La crisi umanitaria che si è abbattuta sul Sahel ha aspetti biblici con gli oltre 18 milioni di persone che affrontano la carestia, aggravata dagli sciami di cavallette, tra colera e l’instabilità politica, oltre all’approssimarsi della stagione delle piogge che metterà in pericolo quel poco di raccolto sino ad ora salvato.
Una crisi alimentare inasprita dalla siccità che sta colpendo non solo l’Africa, ma anche l’ Europa, con l’88% delle coltivazioni di mais statunitense, la Russia e l’Ucraina, riducendo il raccolto dei cereali, con le prospettive di una produzione insufficiente anche per sfamare la parte privilegiata del mondo “saziato”.
Una siccità che ha preoccupato Parigi e Washington, anche se i prezzi non hanno ancora raggiunto i livelli del 2008, tanto da fissare una videoconferenza per il 27 agosto, coinvolgendo i G20 e numerose agenzie intergovernative tra cui la FAO e l’OCSE.
Una riunione che non ha dato nessun risultato, forse i partecipanti sono stati rincuorati dal fatto che l’aumento dei prezzi del mais e della soia non è così preoccupante come poteva apparire, da poter mettere in pericolo la sicurezza alimentare mondiale ed essere occasione di rivolte di piazza, ma la continua mancanza di determinazione di organismi internazionali è sconfortante.
Se il prezzo del riso è stabile e scorte di frumento non ha raggiunto livelli allarmanti, meno tranquille sono le prospettive per la produzione prodotti direttamente influenzati dalla perdita dei raccolti di mais e soia, come la carne e il latte, ma tutto è rinviato probabilmente a Roma, a fine settembre, in occasione del passaggio della presidenza dell’AMIS (Agricultural Market Information System) dalla Francia agli Stati Uniti. Un panorama più definito della situazione alimentare si potrà avere con la pubblicazione del rapporto USDA – WASDE del prossimo 12 settembre e con gli andamenti speculativi dei mercati nei confronti delle Commodity Futures agricole.
È il mercato finanziario che riesce a trarre profitto dalle devastazioni delle cavallette e dall’instabilità politiche della Libia post elettorale, oltre che dagli scontenti popolari per l’irretirsi dei cambiamenti promossi dalle diverse formazioni filoislamiche che guidano la Tunisia come l’Egitto.
Essere islamico o solo un simpatizzante sembra non essere più una discriminante per la salvaguardia della pacifica convivenza opponendosi agli estremismi, come dimostrano le iniziative intraprese dal presidente egiziano Morsi con l’offensiva lanciata contro la strategia terroristica dei jihadisti nel Siani, attaccando i gruppi armati e distruggendo i tunnel del contrabbando verso Gaza.
Iniziativa non riuscita all’autoritario Mubarak che giocava sull’ambiguità per tenere l’Occidente sotto “ricatto”. Morsi sembra che non debba fare questi giochetti: l’Egitto riceve finanziamenti europei e statunitensi oltre che sauditi e questo influenza le scelte politiche e di campo.
In Libia si è passati dai conflitti a fuoco tra milizie agli attentati contro le forze di polizia sino all’assassinio del generale Mohammed Hadiya Al-Feitouri, ucciso a Bendasi al termine della preghiera del venerdì in moschea. Non è il primo ex ufficiale di Gheddafi che si era unito all’opposizione, alcuni giorni prima la stessa sorte era toccata all’ex colonnello dell’intelligence militare, Suleiman Bouzrida. Due omicidi che hanno dato autorevolezza all’affermazione del primo ministro uscente Abdurrahim El-Kib, rilasciata in una recente intervista a Time Magazine, intesa a rivolgere l’attenzione verso i fedelissimi di Gheddafi come artefici dei recente omicidi e non, come è opinione diffusa, ai jihadisti. L’intervista è ricca di spunti di riflessione su quale sia la realtà dell’attuale Libia e del suo futuro.
