Dopo vent’anni ce ne andiamo dall’Afghanistan senza aver pacificato il paese. Il nostro contingente era in realtà parte di un dispositivo militare più grande, gestito dagli Stati Uniti, il quale alla fine ha concluso alla meno peggio un conflitto iniziato per l’appunto vent’anni prima, quando dopo l’attentato alle Torri Gemelle si sentì l’esigenza di distruggere i “santuari” del terrorismo islamista in Afghanistan, dove i Talebani avevano preso il potere e imposto un radicale regime islamista. In tanti anni si sono alternati migliaia di soldati, tutti hanno avuto perdite (noi 54 militari) ma non è stato conseguito l’obiettivo principale: sconfiggere la guerriglia islamista e ricostruire uno Stato e un tessuto sociale distrutti da anni di guerra. Questo libro cerca di spiegare i motivi di un fallimento, ma non è certo l’unico. Ne cito uno per tutti:
Anatomy of Failure: Why America Loses Every War It Starts / Harlan Ullman. Annapolis, MD: Naval Institute Press, 2017, Kindle version.
Alla fine le conclusioni sono simili: l’Afghanistan intanto è un paese enorme e poco coeso per la sua stessa conformazione orografica, rendendo difficile una struttura politica e amministrativa centralizzata. In più è un paese comunque arretrato e devastato dalle guerre precedenti. Il controllo del territorio non è possibile senza una presenza capillare sul terreno, ma nessuno stato democratico può mandare i propri soldati a morire in un paese strategicamente povero e lontano senza fare i conti con gli elettori che pagano le tasse. Forse una vittoria sul campo era possibile nel 2001, ma nel 2003 il governo degli Stati Uniti ha dirottato tutto sull’invasione dell’Iraq, perdendo così il vantaggio acquisito. Quanto alla ricostruzione dell’esercito nazionale afghano, diciamolo: nonostante gli sforzi anche nostri, non ha funzionato; mal pagati e poco motivati, i soldati dell’esercito nazionale non sono mai stati all’altezza della situazione. Quello che è peggio, spesso sono stati abituati a combattere “all’americana”, cioè con il massimo appoggio di fuoco e logistico, ora impossibile da gestire senza gli alleati in casa. Alleati con cui non sono mancati attriti, dovuti più che altro a differenze culturali, sottovalutate dagli Americani e non certo da adesso: ai tempi della guerra del Vietnam uno scrittore francese (René Guignon, in Americani e Vietcong) notava che essi sapevano gestire grandi quantità di mezzi ma erano incapaci di capire un’ideologia. Dal Vietnam sono passati cinquant’anni, ma ancora c’è molto da imparare.
Altro handicap: alle differenze culturali e religiose si sono sommate l’endemica corruzione e la struttura clanico-mafiosa del potere politico. Sono stati versati milioni di dollari e di euro per la ricostruzione del paese, ma troppi fondi sono finiti nelle tasche sbagliate e gli afghani non sono poi tanto stupidi: si accetta la presenza di un esercito straniero o di un potere politico diverso solo se le condizioni di vita migliorano. E se poi di notte il nemico controlla quello che i nostri soldati proteggono solo di giorno e una volta a settimana, magari sbagliando pure la mira, la gente ha paura. Ormai la guerra partigiana viene vista in modo meno romantico: il controllo del territorio viene esercitato anche con mezzi coercitivi e la paura di una rappresaglia è più forte della protezione offerta da un esercito incapace di controllare un paese enorme e privo di strade. In guerra la tecnologia non basta: la fanteria deve occupare e tenere il terreno, ma in Afghanistan non basterebbe mezzo milione di soldati. Ma ne vale la pena? Le operazioni in zone lontane sono costosissime, ma senza un risultato tangibile non possono essere popolari. Ma se quello che non ha funzionato ormai lo sappiamo, in vent’anni potevamo fare di meglio? Sicuramente gli obiettivi dovevano essere meglio definiti fin dall’inizio, ma era davvero possibile riformare una società tradizionale e appoggiare governanti migliori di quelli disponibili senza che fossero considerati estranei? Purtroppo a farne le spese saranno gli afghani e soprattutto le donne. L’unica speranza è che, siccome gli attori sono tanti e quindi non solo i Talebani, si arrivi a una situazione di compromesso e non a un crollo improvviso di quanto è stato comunque costruito in vent’anni. Speriamo bene.
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Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan
Gastone Breccia
Editore: Il Mulino, 2020, pp. 176
Prezzo: € 15,00
EAN: 9788815285850
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