Follia & Società

Oltre un anno fa’ con il progetto INQUIETA IMAGO ho riflettuto sulla follia con una serie di opere pittoriche ed una performance teatrale.

La follia mi ha sempre incuriosito forse perché i miei artisti preferiti hanno avuto brevi o lunghi soggiorni in manicomio o forse perché ho sempre pensato che se fossi vissuta 50 anni prima, avrei rischiato di finirci anch’io. Per molto tempo mi sono data solo questa risposta, ridendoci sopra, come molto spesso sorridendo ho anche pensato che se fossi vissuta in epoca medievale sarei stata messa al rogo come strega.

Vi chiederete: che c’entra?

C’entra, c’entra ma per favore non banalizzate le mie parole pensando subito alla sindrome da Calimero. C’entra perché l’istituzione del manicomio come il processo alle “streghe” o altre azioni nella storia umana sono state frutto di una società che rifiutava il cosiddetto diverso per paura o perché comprenderlo significava mettere in discussione gli elementi fondanti la società stessa, mentre stigmatizzarlo permetteva semplicemente di sbarazzarsene in un modo o nell’altro: esclusione e segregazione!

Studiando la Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, Asylums – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman e la rivoluzione fatta da Basaglia compresi che gli anni ’60 e ’70 segnarono lo sguardo di chi ha voluto comprendere realmente le ragioni dell’esclusione sociale o della malattia mentale.

Basaglia sostenne: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.

E ancora Basaglia: “una cosa è considerare il problema una crisi, e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività”. Basaglia ha tenuto conto, nella sua pratica di psichiatra, della riflessione di Foucault che ha ridato un volto umano alla storia della follia, in quanto quest’ultima non è solo storia nosografica: tra le tante testimonianze e documenti addotti nella sua ricerca Foucault presenta infatti le storie ed i testi di artisti come Artaud. Foucault con mosse da vero e proprio “archeologo” ha ricostruito il filo conduttore che ha rivoluzionato la concezione della follia e dell’internamento. La storia della follia è frutto di variabili politiche, filosofiche e sociali delle varie epoche quindi è fondamentale uscire da una misera oleografia psichiatrica.

Il tema della follia è complesso e dovrebbe essere compreso profondamente giacché l’Italia ha il primato di aver chiuso i manicomi, con la legge Basaglia del 1978. Dibattendo con persone molto più preparate di me o in prima linea perché coinvolte in campo, so che il progetto voluto da Basaglia non è stato completamente realizzato e le strutture e/o i processi che avrebbero dovuto sostituire l’istituzione manicomiale sono tuttora carenti creando difficoltà nel quotidiano di tutti coloro che sono direttamente ed indirettamente coinvolti in situazioni di disagio.

Non voglio percorrere questo punto di osservazione della tematica, non avrei né la conoscenza adeguata né le stellette in campo; vorrei invece continuare la mia riflessione dal punto di vista umano. Perché umanamente siamo tutti dentro o fuori. Come si qualifica la normalità o come la follia in un individuo? Perché questo disagio diffuso? Una volta la follia era appannaggio solo di artisti o santi – scherzi a parte, forse oggi più che di follia si parla di disagio o alienazione ma nella sostanza arrivano sempre più frequentemente notizie su atti estremi compiuti da persone che apparentemente si comportavano fino al giorno prima in una maniera coerente alle aspettative della società odierna e che l’opinione pubblica il giorno dopo etichetta impersonalmente e licenzia banalmente come “atto di follia o atto di un folle”.

La comprensione di noi stessi del disagio che ci circonda o ci appartiene, non può essere sviluppata senza un’adeguata consapevolezza di ciò che sta succedendo. Come possiamo licenziare velocemente ciò che ascoltiamo dai notiziari esprimendo semplicemente pena per le condizioni del recluso o parole  di condanna dell’atto del folle???

Cosa sta succedendo e cosa ci sta succedendo?

Tanti anni fa mi chiesi: Cosa mi sta succedendo?

