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Velázquez. L’ombra della vita

Lo scorso febbraio Rai5 ha regalato al grande pubblico il bellissimo documentario in 4 puntate “Velázquez. L’ombra della vita”, diretto da Luca Crescenti e brillantemente commentato da Tomaso Montanari, celebre storico dell’arte che insegna attualmente all’Università per stranieri di Siena. Uso non a caso il verbo “regalare”, perché ho trovato questa divulgazione particolarmente generosa: non solo per la ricchezza di informazioni, per la chiarezza espositiva e per l’eccezionale qualità scientifica che si concede oltre la cerchia degli studiosi, ma anche e soprattutto per la grande lucidità e profondità di lettura dell’opera d’arte da parte dello storico fiorentino. Una lettura che va ben oltre la contemplazione delle sorprendenti qualità pittoriche delle tele presentate, ma che è capace di farle parlare a distanza di secoli e rendere le loro “parole” impastate nei colori di bruciante attualità. Forse tutti gli studenti di storia dell’arte dovrebbero vedere questo documentario, per prendere coscienza del valore non solo storico ma anche sociale, e oserei aggiungere politico, del mestiere difficile che ci attende. In fondo nell’arte è sempre stata connaturata l’idea di una trasformazione del reale, la speranza che la Bellezza possa salvare il mondo, e le appassionate spiegazioni di Montanari vanno esattamente in questa direzione.

Nato a Siviglia nel 1599 – anno particolarmente felice per la storia dell’arte, che diede i natali anche a Gian Lorenzo Bernini e a Anthony Van Dyck – il giovane Diego fece i suoi primi passi nell’atelier di Francisco Pacheco, divenuto più tardi suo genero, e si incamminò nella via già percorsa da Caravaggio e dai bamboccianti dei quadri di taverna, i cd “bodegones”. La sua straordinaria presa sul reale e il suo irrinunciabile rapporto con il modello naturale lo pongono subito in stretto dialogo con il Merisi, di cui fu l’erede più diretto. Gli esiti di questo primo periodo sono ben rappresentati dal Venditore di acqua di Siviglia (1620, Apsley House, London). Il destino del pittore non era però quello di rimanere nella città natia a dipingere preziose scene di genere, ma di approdare alla corte di Madrid e ritrarre il giovane sovrano Filippo IV, divenendo ben presto il suo pittore di corte. Tutta la parabola artistica e personale di Diego sarà irrimediabilmente intrecciata a quella del re, il cui lento decadimento fisico e politico è registrato negli anni con sorprendente lucidità e commozione dal suo fidato pittore. Forse il ritratto più illuminante in questo senso è quello del sovrano vincitore dopo la repressione della rivolta catalana (il cd. Ritratto di Fraga, 1644, Frick Collection, New York): il volto triste e malinconico del re stride con l’abito scintillante da parata, reso con sorprendente libertà espressiva, e non comunica affatto l’immagine della monarchia trionfante.

Tra le bellissime spiegazioni di Montanari, merita una menzione d’onore quella del ritratto di Juan de Pareya (1650, Metropolitan Museum, New York), dipinto secondo la tradizione la notte prima di cimentarsi con il ritratto del perfido Innocenzo X, “per ammorbidirsi le mani”. È l’immagine di un ultimo, il servo morisco del pittore, che lo seguiva ovunque nei suoi spostamenti macinando i colori e passando lo straccio sui pavimenti. Eppure, mai come in questo quadro la pittura si è fatta viva carne, mostrandoci con straordinaria presenza la figura di un uomo pieno di dignità nella posa e di bonaria umanità negli occhi: grandi occhi neri, intensi e appassionati, desiderosi di innalzarsi alla sfera superiore dell’arte. Infatti, seguendo l’esempio del suo padrone Juan si era accostato alla pittura (conosciamo una sua Vocazione di s. Matteo dove appare il suo stesso autoritratto) e poté presto realizzare il suo sogno, dal momento che pochi mesi dopo Velázquez si impegnò di fronte alla legge a liberarlo entro 4 anni, come apprendiamo da un atto notarile redatto a Roma. Tutta la dignità che sa dare al suo schiavo nero, il Maestro la toglie crudelmente al rampollo di turno della corte pontificia, il cardinal nipote Camillo Astalli Pamphili, il cui volto vacuo e del tutto privo di qualità personali sfila beffardamente a fianco dell’intensissimo ritratto di Juan de Pareya nell’attuale allestimento al Metropolitan Museum di New York. La lezione di umanità di questo meraviglioso ritratto di schiavo è ritenuta da Montanari particolarmente eloquente in un periodo storico come questo, caratterizzato dall’involuzione razzista e xenofoba in Europa come in America, ed è impossibile dargli torto.

