Denis Mack Smith lo vidi quando ero studente di liceo: al ridotto del teatro Eliseo (oggi Piccolo Eliseo) c’era l’abitudine dei Martedì letterari, e lo storico fu invitato a presentare al pubblico italiano la sua Storia d’Italia dal 1861 al 1969. L’opera era stata pubblicata da pochi mesi ma già aveva creato un vespaio: rifiutata dall’Accademia, piaceva invece al pubblico italiano, sedotto dallo stile semplice della narrazione, dalla precisione delle fonti e dal taglio innovativo dell’analisi storica. Ostile invece la casta universitaria e istituzionale, a cominciare dall’Istituto italiano per il Risorgimento e giù a caduta le varie cattedre di storia moderna. Quando feci l’esame di Storia del Risorgimento nel 1973 con la Morelli – non per niente detta “la vedova di Mazzini” – guai a nominare “l’inglese”. Il testo di base era ancora l’Omodeo, dove c’erano frasi come questa: “<Cavour> da giovane si coricava sognando non di diventare un giorno primo ministro del Regno Sabaudo, ma bensì primo ministro del Regno d’Italia”. Niente di strano che noi giovani fossimo invece affascinati da un testo che, oltre ad essere scritto da un allievo di Trevelyan (molto apprezzato da mio padre), guardava la nostra storia dall’esterno e senza pregiudizi: Mack Smith non era in quota a nessuno, non cercava voti dai partiti né una cattedra universitaria in Italia.
Intanto, i protagonisti del Risorgimento erano riportati alla loro dimensione umana. Dalle scuole elementari fino all’università, nelle piazze e davanti ai monumenti ai caduti la storia italiana era stata per cento anni gestita come una religione laica, con tanto di santi, sacrari, reliquie e miracoli. Che l’unità d’Italia fosse stata un miracolo forse era anche vero, nel senso di essere la risultante di un insieme di circostanze eccezionali abilmente (ma non sempre) sfruttate dalle classi dirigenti e dalle forze che animavano la società italiana. Ma si trattava di uomini, non di santi. E qui Mack Smith smonta la retorica di Stato: Vittorio Emanuele non era il re galantuomo della storiografia di corte, ma un rozzo cacciatore di fagiani e di donne analfabete. Ma anche Garibaldi – assai più onesto del suo sovrano – i figli li ha sempre fatti con donne di bassa estrazione sociale. Cavour? Un abile tessitore – e fin qui lo sapevamo – ma anche meschino e arrivista, e neanche tanto rispettoso del parlamento. Ma nel gioco politico sicuramente era più lungimirante degli altri, anche se gli obiettivi erano in realtà più limitati di quanto la storiografia ufficiale avrebbe fatto credere in seguito. E’ come se Cavour, il Re, Mazzini e Garibaldi si fossero trovati a gestire una situazione che loro stessi avevano creato, forse intuendone le dinamiche possibili, ma senza saperne realmente valutare gli sviluppi e le conseguenze di lungo termine. Il risultato si sarebbe visto dopo: coalizioni deboli e quindi instabilità parlamentare, monarchia tutt’altro che super partes, leggi elettorali tardivamente adeguate alla nuova società, mancanza di rappresentatività di alcune classi sociali e dei cattolici, peso eccessivo dei notabili locali, squilibri sociali tra le regioni (ereditati ma non risolti neanche oggi), politica estera altalenante e infine nazionalismo, militarismo e colonialismo sfruttati in modo spregiudicato per compensare le tensioni sociali e defletterle verso l’esterno. Da buon inglese, Mack Smith nota che l’Italia è l’unico paese che con le colonie ci ha perso: infatti le motivazioni coloniali non erano economiche, anche se da Crispi in poi se ne intuisce la forza aggregatrice sull’opinione pubblica. Stesso discorso con i sacri confini della Patria.
Ma il nostro autore avrebbe ancora scandalizzato il belpaese quando si occupò di Mussolini, attirandosi anche gli strali di De Felice e levandogli il monopolio del revisionismo. A leggere Le guerre del Duce (1976) e Mussolini (1982) c’è da divertirsi, se non fosse in realtà una tragedia nazionale. In sostanza, Mussolini era un opportunista ossessionato dal Potere, prigioniero della sua autoesaltazione, padrone dei mass-media dell’epoca, intelligente in politica ma autocratico e incompetente sul piano militare. Dati alla mano, Mack Smith dimostra che il Fascismo (“parola italiana per un’invenzione italiana”) ha sempre cercato la guerra ma non si è mai preparato per farla, coi risultati che sappiamo. Purtroppo Mack Smith non si è mai occupato di Berlusconi. Ha seguito amorevolmente la nostra storia fin dove la sua cultura e la sua capacità di analisi potevano giungere, poi si è fermato. In fondo è stato onesto. E a suo modo ha amato l’Italia.