Ho dovuto chiedermelo spesso: come artista volo nella mia espressione creativa e nella sensibilità che trapassa il reale e lo trasforma in significante. La parte razionale esausta si barcamenava costantemente contenendo la prima in sofferenza, senza ricevere da me una spiegazione in questo quotidiano in cui il materialismo che ormai pervade ogni ambito, annienta ogni spiritualità e concezione più elevata ed immateriale della vita e inaridisce qualunque anima. Parole poetiche e romantiche queste, che però non riuscivano a darmi una lettura dei fatti concreta. Non riuscivo a spiegare il mio giudicarmi o il sentirmi tanto estranea alla contemporaneità. In questo senso il libro di Goffmann mi è venuto in aiuto dandomi l’occasione di riflettere anche su quanto sta accadendo oggi:

«l’attore sociale è soprattutto un virtuoso della sopravvivenza in un mondo quotidiano irto di pericoli potenziali per il suo rispetto di sé o, ciò che è la stessa cosa, per il rispetto “del suo sé”»

Un tema di identità dunque che viene messa pesantemente a rischio in un’istituzione totale. Si potrebbe dire che le istituzioni totali sono solo quelle “chiuse”; ma se la nostra società odierna si stesse trasformando essa stessa in un’istituzione totale, cosa sarebbe di noi? Come potremo distinguere i comportamenti autentici da quelli adattivi di sopravvivenza? Come potremmo avere la chiara immagine del nostro sé, distinguendola dal giudizio che incorporiamo dall’istituzione totale? Come reagiremmo nel momento in cui il mondo che ci è stato inoculato entrasse in contraddizione con quel poco che rimane della nostra parte più profonda ed autentica, e non capissimo più nulla?

A volte il giudizio è il prodotto “della distanza sociale fra chi giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non dalla malattia mentale”. A volte invece di comprenderci, giudichiamo di star perdendo il senno a causa di stereotipi culturali e sociali che, in realtà, sono spesso psichiatricamente ritenuti un semplice e temporaneo sconvolgimento emotivo in una situazione stressante.

Il punto è che oltre al processo dell’accettazione di sé, auspicato da filosofie, religioni ed altre discipline, è necessario capire perché non ci accettiamo o qual è la strada per rinforzare la nostra identità.

La nostra società somiglia sempre più ad un’istituzione totale dunque dovremmo accorgerci dei meccanismi di spersonalizzazione del sé per difenderci e proteggerci e aiutare o sostenere chi è accanto a noi, processo inevitabile se vogliamo usare congiuntamente le lenti della razionalità e quelle dell’empatia.

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Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
Erving Goffman
Traduttore: F. Basaglia
Editore: Einaudi
Collana: Piccola biblioteca Einaudi. Big
Anno edizione: 2010
Pagine: 415 p., Brossura
EAN: 9788806206017

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L’acqua cheta che rode i ponti

John Niven torna in libreria con un nuovo romanzo e sicuramente i suoi fedelissimi non hanno lasciato passare molto tempo prima di catapultarsi su questa invitante e appetitosa lettura.

Per chi invece ancora non lo conosce sono sicuro che il titolo di questa nuova opera può essere una buona calamita per entrare nel suo universo: “Invidia il prossimo tuo”.  Qualcosa non vi torna? Certo, “religiosamente” parlando la forma non era questa ma, del resto si sa, John Niven ha un rapporto tutto suo con la religione.

Detto questo, di religioso qui c’è ben poco. L’autore questa volta si concentra sulla famiglia, sugli amici, sul lavoro, sull’attualità, sui soldi e su come tutte queste cose possono dare vita tra loro a mix esplosivi capaci di cambiarti la vita.

Partiamo dalla famiglia, quella del protagonista Alan Granger, un critico gastronomico molto famoso che è riuscito a raggiungere una posizione notevole nell’alta società grazie alla moglie Katie, figlia di un ricco aristocratico. Dalla loro unione sono nati Tom, Melissa e Sophie, l’emblema dell’amore(odio) fraterno. Una famiglia perfetta insomma, con la sua routine giornaliera, la sua bella e grande casa, le feste con gli amici ricchi, la donna delle pulizie ecc. ecc.

Bella cornice sporcata ad un certo punto da una vecchia conoscenza di Alan, un amico sembra, Craig Carmichael, da giovane una promessa del rock ed ora un barbone alcolizzato che il protagonista incontra per strada dopo una visita di lavoro in un ristorante.