In una lettera del 3 settembre 1865 il grande padre dell’impressionismo Eduard Manet scrisse: “Velázquez da solo vale il viaggio […] È il pittore dei pittori, non mi ha stupito ma rapito”. Il pittore francese sancì presso i suoi contemporanei la consapevolezza di Diego Velázquez come un pittore moderno, quasi un preimpressionista, anche se sappiamo che la straordinaria libertà della sua pennellata, le macchie di colore “che non somigliano al reale ma che sono vere”, in quanto riproducono l’impressione vera e viva delle cose, derivano in ultima istanza dalla grande pittura veneziana del Cinquecento. Dopo Manet altri grandi pittori del calibro di Picasso, Dalì e Francis Bacon, con la celeberrima serie ispirata al ritratto di Innocenzo X, pagarono il loro tributo a Velázquez.

La grandezza del pittore spagnolo risiedette nella capacità di catturare con la sua tavolozza la materia della vita, la sua luce e i suoi colori, ma anche ciò che promana dall’anima delle persone, o l’assenza di questo contenuto profondo, come nel caso del ritratto del fatuo cardinal nipote. La grandezza del prof. Montanari è stata quella di restituirci non solo intatta, ma anche accresciuta di nuovi messaggi del nostro tempo, la stupefacente eredità di Velázquez.

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Per rivedere gli episodi di “Velázquez. L’ombra della vita”, vai al seguente link: https://www.raiplay.it/ricerca.html?q=velazquez%20-%20l%27ombra%20della%20vita

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Claudia Bellocchi: In bilico tra sogno e tenebre

Nel presentarvi la mostra Inquieta Imago, inaugurata la scorso 19 febbraio nel piccolo e accogliente teatro di Villa Pamphilj, ho scelto di incominciare da qualche citazione d’autore sulla follia.

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Se non ricordi che l’amore t’abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai amato. (William Shakespeare)

Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia. (Erasmo da Rotterdam)

Tutti siamo costretti, per rendere sopportabile la realtà, a tenere viva in noi qualche piccola follia. (Marcel Proust)

Alcune persone non impazziscono mai. Che vite davvero orribili devono condurre. (Charles Bukowski)

Ci sono pochi grandi spiriti che non abbiano un grano di follia.  (Seneca)

Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma la questione non è ancora risolta, se la follia sia o non sia l’intelligenza più alta.  (Edgar Allan Poe)

