Dalla convinzione fondamentale che è pur convenzione radicata nell’umana esperienza, dai graffiti primordiali alle contemporanee sperimentazioni, che l’opera d’arte non è mai descrizione ma evocazione, ne derivano importanti e decisive conseguenze. Ma restiamo ad esaminare il primo passo intrapreso. Evocativa? Come e perché? Se l’opera d’arte fosse solo necessità descrittiva o illustrativa (qualità tipica degli onesti accademici o degli affaticati mestieranti) avrebbe pur ragione il superficiale spettatore che a una resa pittorica dettagliata e verosimigliante esclamasse la fatidica frase: “Bello! Sembra vero!”. Ma per questo è stata inventata la fotografia, anche se bisogna pur dire che l’artista fotografo già contempla e distorce una sua autonoma realtà. Ma il traguardo dell’artista è ben altro: egli esamina ed “usa” la realtà che lo circonda per trarne poi una inevitabile traduzione emotiva che nel genio creativo arriva ad una vera e propria diversa realtà, o dimensione evocata, nuova ed originale, un mondo a sé stante in cui sentimenti, memorie, intuizioni dell’artefice concorrono a stabilire e codificare uno spazio, un tempo, una necessità completa e perfetta, irripetibile nelle sue cifre e nelle sue leggi di volta in volta elaborate nell’assecondare il proprio percorso creativo. Ed è questa la vera “magia” dell’arte, la sua prepotente capacità evocativa nel dar vita e configurazione concreta, attraverso decisivi e geniali processi di sintesi, ad una altrimenti indefinibile congerie di sentimenti che è eredità dell’umana specie e che resterebbe appunto indefinita e inespressa se l’artista non la “evocasse” decodificandola in uno scenario che è necessaria dimensione di quei sentimenti confusi e nascosti, portandola alla superficie percettiva, all’emozione profonda e al turbamento dello spettatore che in essa poi si riconosce e si ritrova. Questo fa il poeta: traduce per sé e per tutti l’intraducibile. Ma se la realtà è pur mistero da svelare ogni volta, tale che essa si manifesta spesso ingannevole e deviante, e che per ogni essere cosciente esiste una diversa interpretazione di essa ecco che giungiamo a cogliere un’altra qualità essenziale dell’opera d’arte: essa è necessariamente ambigua. La Realtà vera, assoluta, aldilà della sua manifestazione fenomenica, per sé ambigua e sfuggente, vuole gli occhi e le mani attente dell’artista vero che attraverso un processo alchemico della materia, processo altrettanto ambiguo e deviante, arrivi con la potenza del genio poetico ad intuirla, comprenderla in una definizione che seppur momentanea, limitata e di volta in volta legata alle umane necessità emotive dell’artista, “scopre” ed “inventa” un lembo del grande Mistero. Per questo l’opera d’arte non può e non deve “rappresentare” in modo semplice e diretto quel che apparentemente manifesta: se si dipinge un albero, una foresta, un lago, una bottiglia, un atleta o un cavallo in corsa, non si vuole nella sua schietta e più o meno realistica resa racchiudere e completare la propria necessità espressiva. Il traguardo è, appunto, ambiguo e percorre strade devianti per giungere a quella che definisco “evocazione traslata”, trasferendo l’oggetto da una sua manifestazione apparentemente diretta ad un piano che intende condurre elementi e significati alla intuizione di una diversa realtà ed una diversa prospettiva emotiva. Per questo la necessità ultima di una natura morta non si esaurisce in sé, semplicemente nel rappresentare e definire i fiori, i cibi o le bottiglie che la compongono; così il tronco di un albero, o il corpo di una modella o il volteggio di un acrobata, non si soddisfano nella loro diretta qualità raffigurativa, ma essi stessi sono enigmi che l’artista conduce per vie traverse e misteriose ad esplicare una dimensione alterna e parallela alla apparente realtà, dimensione appunto “traslata” ed evocata, luogo segreto e indefinibile in cui l’artista vero raggiunge e concretizza una effettualità atemporale che è piccolo specchio e frammento dell’Assoluto, del Mistero che è nelle – cose, nel dar vita e verità ad uno spazio che è ragione profonda di sé e del nostro esistere.
Caro Luigi ciao
Come sempre un articolo dove si esprime tutta la storia del arte, molto chiaro e corretto. E vero che quanto le
imagini delle opere si ripetono,e sono stereotipate, perdono l,espressivita e l,originalita. Per esprimere emozioni, o messaggi personali, deve uno essere in continua ricerca di superamento di questi stereotipi, che e piutosto difficile, perch’e il risultato non e sempre positivo. Uno deve seguire unpercorso guidato,per scoprire quelli segni che lo possono portare ad esprimere una vera bellezza.
Fino a un certo punto, ti ho seguito in questo percorso, e sono molto felice per questo,adesso cerco di continuare da sola, e non so se ci riesco
Luigi tanti auguri ,per l,anno nuovo, e spero di ritrovarci presto
Tanti auguri anche a Roberta
Con grande affetto Georgia
Condivido questo interessantissimo articolo che mi aiuta a riflettere “Ma se la realtà è pur mistero da svelare ogni volta, tale che essa si manifesta spesso ingannevole e deviante, e che per ogni essere cosciente esiste una diversa interpretazione di essa ecco che giungiamo a cogliere un’altra qualità essenziale dell’opera d’arte: essa è necessariamente ambigua. ”
Complimenti professore !!
Veramente interessante considerazione. Le rappresentazioni soggettive di un medesimo “oggetto”, nell’arte come nella vita, sono ovviamente infinite quanti possono essere i soggetti stessi che si esprimono. Ma la dimensione della “profondità” espressiva è pure, attraverso meccanismi in gran parte misteriosi, percepibile dal fruitore dell’opera d’arte…In cosa mai consisterà questa “profondità”? Secondo me dal livello dell’artista che, prima ancora della bravura tecnica, è dato dalla sua stessa personalità che si esprime. E qui non potremmo fare a meno di affrontare un discorso che sconfina nella sfera della spiritualità…
Maurizio Bortolucci