L’inizio della fine? Chi può dirlo, Craig è davvero ridotto male, e pensare che da giovani era lui quello figo e Alan quello sfigato, invece ora guardali lì, l’esatto opposto. E’ anche vero che Alan è sempre stato quello buono, e infatti…perchè non raccogliere dalla strada un vecchio amico nel disperato tentativo di reintrodurlo nella società?

Craig sembra davvero tranquillo, tant’è che in casa (è lì che va a stare per un pò) viene subito accettato dalla famigliola felice ed è lì che il senzatetto comincia ad inserirsi pian piano nel mondo di Alan, osservando, annotando e condividendo con lui vecchie gioie come l’alcol e…altro.

Ma, cosa c’è dietro l’angolo? Apparentemente nulla dal momento che tutto sembra filare liscio per entrambi, l’invidia però si sa, è una brutta bestia, soprattutto per chi ha il suo bel caratterino.

La gente difficilmente cambia del tutto, e infatti Alan è rimasto sempre quello buono, a volte anche poco sveglio e Craig è rimasto quello che… quello che era insomma.

Non tirate conclusioni affrettate pensando che sia un romanzo scontato perchè, credetemi, non lo è.

John Niven si distingue sempre per il cinismo e l’ironia con cui riesce a raccontare le sue storie, cancellando completamente le cose scontate rendendo piacevoli invece quei tratti dei suoi personaggi che di norma darebbero fastidio.

Vi troverete a pensare che per più di metà romanzo ancora non è successo nulla di strano pur continuando a girare le pagine spinti dalla curiosità di scoprire cosa accadrà dopo ai personaggi. Un altra sbronza? Un’altra festa? Un altro progetto di lavoro fallimentare? Tante cose possibili, alcune anche prevedibili ma che non arrivano mai.

L’autore mostra come a volte essere troppo pieni di sé, soprattutto se lo si è diventati nel tempo, può rendere ciechi dinanzi alle proprie debolezze, e mostra anche, in modo estremo, di come una vita apparentemente perfetta può crollare da un momento all’altro. E i valori? Gli affetti? Possono portarti anche in direzioni sbagliate, siano esse una strada, un bicchiere di troppo o una confidenza rischiosa.

Tutti questi tasselli messi insieme formano una storia scorrevole, a volte snervante, ma mai noiosa. L’autore fa sempre capire di avere il colpo in canna e quando questo arriva… le conseguenze possono essere tragiche…

Questo è John Niven, un autore capace di fare “bang!” in tutti i suoi romanzi. (Questa era per i fedelissimi).

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Titolo: Autore: John Niven
Traduttore: Marco Rossari
Editore: Einaudi (Collana Einaudi. Stile libero big), 2018, pp. 290

Disponibile anche in ebook

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Un riflessivo Sorrentino

di Giulia Lich –

Ho letto varie critiche al film di Sorrentino, tra le quali quelle di essere un film lento. Sorrentino è un regista che cura attentamente le immagini e che spesso si lascia andare a visioni simboliche, rischiando ogni volta di cadere nell’autocompiacimento, ma la lentezza non può essere la vera accusa. Forse il film non è piaciuto ai fan di Silvio, o ai suoi peggiori detrattori, o a chi si aspettava più politica,semplicemente perché,almeno in questa prima parte, non è un film su Berlusconi, ma su ciò che siamo diventati e che saremo sempre più anche a causa di Berlusconi (cui merito /colpa è di aver dato linfa ad un bisogno ben presente in molti italiani).

Se non è sufficiente la metafora della pecora ipnotizzata dai quiz di Mike, ecco scendere in campo la lunga carrellata di corpi giovani e perfetti, ragazze spersonalizzate già in formato velina, specchio della generazione instagram di potenziali Chiare Ferragni, la cui vendita di culi e tette non rientra più nella dicotomia morale/immorale, ma è semplicemente l’unica forma amorale di esistenza.

C’è anche il connubio sesso/potere, cui propulsore sono fiumi di coca, ma fa da sfondo,così come la Roma ancora formato “grande bellezza”, protagonista di quest’eterno “basso impero” in cui tutto è già visto e da vedere.