E’ evidente che per provare grandi emozioni, fare grandi cose possibilmente originali, diverse, addirittura per cambiare il mondo, ci vuole un certo grado di follia, di irregolarità, oserei dire di sana trasgressione. Sana perché l’impulso interiore ad andare oltre, quella certezza irrazionale che è la cosa giusta e che non rischiare equivarrebbe al suicidio di una possibilità che è appena nata, l’abbiamo provata tutti e non ce ne siamo pentiti a distanza di tempo. Anzi, spesso sono i momenti in cui ci siamo sentiti più vivi. L’esempio naturale è quando si perde la testa per una persona, l’innamoramento. Come diceva anche Shakespeare, come ci si può innamorare senza essere un po’ pazzi, senza rinunciare al controllo della ragione che, se alla guida o durante un colloquio di lavoro è molto utile, in tale circostanza sarebbe di grande ostacolo? Ma come pensare che Caravaggio avrebbe rappresentato in maniera così potente l’irruzione del divino nel quotidiano, nel miserevole e abbietto, senza essere quell’artista “maledetto” e ribelle capace di vedere dietro il volto sofferente di una prostituta la grazia e la dolcezza di una Madonna? Capace di dipingere una canestra di frutta avvizzita come si dipinge una persona. Come avrebbe mai potuto Michelangelo affrescare da solo la Cappella Sistina, soffrendo molti stenti, se non avesse avuto quella sublime ispirazione che lui considerava un dono divino ma che noi sappiamo essere,in realtà, il suo intimissimo genio? Ancora Cézanne, Matisse, Picasso, Modigliani e tanti altri. Anche Galileo Galilei ha avuto bisogno di una sana dose di follia per prefigurare il futuro della scienza moderna e sovvertire le regole del mondo e dell’Universo tolemaico, rischiando la sua stessa pelle: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Doveva apparire un pazzo agli occhi dei contemporanei! Occorre però fare una distinzione, sottile ma decisiva, tra la pazzia sterile, priva di qualsiasi slancio poetico anzi atrofizzante del poveraccio, e la follia visionaria del genio e dell’artista, che sublima il suo sentire nei rossi, nei neri, nei gialli delle pennellate, nella sinuosità della linea, nella forza del trapano che toglie la materia e regala luci e ombre profonde. Questo per dire che non bastano due bicchierini di troppo, un abbigliamento stravagante, andare in giro con un leopardo al guinzaglio e i baffi all’insù per essere degli artisti e dei folli nel senso che abbiamo cercato di spiegare. Non c’è genialità e non c’è alcuna grande espressione creativa se essa è sepolta in acqua ristagnante, se gli occhi sono senza scintille, se non sono in grado di cogliere quella che Picasso chiamerà “la quarta dimensione”. In poche parole senza una sconfinata sensibilità che prende tutto il corpo. Ma questa non riesce a parlare da sola, a scorrere veloce come fa l’acqua da un’altissima cascata, senza il saldo possesso di un linguaggio artistico: il mestiere, l’adorato onesto saper fare dell’artigiano che ha familiarità con i diversi materiali e si sporca le mani con l’ orgoglio di chi impasta e sforna il pane.

Ho voluto fare questa premessa perché noto che il concetto di follia dell’artista è suscettibile di innumerevoli confusioni e strumentalizzazioni. In sostanza, tutti vogliono essere degli artisti ma pochi lo sono veramente: è un privilegio raro non uno status symbol.

Ho conosciuto per la prima volta Claudia Bellocchi all’apertura della sua mostra. Leggo dalla sua biografia che è un’ artista eclettica, che si muove tra Roma e Buenos Aires e non si limita alla pittura, esplorando anche le istallazioni, i video, la poesia fino al teatro. Quale luogo più adatto di questo, dunque? Infatti le piace molto per i suoi quadri. Capisco subito che le categorie di “normale” e “disciplinata” non fanno per lei, artista veemente e smisurata. Mi dice che il tema della follia è fondamentale nella sua vita e nella sua creazione artistica, ma riesco a “cavarle” con l’ingenuità di chi fa tante domande due cose per me importantissime: il modo saggio di vivere questa follia come occasione di esplorazione appassionata del mondo, per andare oltre la realtà materiale e logica delle cose verso orizzonti invisibili e ignoti a chi si ferma all’apparenza; in secundis, l’auto consapevolezza del mestiere: sono un’artista innanzitutto perché so fare, conosco la corretta esecuzione di un’opera. Prima dello stato di invasamento provocato dalla musica (come una moderna sibilla), quindi, prima dell’istinto, c’è la fase preparatoria del pensiero, dello studio, di ricerca con se stessa. Non è una folle sprovveduta e non è che i quadri si possono buttare giù di sola foga espressiva.

