse essere commercializzata in Italia e in tutto l’Impero.

Come vino pregiato, il Falerno si è affermato nella tarda età repubblicana e sicuramente già agli inizi del I secolo a.C. era un ottimo vino se Plinio (N.H. XIV, 95) ci tiene a precisare che “ … i vini d’oltremare mantennero il proprio prestigio e questo fino al tempo dei nostri nonni, persino quando il Falerno era già stato scoperto …”. Marziale insiste sul colore nero e lo definisce immortale, il vino che invecchia, ma non muore mai; altri autori ne accentuano l’amarezza e l’asprezza del sapore.

Della qualità e della fama da esso raggiunta ne è prova anche il costo elevatissimo; la grande importanza economica del Falerno ben si coglie dalla viva testimonianza di alcuni graffiti pompeiani, su uno dei quali si legge:

Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno” (CIL IV 1679).

Il mondo romano conobbe un gran numero di forme vascolari destinate al vino: in terracotta, metallo e in vetro, legate alle varie operazioni come il contenere e l’attingere; questi contenitori furono esportati in tutto l’impero e spesso firmati dai bronzisti che li realizzavano per garantire la perizia tecnica delle officine romane, soprattutto italiche, tra le quali famose erano secondo Plinio quelle di Capua.

Il vasellame per il banchetto era spesso realizzato con materiali preziosi e veniva quindi ostentato come manifestazione di ricchezza del proprietario che li esponeva su credenze e tavoli.

Nei terreni collinari, asciutti e permeabili della provincia di Caserta nei moderni comuni di Cellole, Sessa Aurunca, Mondragone, Falciano del Massico e Carinola si produce ancora oggi questo vino dalle origini mitiche che è di grande interesse rievocare. Il mito racconta infatti che il dio Bacco proprio sulle falde del monte Massico, comparve sotto simulate spoglie ad un vecchio agricoltore di nome Falerno, il quale, nonostante la sua umile condizione lo accolse offrendogli tutto quanto aveva, latte, miele e frutta. Bacco, commosso, lo premiò trasformando quel latte in vino che Falerno bevve addormentandosi subito dopo. Fu allora che Bacco trasformò tutto il declivio del monte Massico in un florido vigneto.

In tempi recentissimi si è sviluppata tra i produttori vinicoli della zona una sensibilità rilevante nei confronti di questa memoria culturale che ha portato ad un deciso miglioramento qualitativo del vino, e poi al giusto ottenimento della Doc.

 01 IL FALERNO Il  vino imperiale della Campania Felix degustazione del vino Falerno01 IL FALERNO Il  vino imperiale della Campania Felix anfore vinarie

La gloria dei vinti

Rendere omaggio al valore dei vinti è un concetto di grande generosità purtroppo poco tenuto in considerazione sia in passato che nel presente; c’è stata comunque qualche eccezione una delle quali riguarda un antico re, Attalo I di Pergamo. Era il sovrano di un piccolo regno dell’Asia Minore originatosi dallo sfaldamento dell’impero di Alessandro Magno e nel 240 a.C. sconfisse i Galati, una popolazione di origine celtica stanziata al centro dell’attuale Anatolia, che imperversava con sanguinose razzie nelle regioni vicine.

La vittoria ebbe grande risonanza nel mondo ellenistico ed Attalo la sfruttò commissionando due grandi opere bronzee che lo celebravano. La prima, nota come “il Grande Donario”, era costituita da una base circolare che ospitava, a detta di Plinio e Pausania, tre grandi statue, di misura superiore al vero, rappresentanti Galati sconfitti e morenti; opera dello scultore Epigonos era collocata nell’acropoli di Pergamo vicino al tempio di Atena Nikeforos (apportatrice di vittoria). L’altra, conosciuta come “il Piccolo Donario”, fu donata da Attalo ad Atene e posta sull’acropoli su una base a forma rettangolare, era insieme a altri gruppi simili rappresentanti l’Amazzonomachia, la Gigantomachia e la Medomachia; la donazione aveva sicuramente lo scopo di creare un gemellaggio tra Atene e Pergamo sia culturale che politico.