Se un rinoceronte può correre sulla Colombo (abbiamo visto maiali, asini e cinghiali), è il ratto a innescare la deflagrazione di un camion di mondezza, sommergendo il Foro e noi stessi sotto una cascata di merda, pronta a trasformarsi nella pioggia anfetaminica booster di un’orgia perenne, cui unica finalità è la cristallizzazione in quella vita “Smeralda” non a caso anticipata dai Vanzina anni ’80.

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Loro 1

di Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Euridice Axen

durata 104 min.
Italia 2018.
Universal Pictures

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Kabul, l’esasperazione della morte

Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano, come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.

L’esasperazione della morte, indirizzata solo parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso, instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con Iran e Arabia Saudita.

Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali, raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti, raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno finalizzato a una causa.

Pubblicato 30 aprile 2018
Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

Syria Crisis- Giochi pericolosi

Talune forze, negli Stati Uniti, proprio non accettano le sconfitte e come dei bambini, in preda al peggiore dei capricci, iniziano a scalciare per ripicca ora a destra ora a sinistra. Se non fosse un film già visto ci si dovrebbe veramente preoccupare e vivere queste ultime ore che mancano all’ecatombe planetaria come se fossero gli ultimi istanti della nostra esistenza e quindi facendo tutto ciò che non ci è stato possibile fare fin’ora, ma fortunatamente non siamo ancora all’Armageddon.

Infatti, esattamente un anno fa, Trump, come oggi, era fortemente assediato per il cosiddetto Russiagate e per smorzare i toni in madre patria, verso la sua presunta russofilia, non trovò niente di meglio da fare che attaccare, nella provincia di Homs, alle 03:45 (ora di Damasco) del 07 aprile 2017, con 59 missili “Tomahawks”, la base aerea di Shayrat da cui sarebbe partito, il 04 aprile dello stesso anno, il presunto raid chimico del regime di Assad verso gli inermi civili di Khan Shaykhun. Raid che, è bene ricordarlo, allora come oggi, sarebbe avvenuto in una fase in cui l’Esercito Arabo Siriano era nettamente in vantaggio, perciò, cui prodest? Ai siriani lealisti di sicuro no!

Comunque sia, a fine operazione, gli americani avevano distrutto solo 6 vecchi Mig-23 e causato poco più di dieci vittime. Un attacco, insomma, a bassissima intensità, infatti solo 23 missili, dei 59 “Tomahawks” lanciati, raggiunsero il bersaglio, ma ciò fu sufficiente al Tycoon per avere un po’ d’ossigeno.

Nell’immediato i rapporti tra le due superpotenze sembrarono essere peggiorati di molto tuttavia – dopo che in un sol colpo il Presidente Putin è riuscito a costruire un asse tra la Turchia di Erdogan e l’Iran, chiudendo così positivamente anche la partita in Siria – gli Stati Uniti avevano annunciato, in data 07 aprile 2018, che si sarebbero ritirati dalla Siria a meno che l’Arabia Saudita  (Paese che mal vede più di chiunque altro il proseguo del regime di Assad in quell’area) non si fosse sobbarcata totalmente il costo del mantenimento delle truppe americane in Medio Oriente. In altri termini Washington sembrava aver riconosciuto ed accettato, la vittoria di Mosca e dei suoi alleati, in quella porzione di mondo, ma mentre accadeva ciò altre tegole stavano per cadere sulla testa di Trump:

  • In primis con il cosiddetto “datagate” che vede coinvolti: Steve Bannon, ex Capo stratega della Casa Bianca nonché ex VicePresidente della società Cambridge Analytica; la Cambridge Analytica, società che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale; e Facebook, uno dei maggiori social network mondiali, in quanto responsabili dell’aver influenzato e falsato il risultato delle ultime elezioni presidenziali americane;
  • Secondariamente con il “Sexgate” che vede coinvolti, in un giro di relazioni di fuoco: la pornostar Stormy Daniels; l’ex modella di Playboy Karen McDougal; e l’avvocato Michael Cohen. Quest’ultimo avrebbe provveduto a comprare il silenzio delle due signore pocanzi nominate per conto di Donald Trump.