Questa volta sono nati dieci oli su papel misionero, dieci presenze dotate di vita propria nel magma instabile di una pennellata fortemente gestuale e dal segno graffiante e violento. Mi ha ricordato molto De Kooning, in particolare quegli inquietanti archetipi femminili, La Madre, così mostruosi e detentori di un grande potere sull’Universo. C’è tanta materia che si incrosta sul supporto, denotando una forte urgenza espressiva che ci riporta ai tempi di Van Gogh e all’Espressionismo di Heckel, ma la tavolozza è tutt’altro che solare come nei girasoli o nei campi di grano. C’è tanto dell’angoscia e dell’instabilità delle forme di Munch. Dominano le tinte fredde, il blu, il viola, il nero, con lampi di rosso crudo e verde acido e improvvise incandescenze lunari (a mio avviso, il punto forte della pittrice) che rappresentano la conquista del mondo irrazionale e sovrasensibile la cui unica porta d’accesso è la follia: insieme un privilegio e un prezzo

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da pagare alla società dei cosiddetti normali. I soggetti sono per lo più tratti dall’infanzia, dal mondo delle favole (Claudia organizza anche laboratori creativi per bambini): c’è la volpe con grandi occhi di civetta, il lupo mannaro, il clown, la terribile casetta nel bosco della nonna di Cappuccetto Rosso o della strega di Hansel e Gretel;

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c’è la bambola con le grandi labbra rosse, una femminilità che non riesce a prendere vita e movimento, a fuggire dalla fissità di una creatura di pezza, da quello che gli altri si aspettano. La grande scimmia che ridacchia: una risata perfida, la paura di impazzire. Titoli che rimandano ai doppi che si completano, ragione e sentimento, allegria e tristezza, a un dissidio interiore che deve rimanere un enigma inestricabile, pena la piattezza emotiva, l’assenza di ispirazione, la normalità. Mi ha colpito molto l’immagine di un asino a riposo nel pulviscolo dell’atmosfera rosata, di un’alba amena. Lì ci ho visto il sentimento più positivo di tutti, il sogno come ricreazione dell’anima e Paradiso perduto, e ho subito pensato ai quadri notturni e romantici di Chagall, dove l’asino è un elemento presente nella mitologia popolare e contadina e, naturalmente, all’Asino d’oro di Apuleio: la mente è volata verso Amore e Psiche, la mia favola preferita. Si rivela qui l’“anima gentile”, la ricerca di un mare calmo dentro un inconscio in burrasca.

Rileggo il testo poetico e bellissimo che introduce l’opuscolo della mostra, di Sarina Aletta: «Quando l’impulso irresistibile del gesto svela abissi tormentati dell’anima dove bellezza e orrido lottano in passionale amplesso.» In queste poche e preziose parole, c’è tutto. L’abisso, l’estasi, la ricerca, l’angoscia, la Donna.
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INQUIETA IMAGO
di Claudia Bellocchi
da domenica 19 febbraio a sabato 11 marzo 2017

Teatro Villa Pamphilj (Villa Doria Pamphilj)
Via di S. Pancrazio, 10
Roma

Finissage ed incontro con l’artista Sabato 11 marzo alle 16:30

Orario mostra:
martedì – domenica 9.00 – 19.00

Informazioni:
tel. 06/5814176

Ingresso libero

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El Greco: Un’Annunciazione mistica e astratta

Mostre AK El Greco Annunciazione ai Musei CapitoliniUna sola opera è l’oggetto della nuova mostra inaugurata il 24 gennaio ai Musei Capitolini, L’Annunciazione di El Greco, proveniente dal Museo Thyssen Bornemisza di Madrid, in un progetto di scambio che ha già portato nella capitale spagnola la celebre Buona Ventura di Caravaggio.

