Gramsci: a 80 anni un pensiero più vivo che mai

AP Gramsci          Antonio Gramsci è considerato uno dei politici e degli intellettuali italiani più studiati a livello internazionale. A ottanta anni dalla sua morte dovuta alla carcerazione fascista, il 27 aprile 1937, la diffusione internazionale degli studi sul suo pensiero sono in costante crescita. La Bibliografia gramsciana, curata da Francesco Giasi e da Maria Luisa Righi con la collaborazione dell’International Gramsci Society, raccoglie ad oggi 19.828 unità bibliografiche (cioè volumi, saggi e articoli su Gramsci pubblicati dal 1922 e pubblicazioni e traduzioni degli scritti di Gramsci dal 1927, fino ai giorni nostri)[1]. Guido Liguori ricorda che dal 1997 ad oggi, solo in Italia sono stati pubblicati «circa 180 volumi (libri o numeri di rivista monografici) di o su Gramsci, mediamente uno al mese per oltre quindici anni»[2]. Liguori è peraltro autore proprio quest’anno di un interessante volume sugli scritti gramsciani relativi alla rivoluzione russa (della quale ricorre il centenario)[3]. Una nuova biografia è stata invece curata, sempre quest’anno, da Angelo D’Orsi[4], che dal 2015 dirige la rivista “Gramsciana”[5].

La statura intellettuale e politica di Gramsci sembra quindi aver resistito alla crisi del socialismo e del movimento operaio internazionale. Ciò probabilmente perché, come ha scritto Michael Walzer, la vita e le opere dell’intellettuale sardo sono destinate a «sollevare questioni controverse» che derivano «dal rapporto carico di tensione […] tra la scienza marxista e la politica della classe operaia»[6]. D’altronde, quello fra il Gramsci studioso e il Gramsci dirigente politico è un rapporto che difficilmente può essere disgiunto, non fosse altro perché, come ha ricordato Eric Hobsbawm, esso si attuò attraverso il PC(d’)I[7].

Proprio per questo, in un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla crisi di credibilità e di fiducia dei partiti politici tradizionali, la riflessione gramsciana sugli intellettuali, sviluppata nei Quaderni del carcere, assume ancor oggi un evidente significato e, diciamolo pure, un discreto fascino. Si tratta di una riflessione mai disgiunta da quelle che l’intellettuale sardo portò avanti, fra il 1929 e il 1935, sul partito, sul rapporto fra Stato e società civile nei Paesi a capitalismo avanzato, sull’egemonia, ecc.

            Stato e società civile

Di fronte alla sconfitta subita dal movimento operaio e rivoluzionario in Italia e in Europa ad opera della reazione borghese e del fascismo intorno agli anni Venti del Novecento, Gramsci analizza le società industriali occidentali, ritenendo che non sia sufficiente la mera presa del potere politico, ma sia necessaria una battaglia per quella che Walzer ha chiamato «la “conquista” della società civile […] una lotta culturale lunga e faticosa in cui il nuovo mondo soppianta lentamente, dolorosamente quello vecchio»[8].

Questa “guerra di posizione”, questa battaglia per l’egemonia nella società civile sarebbe dovuta essere, secondo Gramsci, la natura dello scontro di classe in Europa dopo la sconfitta della rivoluzione in Europa occidentale[9].

            Il ruolo degli intellettuali

Le funzioni di egemonia e di dominio politico, esercitate rispettivamente nella società civile e nello Stato vengono svolte, secondo Gramsci, dagli intellettuali:

Gli intellettuali sono i “commessi” del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso “spontaneo” dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce “storicamente” dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione; 2) dall’apparato di coercizione statale che assicura “legalmente” la disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo viene meno[10].

Per il comunista sardo, l’attività intellettuale è presente in tutte le attività umane, ma nelle condizioni contemporanee non tutti gli uomini e le donne svolgono quelle funzioni intellettuali mirate al conseguimento dell’egemonia sociale e del dominio politico di una classe sull’altra. Di fronte alla figura dell’intellettuale tradizionale, che si autorappresenta come autonomo e indipendente dalle classi sociali dominanti[11], Gramsci individua un nuovo tipo di intellettuale, definito in base alla sua funzione di organizzatore nella società e in tutte le sfere della vita sociale[12], sebbene sia nelle sovrastrutture dello Stato e della società civile che la loro funzione si dispiega, si struttura e, per certi versi, si rende autonoma (sia nel campo dell’egemonia sociale, sia in quello del dominio statale).

Già durante il Congresso di Lione del PCI nel 1926, Gramsci aveva respinto la concezione (molto diffusa anche a sinistra) dell’intellettuale che «crede di essere il sale della terra e vede nell’operaio lo strumento materiale dello sconvolgimento sociale, e non il protagonista cosciente e intelligente della rivoluzione»[13]. Con le lotte sindacali e le occupazioni delle fabbriche (1920-21), la classe operaia italiana aveva dimostrato nel primo ventennio del Novecento di saper dirigere gli aspetti tecnici della produzione capitalistica; si trattava a quel punto, secondo Gramsci, di acquisire la capacità di dirigere quelli “politici”[14]. Il concetto gramsciano di “intellettuale organico” quindi permette, come ha scritto Walzer, di ricomporre «l’homo faber» con «l’homo sapiens», nell’interesse non di una classe o di un gruppo sociale, ma della «società nel suo insieme»[15].