Le statue poste sulla base, di cui rimangono i resti, elevata di quasi due metri, erano circa una quarantina alte un po’ meno di un metro. Si ignora che fine abbiano fatto i due donari bronzei, si ritiene che durante il periodo imperiale siano stati portati a Roma da Nerone per la Domus Aurea e in seguito spostati da Vespasiano nel Templum Pacis dopodiché non ne abbiamo più notizie; due statue, il Galata morente ed il Galata suicida, appartenenti ad una copia  in marmo, forse di origine pergamena della seconda metà del I secolo a.C., furono rinvenute nel ‘600 nella Villa Ludovisi in una zona dove nell’antichità erano gli Horti Sallustiani precedentemente appartenuti a Giulio Cesare, forse il gruppo statuario fu un omaggio dei maggiorenti di Pergamo. Ora fanno parte la prima delle raccolte dei Musei Capitolini, la seconda di quella di Palazzo Altemps; secondo il professor Coarelli, in base a quanto descritto da Plinio, dovrebbe essere aggiunta al gruppo la statua, ora non più esistente, di una donna morta con un bambino.

Il Coarelli ha anche studiato il Piccolo Donario e ha curato una mostra, promossa dalla Soprintendenza e da Electa, che si tiene a Palazzo Altemps e che ha permesso la parziale ricostruzione del complesso artistico utilizzando statue provenienti da vari musei.

La storia moderna del Piccolo Donario inizia nel 1514 quando, da una lettera inviata da Filippo Strozzi a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico, apprendiamo che durante alcuni  scavi in un convento femminile, forse l’attuale Sant’Ambrogio della Massima, furono trovate cinque statue, di misura minore del vero, rappresentanti guerrieri morti o feriti; poco dopo ne furono trovate altre due. Conservate originariamente in Palazzo Medici, ora Madama, quattro statue passarono ai Farnese e poi ai Borbone di Napoli che le assegnarono all’attuale Museo Archeologico; altre tre finirono nella raccolta Grimani che ha costituito il nucleo del Museo Archeologico di Venezia.

Tre statue, forse pertinenti al Donario, sono conservate nei Musei Vaticani, al Louvre ed ad un museo ad Aix en Provence, questa con poca probabilità in quanto di dimensioni leggermente superiori alle altre. Dalla località del ritrovamento si può pensare che le statue ornassero il Portico di Ottavia o quello di Filippo; dato che dallo stile sembrano essere databili al II secolo d.C. potrebbero appartenere ad un grande restauro dei portici avvenuto all’epoca di Settimio Severo. La mostra curata dal Coarelli espone otto immagini di barbari  morti o feriti, una è una donna, poste in una posizione forse corrispondente all’originale unitamente ad un frammento del basamento proveniente da Atene. Nella stessa sala il gruppo del Galata suicida ed un grande sarcofago di epoca severiana che rappresenta una convulsa battaglia tra Romani e barbari; fanno parte dell’ordinario arredo museale ma sono idealmente collegati alla mostra. Il titolo di questa La Gloria dei Vinti vuole significare una concezione umana e generosa del rapporto tra vincitori e vinti; i Galati sconfitti sono ammirati e rispettati, il capo che si suicida, dopo aver ucciso la moglie, si volge con sguardo di sfida verso il vincitore mentre si immerge la spada nel petto; i due Donari mostrano solo i vinti non i vincitori che infieriscono contrariamente al grande sarcofago che presenta i barbari come selvaggi che meritano di essere distrutti senza pietà. Questa differenza di sensibilità è chiaramente visibile anche confrontando la Colonna Traiana con l’Antonina, tra le due corrono poco più di sessanta anni ma lo scenario politico e militare era molto cambiato: Traiano vincitore senza problemi può permettersi di rispettare ed ammirare il vinto Decebalo, l’impero è tranquillo, il nemico è lontano, il barbaro è ostile ma non fa paura. Marco Aurelio invece ha i barbari vicini, combatte ma non vince i Marcomanni, nell’impero c’è peste e carestia, il nemico terrorizza, mette in discussione gli equilibri faticosamente raggiunti, va annientato senza pietà e considerazione.

La mostra è una esposizione accurata del Piccolo Donario corredata da cartelli esplicativi ed esibisce anche una piccola ricostruzione del Grande Donario con le esatte posizioni delle due statue esistenti e quella probabile della terza.

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06 Mostre Piccolo Donario fotonews1LA GLORIA DEI VINTI

Pergamo, Atene, Roma

Dal 18 aprile al 7 settembre 2014

Roma

Museo Nazionale Romano – Palazzo Altemps

Orario:

da martedì a domenica dalle 9,00 alle 19,45

Curatore Filippo Coarelli

Catalogo:

Electa

Informazioni e prenotazioni:

tel. 06/39967700

tel. 06/56358003

Sito web

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