UN SAHEL DI GUERRA E FAME

A sud dell’Egitto il Sahel periodicamente minacciato dalla carestia, in un Sudan in piena crisi economica dovuta anche dall’indipendenza del Sud Sudan e dalla conseguente perdita dei pozzi petroliferi, il governo sudanese lo affronta con tagli e austerità, ricetta politica riconosciuta in tutto il Mondo. Trovarsi all’improvviso con tre quarti della produzione di petrolio in meno e la conseguente perdita di entrate in valuta straniera rende gli equilibri interni di ogni stato precari e non fa eccezione il Sudan portando la popolazione a manifestare contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la progressiva perdita del potere d’acquisto.

Un’ondata di proteste che non tende ad assopirsi e continuamente affrontata con la solita esuberanza dei governi autoritari, com’era già successo l’anno scorso in occasione del “risveglio” arabo, rende la presidenza di Omar al-Bashir una tra le più amate nella galassia araba.

Mentre il Sudan non ha soldi per vivere e il Sud Sudan non ha acqua per dissetarsi i funzionari corrotti della giovane nazione rubano una cifra stimata in 4 miliardi di dollari. Non è il petrolio a fare ricco un paese, ma la pacifica convivenza, ciò che manca al vicino Mali, che sconvolto dal colpo di stato di marzo sembra non esistere più. I militari del Comitato Nazionale per il Recupero della Democrazia e la Restaurazione dello Stato (CNRDR) sembrano incapaci di affrontare gli indipendentisti Tuareg che, alleandosi con gli islamisti in cerca di una jihad, hanno colto l’occasione per decretare lo stato dello Azawad nel settentrione del Mali.

Ora il Movimento Nazionale per la Liberazione di Azawad (MNLA) dei Tuareg sembra essere vittima della mortale stretta dei salafiti dell’Ansar Dine.

Della Timbuctu di Bruce Chatwin, raccontata in L’anatomia dell’irrequietezza, resterà solo un lontano ricordo con le attuali scorribande di bande armate impegnate a demolire antiche vestigia, trasformata in un’enorme prigione a cielo aperto per quella popolazione che non è riuscita a fuggire e tutto in nome di un islam “purificato” dalle contaminazioni ancestrali e dal turismo occidentale, come era già successo in Afghanistan con la distruzione dei Buddha di Bamiyan, nel 2001 per opera dei Taliban, sei mesi prima dell’11 settembre.

Della Timbuctu, mitica città uscita da una favola, un miraggio nel mezzo del deserto con l’imperante presenza jihadista dedita alla distruzione di sepolcri e portali inseriti dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’umanità rimarrà poco.

La crescente influenza del gruppo Ansar Dine, da poche centinaia di militanti in tutto il Sahel di poche settimane ora si sono moltiplicati sino a centinaia di armati solo nel Mali, mette in discussione l’edizione del 2013 del Festival au Désert che ogni anno sin dal 2001 si svolge a Essakane, a 65 chilometri da Timbuctu, per festeggiare internazionalmente la musica, le danze e i giochi legati alla tradizione tuareg già pubblicizzato sul sito ufficiale.

Le notizie da quei luoghi sono frammentarie, ma a quanto riferiste il quotidiano britannico Guardian le popolazioni mal sopportano la presenza dei ribelli islamisti distruttori e fustigatori dei costumi nativi, soprattutto perché provenienti da paesi come Algeria o Pakistan, una rabbia che ha portato numerosi giovani in piazza e centinaia di volontari si preparano ad affrontarli con le armi.

Un’instabilità politica che prosegue anche nella Libia post elettorale e nel Mali continua a non permettere di monitorare lo sciamare delle locuste per mancanza di piogge nel Sahel e nell’Africa occidentale, senza poter intervenire efficacemente per salvaguardare le colture dell’area.

Una situazione di conflitto che apre la strada agli altri tre Cavalieri dell’Apocalisse: Carestia, Pestilenza e Morte.

Gruppi integralisti affiliati ad Al Qaida au Maghreb islamique (Aqmi), milizie tribali e la proclamazione dei tuareg dello Stato indipendente dell’Azawad, sono fattori d’insicurezza che coinvolgono anche la frontiera libico-algerina suscitando nostalgie del passato nei governi occidentali per la stabilità garantita dai regimi autoritari e nelle popolazioni che preferiscono essere tutelate da un solo dispotico piuttosto che essere spettatori della libertà di tanti prepotenti. E nulla sarà come prima.

 

Gianleonardo Latini

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