Tra una Costituzione disattesa o un eccesso di difesa

Da dove iniziare? Naturalmente dall’articolo 11 della Costituzione:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

L’Italia dunque rifiuta la guerra, tant’è vero che lo ha messo per iscritto e a chiare lettere. Ma è proprio vero? Storicamente lo è, ma solo dopo la disastrosa sconfitta militare che ha spazzato via il regime fascista e la monarchia che lo aveva appoggiato. Fino a quella data l’Italia di guerre ne ha fatte tante, con alterne vicende e col supporto di un apparato ideologico superato solo da pochi anni. Il libro di Andrea Santangelo a dire il vero inizia da molto lontano, addirittura dalla preistoria e protostoria italiche, mentre forse troppo poco è dedicato ai decenni più recenti. Che le legioni romane siano un esempio perfetto di grande unità funzionale ai fini strategici di Roma lo sapevamo, com’è assodato che le guerre italiane sono passate dai professionisti al popolo grazie alle guerre napoleoniche, lasciandosi alle spalle le compagnie di ventura e le guerre dinastiche. L’excursus storico copre mille anni, ma in effetti senza leggerlo è difficile capire come mai una penisola in mezzo al Mediterraneo possa essere, a seconda delle epoche, troppe volte terra d’invasione (anche ora) e quasi mai potenza egemone. In senso negativo hanno influito sicuramente il frazionamento politico che segue la caduta dell’Impero Romano, il feudalesimo, il potere temporale dei Papi e così via. Ma arriviamo finalmente all’unità d’Italia, guarda caso attraverso le guerre d’Indipendenza, tre per i manuali scolastici, quattro con la Grande Guerra secondo la vecchia ideologia. L’Italia a quel punto cosa fa? Ambisce al ruolo di media potenza e, pur priva di risorse, sgomita per entrare nel concerto europeo, cerca di conquistare colonie e devolve alle forze armate parte consistente del PIL, introducendo la leva obbligatoria e stabilendo la centralità dell’Esercito nella vita sociale italiana. La guerra poi può anche deflettere verso l’esterno le tensioni sociali, come sanno tutti i nazionalisti. La dinastia sabauda poi ha origini e tradizioni guerriere e le ribadirà fino alla fine, anche se nessuno dei Savoia regge il confronto con gli antenati: Emanuale Filiberto comandante dell’invitta 3° armata nel 1917 è un mediocre stratega e il Duca d’Aosta che si arrenderà ad Amba Alagi nel 1941, in quei frangenti altro non poteva fare. Quanto a Vittorio Emanuele III, si fa sempre ritrarre in divisa e nella Grande Guerra è il Re Soldato che visita tutti i reparti, ma nel 1943 lascia i soldati al loro destino. Quanto abbia influito nel Regno d’Italia lo spirito di casta dei militari di alto grado legati al Re ma nei fatti poco preparati al loro mestiere è comunque un argomento trattato nel libro. Sia chiaro: in Italia il concetto di casta è relativo, visto che agli alti gradi delle FF.AA poteva arrivare anche la piccola e media borghesia di provincia, ma quello dei militari di carriera era ed è rimasto per decenni un mondo a parte. Peccato che l’autore non vada in profondità, perché la Grande Guerra ha messo in crisi un sistema intero e perché alla fine le guerre italiane si somigliano tutte, comprese le attuali c.d. operazioni di pace: la mancanza di risorse spinge ad alleanze temporanee, le decisioni politiche non vengono affrontate in modo coordinato; le operazioni militari sono inizialmente assai caute, lente, e il dispositivo militare si dimostra sempre sottodimensionato e inesperto, salvo imparare la lezione a proprie spese e se il nemico gliene lascia il tempo. Il risultato è quindi alla fine sempre inferiore alla spesa e lo sforzo richiesto agli italiani supera il preventivo iniziale. Niente di che meravigliarsi se a livello popolare esercito e guerre non sono la passione degli italiani. Andrebbe però meglio analizzato il rapporto profondo che lega gli italiani alla propria classe dirigente, visto che le guerre non si fanno senza un consenso collettivo. Il Fascismo ha cercato di ottenerlo, ma nella riforma delle proprie forze armate ha inciso solo sulla forma (scenografica) e non sulla sostanza, affrontando una guerra mondiale con un esercito buono per quella precedente, e