Una singola opera che però rivela potentemente il genio visionario e irregolare dell’artista che la produsse.

Domínikos Theotokópoulos, meglio conosciuto con il soprannome in dialetto veneziano di El Greco (Candia, 1541-Toledo, 1614), fu un pittore di origine cretese formatosi in Italia, tra Venezia e Roma, divenuto la prima grande personalità di riferimento del Siglo de Oro in Spagna.

Dopo l’iniziazione presso la locale Scuola cretese, erede della tradizione bizantina ieratica, spirituale e cromaticamente esuberante, continuò la sua formazione in Italia, dove assimilò la pennellata libera e veloce dell’ultimo Tiziano (di cui fu forse “discepolo”), la tensione drammatica della pittura di Tintoretto e, in generale, si appropriò della locale cultura manierista, mostrando probabili influenze dalle figure allungate ed estremamente eleganti di Parmigianino.

A Roma si distinse, oltre che per il talento, anche per il suo carattere deciso e indisponente che gli procurò non pochi fastidi, come la cacciata da Palazzo Farnese per una lite con il cardinale Alessandro. Desta il sorriso la sua stroncatura di Michelangelo che, a suo avviso, «era un brav’uomo, ma non sapeva dipingere»; propose al papa Pio V il rifacimento del Giudizio Universale secondo modi più consoni alla dottrina cattolica ma, a dir la verità, non fu il solo a non capire la grandezza di quell’umanità derelitta, che pure il fidato Daniele da Volterra aveva provveduto ad “imbraghettare” per celarne le nudità più scandalose… Tuttavia il suo stile visionario e inconfondibile può dirsi maturato soltanto dopo l’arrivo a Toledo, nel 1577, a contatto con la fervida spiritualità della Chiesa cattolica spagnola del periodo della Controriforma.

Molto bene lo storico dell’arte Harold Wethey spiega che «anche se era greco di origine e italiano come preparazione artistica, l’artista si immerse così a fondo nell’ambiente profondamente religioso spagnolo da diventare l’artista visuale più rappresentativo del misticismo spagnolo».

Dominikos non aveva intenzione di passare il resto della sua vita a Toledo, ma ambiva ad una posizione ben più in vista come pittore di corte di Filippo II, sovrano molto esigente nella scelta dei maestri per decorare la nuova residenza dell’Escorial. Purtroppo due tele del nostro artista non piacquero al re ma il fallimento del progetto in grande fu consolato da un successo sicuro con le altre commissioni, che gli permisero un tenore di vita sempre molto alto e appagante.

La commissione in assoluto più pagata fu quella per il retablo destinato all’altare maggiore del Colegio de Nuestra Señora de la Encarnación di Madrid, composto da sei grandi tele alte più di tre metri e racchiuse in una complessa cornice lignea che comprendeva anche delle sculture.

La gigantesca pala d’altare fu realizzata da El Greco tra il 1594 e il 1600 e la nostra piccola Annunciazione era proprio il modello finale da presentare ai committenti per la relativa tela posta in opera , oggi al Museo del Prado. Essa costituiva la scena centrale del retablo che fu poi smembrato all’inizio dell’Ottocento con grande dispersione dei suoi pezzi. Il quadro è diviso in due registri, in basso la scena dell’Annunciazione dell’Angelo ad una Madonna turbata, in alto il concerto di angeli musicanti sulle nubi sorrette da vortici di cherubini. In mezzo il volo dello Spirito Santo che discende sulla Vergine e, squartando l’oscurità con il suo bagliore accecante, sembra planare anche sull’osservatore.