La teoria gramsciana sugli intellettuali è inoltre interessante anche per un altro aspetto, che (nell’epoca del cosiddetto “capitalismo cognitivo” in cui viviamo oggi) assume un’importanza non secondaria. Secondo il comunista italiano, si stava assistendo a un ampliamento della categoria degli intellettuali, una “massificazione” che «ha standardizzato gli individui […], determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, superproduzione scolastica, emigrazione, ecc»[16]. L’avverarsi di questa intuizione gramsciana è oggi dispiegato al massimo livello, come dimostra la precarizzazione molte attività intellettuali e/o tecniche specializzate.

Partito politico, rivoluzione passiva ed egemonia

La riflessione gramsciana sugli intellettuali non può essere scollegata da quella sul partito politico e sui suoi rapporti con la classe operaia e con gli intellettuali come massa. Per Gramsci, il partito svolge il ruolo di saldatore «fra intellettuali organici di un dato gruppo, quello dominante, e intellettuali tradizionali»[17]. Un’altra funzione fondamentale del partito è quella di elaborare i propri intellettuali: politici qualificati, dirigenti, militanti, capaci di sviluppare una lotta di classe egemonica in tutti gli apparati egemonici della classe dominante (scuole e università, mezzi di informazione, sindacati, associazionismo, anche la Chiesa, ecc.), e in grado, come è stato ricordato nel paragrafo precedente, di svolgere tutte le funzioni intellettuali previste in una società “integrale” come quella capitalistica[18].

Per Gramsci, chi milita nel partito deve essere al tempo stesso un “dirigente proletario” (alla testa, cioè, delle lotte della classe operaia) e «un nuovo tipo di filosofo», intendendo per filosofia «un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale». Queste funzioni comportano, per l’intellettuale di partito, una costante opera di mediazione fra la spontaneità del conflitto sociale e la direzione consapevole della politica intesa come scienza.

Tuttavia questa “saldatura” non è possibile se non si ha consapevolezza dello Stato, della sua essenza, dei suoi meccanismi fondamentali di funzionamento.

Proprio dagli studi sul Risorgimento e sullo Stato unitario italiano, Gramsci elabora tre concetti principali: il concetto di rivoluzione passiva, che sta ad indicare processi di trasformazione politica guidati “dall’alto” che non rivoluzionano le sovrastrutture, non instaurano un nuovo Stato né un nuovo apparato egemonico; quello di egemonia, inteso come «messa in opera di meccanismi destinati ad assicurare il consenso delle masse per una politica di classe (poggiando, del resto sulla forza)», da non ridurre alla categoria marxista di ideologia dominante, o al concetto weberiano dei meccanismi di legittimazione; a questo, infine, è legato il concetto di crisi di egemonia (detta crisi organica), ossia la strategia attraverso la quale la classe operaia si rende autonoma e si costituisce a sua volta in classe egemone. Questa strategia, come è stato brevemente esposto in precedenza, è la guerra di posizione, «che permette alla classe operaia di lottare per un nuovo Stato»[19].

Conclusioni   

Il tentativo originale di declinare la teoria marxista e la strategia politica leninista sulla base del contesto storico, sociale, politico e culturale italiano, non fu solo fra i pochi particolarmente significativi nella prima metà del secolo scorso, ma ancora oggi riveste una importanza non marginale: il rapporto fra Stato e società civile; la funzione egemonica di una classe sociale dominante attraverso la figura dell’intellettuale “organico” e attraverso la “rivoluzione passiva”; la “guerra di posizione” come processo di “contro-egemonia” delle classi subalterne che producono i propri intellettuali organici e attirano a sé quelli tradizionali; sono cardini interpretativi che ancora oggi, pur in condizioni profondamente mutate rispetto a quelle di 80 anni, possono contribuire non poco alla comprensione dei meccanismi di funzionamento delle post-democrazie contemporanee, e (auspicabilmente) ad elaborare e sperimentare percorsi – chissà, strategie? – di superamento, “rivoluzionarie” avrebbe detto Gramsci.

 

[1]      http://www.fondazionegramsci.org/bibliografia-gramsciana/.

[2]      G. Liguori, Gramsci conteso. Interpretazioni, dibattiti e polemiche. 1922-2012, Editori Riuniti university press, Roma, 2012, p. 11.

[3]      G. Liguori, Come alla volontà piace, Castelvecchi, 2017.

[4]      A. D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, Milano, 2017.

[5]http://www.mucchieditore.it/index.php?option=com_virtuemart&page=shop.product_details&category_id=23&product_id=2234&Itemid=4&lang=it

[6]      M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 109-110.

[7]      E. J. Hobsbawm, Note su Gramsci, in I rivoluzionari, Einaudi, Torino, 2002, p. 330.

[8]      M. Walzer, L’intellettuale militante, op. cit., p. 112.

[9]      E. J. Hobsbawm, Note su Gramsci, cit. p. 344.

[10]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 2, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 20-21.

[11]     Ivi, p. 16.

[12]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. primo (quaderni 1-5), Einaudi, Torino, 1977, p. 37.

[13]     A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino, 1971, p. 504, cit. in C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 43.

[14]     A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. 2, Gli intellettuali, op. cit., p. 18.

[15]     M. Walzer, L’intellettuale militante, op. cit., p. 114.

[16]     A. Gramsci, Gli intellettuali, cit. p. 22.

[17]     A. Gramsci, Gli intellettuali, cit. p. 24.

[18]     C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, op. cit., p. 52.

[19]     C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, op. cit., pp. 73-77.

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