Probabilmente anche gli attentati contro gli stranieri, come l’attacco al convoglio dell’ambasciatore britannico rimasto illeso, non sono opera di milizie.
Se la Libia fa conoscenza con la democrazia a sud il Mali la perde e vive i tormenti del dopo golpe e dell’attività separatiste nella parte settentrionale, non permettendo il monitoraggio dello sciamare delle cavallette e l’impossibilità d’intervenire efficacemente per salvaguardare le colture dell’area, compresi i datteri che nel deserto hanno il loro habitat.
La penuria alimentare e i conflitti stanno costringendo, oltre a spingere i prezzi al rialzo, centinaia di migliaia di persone a migrare in cerca di posti dove potersi sfamare e sentirsi al sicuro.
Mentre nel Mali il governo ad interim è impegnato a fronteggiare i soldati che hanno destituito a marzo il precedente governo, la ribellione Tuareg ha reso l’infiltrazione dei gruppi islamisti nella regione una vera presenza d’occupazione, rendendo la situazione nel nord sempre più oscura.
I gruppi islamisti impongono la Sharia in ogni città conquistata, la musica è bandita dalle radio locali, modello dell’Afghanistan talebana, le donne rischiano di essere picchiate se trovate con il capo scoperto, mentre la fustigazione e la lapidazione sono una pratica giuridica, come nel caso della coppia che ha avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio.
Una situazione che mette in discussione l’edizione del 2013 del Festival au Désert, già pubblicizzato sul sito ufficiale, che ogni anno sin dal 2001 si svolge a Essakane, a 65 chilometri da Timbuctu, per festeggiare internazionalmente la musica, le danze e i giochi legati alla tradizione tuareg.
Il commercio, tra saccheggio e terrore, non esiste più, ogni servizio amministrativo e bancario è stato bandito, rendendo Timbuktu ora una città fantasma.
La furia iconoclasta degli islamisti di Ansar Dine e di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) si è accanita su tombe e mausolei, un bene dell’umanità riconosciuto dall’Unesco in nome dell’Islam radicale.
Ma anche chi auspica uno stato islamico ispirato dalla Sharia preferirebbe che sia una scelta e non un’imposizione di un gruppo armato il rifiuto di un’organizzazione sociale laica e dei modelli occidentali.
In questo tragico panorama un barlume di ottimismo viene dall’accordo preliminare tra Sudan e Sud Sudan sulla ripartizione dei proventi petroliferi. Una controversia sulle tasse di transito del petrolio verso un porto sudanese che all’inizio di quest’anno aveva messo in serio pericolo la già precaria pace.
La mancata estrazione ed esportazione del petrolio influenza l’oltre l’80% del bilancio del Sud Sudan e circa il 50% di quello del Sudan, mettendo in crisi delle economie fragili. A Khartoum si sono svolte sin da gennaio numerose manifestazioni contro l’aumento dei prezzi, mentre il governo di Giuba deve affrontare una crisi umanitaria con migliaia di rifugiati provenienti dal Sudan senz’acqua. Il Sud Sudan è ricco di petrolio, ma non si può bere e se non è esportato non permette di avere i proventi da investire nelle infrastrutture per migliorare le condizioni di vita della popolazione e non fomentare la corruzione ad ogni livello. Una crisi umanitaria che i Medici Senza Frontiere cercano di porre rimedio nei campi profughi, dove quotidianamente muoiono bambini malnutriti.
Così anche nel Mali soffrono di fame e di sete centinaia di migliaia di bambini, esposti a un gravissimo rischio malnutrizione e dove Save the Children è impegnata ad affrontare una crisi alimentare crescente innescata dalla scarsità dei raccolti, l’aumento dei prezzi alimentari e l’insicurezza nei paesi vicini.
La ricerca della salvezza ha attivato dei flussi migratori interni incontenibili, innescati dai conflitti, aprendo le porte agli altri tre Cavalieri dell’Apocalisse: Carestia, Pestilenza e Morte.