La composizione è tutta impostata verticalmente, seguendo l’innaturale allungamento delle figure totalmente prive di consistenza materiale, definite solo da una linea tormentata e dai contrasti di luce e ombra che rendono cangianti i colori acidi delle vesti. Sono sospese in una dimensione completamente astratta e trascendentale, intrisa di un misticismo religioso molto pungente. Infatti, l’uso di una luce sovrannaturale provoca bagliori improvvisi che rendono il freddo impasto cromatico instabile e vibrante, conferendo alla scena tutta la spettacolarità e l’indefinitezza di una visione religiosa. Siamo alle sorgenti della pittura astratta, molti secoli prima delle composizioni di Kandinskij. Caratteristica saliente di El Greco è la velocità di esecuzione, evidente in alcuni punti delle vesti dove egli con scioltezza stende il colore puro alla prima, alla veneziana. Attraverso una fusione ben calcolata tra personaggi e sfondo, El Greco precorre l’horror vacui che caratterizzerà prima i lavori di Cézanne e a seguire i quadri cubisti di Picasso e Braque e che affonda le sue radici nei mosaici bizantini.

L’analogia tra il roveto ardente di Mosé, che si infiamma senza consumarsi materialmente, e la Verginità di Maria stabilita dal teologo agostiniano Alonso de Orozco, ci aiuta a spiegare la presenza di quell’insolito simbolo nel contesto di un ‘Annunciazione. Tuttavia la prima traccia di questo uso la rintracciamo in una pala di Tiziano per la Chiesa di San Salvador a Venezia, a dimostrazione del bagaglio italiano che l’artista portò sempre e orgogliosamente con sé. Una lettura attenta dei diversi elementi iconografici ci conduce alla sorprendente scoperta: il soggetto vero del quadro non è l’Annunciazione bensì l’Incarnazione di Cristo sulla Terra, quel momento in cui l’Arcangelo Gabriele pronuncerà la frase «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio». In questo modo si spiega la presenza del roveto ardente e degli angeli musicanti, tipici delle scene di natività.

Il curatore della mostra, il dott. Sergio Guarino, sottolinea come negli stessi mesi della nascita a Roma del moderno classicismo di Annibale Carracci e del Naturalismo di Caravaggio, sancito dalla prima commissione pubblica per San Luigi dei Francesi, lo stile visionario ed espressionista di El Greco rappresentasse una terza alternativa completamente diversa. Dopo un lungo oblio subito dalla letteratura artistica, finalmente il Romanticismo riscopre questa originalissima figura di artista, celebrato come l’eroe romantico ideale, il «talentuoso», l’«incompreso», il «folle».

La strada era spianata per arrivare dritto all’ammirazione delle avanguardie del Novecento, dagli espressionisti, ai cubisti, a Chagall fino a Scipione della Scuola di via Cavour e Francis Bacon, che ne daranno una lettura estrema in chiave allucinatoria.

Mentre Picasso stava lavorando a Les Demoiselles d’Avignon, fece visita all’amico Ignacio Zuloaga nel suo atelier di Parigi e studiò l’Apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse di El Greco (che era di proprietà di Zuloaga dal 1897). Picasso dirà che Les Demoiselles non sarebbero esistite senza il confronto con El Greco. Secondo Efi Foundoulaki, «pittori e teorici fin dall’inizio del XX secolo ‘scoprirono’ un nuovo El Greco ma, nel mentre, scoprirono anche se stessi».

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L’Annunciazione di El Greco
Dal 24 gennaio al 17 aprile 2017

Roma
Musei Capitolini
Piano terra – Palazzo dei Conservatori

Orario
tutti i giorni 9.30-19.30

Ingresso:
la biglietteria chiude un’ora prima

gratuito per i residenti a Roma e nell’area della Città Metropolitana nella prima domenica di ogni mese

biglietto integrato mostre e Musei Capitolini
intero € 15,00
ridotto € 13,00 per i cittadini residenti nel territorio di Roma Capitale (mediante esibizione di valido documento che attesti la residenza):
intero € 13,00
ridotto € 11,00

Informazioni:
tel. 060608
utti i giorni dalle 9.00 alle 21.00

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