non incidendo assolutamente sulla casta militare sabauda, antiquata e poco aggiornata sulla guerra moderna. E’ vero che l’esercito era del Re, ma le Camicie Nere (MVSN) non erano certo meglio comandate, addestrate ed equipaggiate dei reggimenti di linea. Di questo il libro poco parla, ma sarebbe invece un ottimo argomento di studio. Già comunque lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) aveva notato che il Fascismo ha sempre cercato la guerra ma poco si dava da fare per organizzarla in modo moderno. Ma passiamo al dopoguerra: l’Italia ha perso tutto, è stata devastata da sud a nord e sia popolo che nuova classe politica di guerra non ne vogliono più sapere. L’Italia però entra nella NATO nel 1948 e fino alla fine della Guerra Fredda (1989) avrà precisi obblighi militari, subordinati agli USA, che hanno interesse ad avere basi militari proprie e considerano il nostro paese strategicamente importante. Sono gli anni dell’egemonia democristiana, ma anche quelli in cui tutti gli italiani maschi hanno fatto il militare nell’arco geografico che va da Bolzano a Trieste. Ma sono comunque anni di pace, mentre nell’arco della loro vita i nostri nonni e padri hanno fatto anche due guerre. Da trent’anni a questa parte abbiamo poi scoperto (o riscoperto) la nostra vocazione internazionale e accettiamo di mandare soldati ovunque la pace sia minacciata, cioè quasi dappertutto. Le c.d. operazioni di pace sono affidate ragionevolmente a soldati professionisti e il bacino di reclutamento è assicurato dalla disoccupazione meridionale, ma bisogna prendere atto che la loro qualità – ufficiali e sottoufficiali compresi – è sicuramente migliorata e la loro esperienza preziosa. Rimane aperta la questione di cui si parlava prima: quali sono gli interessi nazionali e come vengono prese le decisioni politiche? Ci siamo fatti invischiare in Iraq e in Afghanistan; la Folgore nel 2000 l’abbiamo mandata persino a Timor Est, mentre in Libia nel 2011 la guerra ce la siamo fatta da soli, né ancora si capisce bene come vogliamo gestire il problema dei migranti e di chi traffica sulle loro vite. Sappiamo ora dalla TV che manderemo soldati in Niger, ma – per carità – non combatteranno. Nel frattempo ci si è accorti di quanto costa un esercito professionale e si vorrebbe reintrodurre una sorta di servizio militare ausiliario. Purtroppo l’instabilità politica italiana non aiuta né ha mai aiutato la strategia. Infine, nell’ultimo capitolo l’autore ipotizza la natura delle guerre del futuro, compresa la cyberwarfare. Che dire? Chi fa la guerra non produce armi e noi le esportiamo. La guerra elettronica è una eccellenza russa e americana, mentre noi europei ancora non riusciamo a coordinare un’industria bellica comune. Sul terrorismo nulla di originale; sulla resilienza dell’italiano medio di fronte alle varie crisi imposte dalla globalizzazione poche righe. Ma lascerei aperto il capitolo, anche se scritto nel 2017: le operazioni russe in Siria suggeriscono la sopravvivenza di operazioni militari tradizionali integrate da guerra irregolare, i c.d. conflitti misti. Mai fare l’errore di prepararsi a combattere un solo  tipo di guerra. E soprattutto, non rimuovere il problema. Fino alla Guerra Fredda la guerra veniva chiamata col suo nome, ora si parla solo di pace, anche quando si mandano i soldati in missione in zone dove si spara. Parlate coi militari e sentite cosa ne pensano delle belle parole riservate al telegiornale! Indicativa poi è la storia del 4 novembre: fino al 1976 era festa nazionale ed era ufficialmente il giorno della Vittoria (del 1918); successivamente è stato derubricato e ogni anno viene ribattezzato e ridefinito in una maniera diversa. Se anche la guerra è stato l’elemento che ha unito l’Italia e gli italiani, perché negarlo? E per una volta che abbiamo vinto noi, perché dobbiamo vergognarcene? Come si vede, l’Italia è ancora un paese politicamente giovane.

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L’Italia va alla guerra.
Il falso mito di un popolo pacifico
di Andrea Santangelo

Editore: Longanesi, Milano, 2017, pp. 199
Prezzo: € 16,90
EAN:9788830448261

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