Nella classifica dei ‘top fourteen’ sauditi che sfoggiano riserve di petrodollari e ingenti capitali, posti all’inferno dal focoso Mohammed bin Salman, la vetta spetta di diritto ad Al-Walid bin Tatal (17 miliardi di dollari) ben piazzato anche nella graduatoria mondiale dei Paperoni. Poi compaiono Bakr bin Ladin, magnate di un gruppo finanziario familiare che vanta 7 miliardi, e l’ex erede al trono, cugino di MbS e nipote di re Salman, Mohammed bin Nayef, a capo di un proprio network finanziario quotato 6 miliardi di dollari. Il suo gruppo viene citato anche nella famosa inchiesta sui ‘Panama Papers’. A pari merito, dunque ancora con 6 miliardi di dollari, c’è Waleed al-Ibrahim proprietario della MBC Company. Staccati Saleh Abdullah Kamel, il cui Dallah Albaraka Group vanta 2.2 miliardi. Segue Amr al-Dabbagh, con l’omonimo network stimato a un miliardo e mezzo di dollari, mentre staccati risultano due ex ministri: Adel Faqih, fino a qualche giorno fa responsabile di Economia e Pianificazione (470 milioni di dollari) e Ibrahim al-Assaf (390 milioni) alle Finanze. Quindi compare Mitaab bin Abdullah, figlio del defunto sovrano Abdullah e potentissimo capo della Guardia Nazionale, accreditato di un network di 110 milioni di dollari. Accusati di “corruzione” anche Khaled Al-Tuwaijri, capo della Corte Reale, Nasser bin Aqeel Al-Tayyar, fondatore di un omonimo gruppo finanziario, i boss della Saudi Air Force, Turki bin Nasser, e di Saudi Telecom Saud Al-Dawish, infine il Governatore della provincia di Riyadh, Turki bin Abdullah. Di quest’ultimi cinque, tutti coinvolti in affari privati e di governo, non si conosce l’entità delle fortune. Ma le fortune e gli arricchimenti personali era prassi consolidata fra i dignitari della monarchia Saud, perciò gli osservatori imputano al principe ereditario un disegno volto a una certa resa dei conti interna al Paese per attuare una radicale trasformazione della governance.
Due i blocchi da scardinare: il potere dei clan familiari e quello religioso. C’è chi sostiene che la divisione di ruoli durante il regno – prendiamo ad esempio quel che era accaduto nel 2015 con la salita al trono di Salman senior che aveva scelto per erede un nipote, mentre suo figlio s’occupava della Difesa e il figlio del defunto re Abdullah presiedeva un posto di gran potere (la direzione della Guardia Nazionale, il corpo armato che difende la monarchia) – avesse fatto il suo tempo. Un po’ come accade in certe “democrazie” occidentali e nelle autocrazie sparse ovunque nel mondo, il consolidato sistema dell’accentramento di potere diventa la carta giocata dal giovane e ambizioso principe. L’arresto seppur dorato, è il caso di dirlo, visto che i fermati sono guardati a vista nelle lussuose camere del Ritz-Carlton hotel di Riyadh, ha la funzione di strigliare capi e rampolli delle famiglie che contano, per far comprendere che la nuova via prevede una profonda trasformazione. Magari – ipotizziamo noi – si sorvolerà su affari e finanze private, purché queste non interferiscano con le strategie statali, sempre più proiettate verso partnership economiche che prevedono diversificazioni dall’unica fonte dei petrodollari, e non ostacolino l’interesse crescente di un’egemonia saudita nell’area mediorientale. Costi quel che costi, scontro compreso. Tale linea Salman junior l’ha già proposta nella questione yemenita, ora sembra allargarla al Libano, visto che in questi giorni diventa il nume tutelare di Hariri junior che, dimettendosi da premier, ha dichiarato di non voler fare la fine del genitore, morto in un attentato nel 2005. Mohammed bin le prova tutte, e per praticare una strategia che lo renda attraente non solo sulle piazze economico-finanziarie, rivolge l’attenzione anche all’Islam wahhabita, presente in Arabia dal periodo dell’ideologo-propugnatore (XVIII secolo) e ampiamente radicato nella tradizione socio-politica interna.
Eppure qualche sheikh aveva già manifestato l’idea di limitare la rigidità delle consuetudini che creano imbarazzo nei rapporti internazionali sul tema femminile: la repressione delle donne attraverso la pubblica fustigazione, la proibizione di frequentare determinati ambienti di svago, il divieto di condurre vetture, per non parlare della lapidazione quale condanna di adulterio. Le recenti riforme che cancellano alcuni divieti mirano a questo, come pure la perdita di autonomia subìta dalla ‘Polizia religiosa’ posta sotto la giurisdizione del ministero dell’Interno. L’idea che l’Islam moderato possa trovare pratica e seguito anche nella nazione che si ritiene depositaria del vero Islam e prima inter pares nella Umma musulmana sembra essere il viatico dell’azione di MbS, ormai sovrano in pectore. Ma certi conoscitori della cultura, dell’ambiente e anche della politica di quel mondo hanno pubblicamente affermato “Chi s’aspetta un approccio non religioso dalla politica dei Saud, sta sognando a occhi aperti”. Altri osservatori parlano di un passaggio verso posizioni meno radicali, non certo di una negazione delle radici. E non scompare il preconcetto di chi non si fida affatto. Di chi sostiene che tutta questa manovra sia una tattica rivolta ai principi-parenti, vicini e lontani, e ai religiosi solo per ottenere maggior potere per una persona: se stesso. Così in questa sorta di gioco dell’oca che avviene in questi mesi in Arabia Saudita, la costante confermata su più terreni è la nascita e il consolidamento di uno strapotere che trova in Mohammed bin l’uomo del presente e del futuro. Per un domani che si propone molto meno tranquillo del passato, sia all’interno, sia nell’area del Golfo, sia in Medioriente.
Pubblicato mercoledì 8 novembre 2017
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