Ora, questi due eventi, in un America così puritana e russofobica, alle soglie delle elezioni di medio termine, potrebbero seriamente mettere nei guai il Presidente Trump ed allora cosa mai potrebbe fare il Tycoon per distrarre l’opinione pubblica, assecondare le lobby militari ed i nemici interni al Partito Repubblicano, se non organizzare un attacco in grande stile verso i “cattivoni” siriani rei nuovamente di aver usato delle armi di distruzione di massa contro la popolazione inerme?

Detta così potrebbe sembrare anche un’idea geniale, degna di Niccolò Machiavelli, ma, si sa, non è cosa saggia giocare con il fuoco perché, pur non volendo, l’incendio potrebbe pur sempre divampare e, in quel caso, chi potrà mai fermarlo?In fondo, Putin, per quanto sia un uomo dai nervi d’acciaio, è pur sempre un essere umano e, in quanto tale, anche la sua pazienza ha un limite. Pazienza che è già stata fortemente messa alla prova a seguito delle false accuse mosse dal Governo britannico, nei confronti del Cremlino, riguardo l’avvelenamento di Serghej Skripall e di sua figlia Yulia, a Londra, per mano di alcuni agenti russi. 

In questo frangente la risposta di Putin a tanta infamia ed alle espulsioni dei propri diplomatici, fu perfettamente simmetrica e 150 diplomatici occidentali furono costretti ad abbandonare il territorio della Federazione Russa. Se in tal modo a volare furono solo le “Feluche” ora rischiamo concretamente che a librarsi nell’aria siano oggetti ben più pericolosi. E tutto questo potrebbe avvenire solo ed esclusivamente perché il Presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, è prigioniero:

  • del proprio ruolo;
  • di fortissimi gruppi d’interesse;
  • delle lobby degli armamenti. 

Tutte questioni che, a noi italiani poco interessano o meglio, dalle quali, per la nostra posizione geografica e per la nostra storia, non possiamo che avere solo influssi negativi. Di conseguenza ci conviene continuare ad essere alleati degli Stati Uniti? La risposta, a questo punto, è chiaramente no! E, a tal riguardo, venuto a sapere della domanda del reggente del PD, Maurizio Martina, rivolta al leader del Carroccio in merito al fatto se: << Salvini vuole cambiare le alleanze internazionali del nostro Paese? Se è così, lo dica chiaramente >> mi sento in dovere – pur non essendo il leader della Lega, ne legato a quest’ultimo in nessun modo e ne conoscendo il suo pensiero più recondito – di rispondergli in qualità di puro sovranista con un’altra semplice domanda: << Caro Martina, ma se non ora, quando? … Cosa e quanto, dovremo ancora aspettare per comprendere che continuando a seguire l’Europa, l’Euro e la Nato ben presto ci ritroveremo nel baratro più profondo? >> 

Persino un euro/atlantista convinto come il Senatore forzista Paolo Romani si è reso conto dell’inconsistenza delle accuse americane tanto da dichiarare che: “nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere, immaginare che Assad abbia utilizzato armi chimiche, che avrebbero scatenato di sicuro la reazione internazionale, oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida >> e c’è chi, come Lei, crede ancora a queste fandonie? In tal caso le questioni sono due: o chi sostiene posizioni filoatlantiste è in mala fede o non è in grado di leggere la realtà che lo circonda, e, in entrambi i casi, ciò può denotare solo una cosa: una grave incompatibilità con il ruolo che riveste, ergo non è degno di sedere in Parlamento. 

Pertanto il mio appello – come semplice cittadino, rivolto a tutto l’arco costituzionale – è quello che si uniscano tutte le forze di buona volontà affinché, nell’immediatezza della crisi, l’Italia non partecipi in alcun modo a nessuna azione militare in Siria, ne inviando truppe o mezzi, ne mettendo a disposizione le proprie basi. 

Anzi il nostro Paese, anche attraverso l’ausilio della diplomazia vaticana, dovrebbe farsi carico di una Conferenza di Pace per tentare di risolvere la Guerra Civile Siriana.

12 aprile 2018
Articolo originale

su Frontiere

 

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