Tutti gli articoli di Claudia Bellocchi

Follia & Società

Oltre un anno fa’ con il progetto INQUIETA IMAGO ho riflettuto sulla follia con una serie di opere pittoriche ed una performance teatrale.

La follia mi ha sempre incuriosito forse perché i miei artisti preferiti hanno avuto brevi o lunghi soggiorni in manicomio o forse perché ho sempre pensato che se fossi vissuta 50 anni prima, avrei rischiato di finirci anch’io. Per molto tempo mi sono data solo questa risposta, ridendoci sopra, come molto spesso sorridendo ho anche pensato che se fossi vissuta in epoca medievale sarei stata messa al rogo come strega.

Vi chiederete: che c’entra?

C’entra, c’entra ma per favore non banalizzate le mie parole pensando subito alla sindrome da Calimero. C’entra perché l’istituzione del manicomio come il processo alle “streghe” o altre azioni nella storia umana sono state frutto di una società che rifiutava il cosiddetto diverso per paura o perché comprenderlo significava mettere in discussione gli elementi fondanti la società stessa, mentre stigmatizzarlo permetteva semplicemente di sbarazzarsene in un modo o nell’altro: esclusione e segregazione!

Studiando la Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, Asylums – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman e la rivoluzione fatta da Basaglia compresi che gli anni ’60 e ’70 segnarono lo sguardo di chi ha voluto comprendere realmente le ragioni dell’esclusione sociale o della malattia mentale.

Basaglia sostenne: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.

E ancora Basaglia: “una cosa è considerare il problema una crisi, e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività”. Basaglia ha tenuto conto, nella sua pratica di psichiatra, della riflessione di Foucault che ha ridato un volto umano alla storia della follia, in quanto quest’ultima non è solo storia nosografica: tra le tante testimonianze e documenti addotti nella sua ricerca Foucault presenta infatti le storie ed i testi di artisti come Artaud. Foucault con mosse da vero e proprio “archeologo” ha ricostruito il filo conduttore che ha rivoluzionato la concezione della follia e dell’internamento. La storia della follia è frutto di variabili politiche, filosofiche e sociali delle varie epoche quindi è fondamentale uscire da una misera oleografia psichiatrica.

Il tema della follia è complesso e dovrebbe essere compreso profondamente giacché l’Italia ha il primato di aver chiuso i manicomi, con la legge Basaglia del 1978. Dibattendo con persone molto più preparate di me o in prima linea perché coinvolte in campo, so che il progetto voluto da Basaglia non è stato completamente realizzato e le strutture e/o i processi che avrebbero dovuto sostituire l’istituzione manicomiale sono tuttora carenti creando difficoltà nel quotidiano di tutti coloro che sono direttamente ed indirettamente coinvolti in situazioni di disagio.

Non voglio percorrere questo punto di osservazione della tematica, non avrei né la conoscenza adeguata né le stellette in campo; vorrei invece continuare la mia riflessione dal punto di vista umano. Perché umanamente siamo tutti dentro o fuori. Come si qualifica la normalità o come la follia in un individuo? Perché questo disagio diffuso? Una volta la follia era appannaggio solo di artisti o santi – scherzi a parte, forse oggi più che di follia si parla di disagio o alienazione ma nella sostanza arrivano sempre più frequentemente notizie su atti estremi compiuti da persone che apparentemente si comportavano fino al giorno prima in una maniera coerente alle aspettative della società odierna e che l’opinione pubblica il giorno dopo etichetta impersonalmente e licenzia banalmente come “atto di follia o atto di un folle”.

La comprensione di noi stessi del disagio che ci circonda o ci appartiene, non può essere sviluppata senza un’adeguata consapevolezza di ciò che sta succedendo. Come possiamo licenziare velocemente ciò che ascoltiamo dai notiziari esprimendo semplicemente pena per le condizioni del recluso o parole  di condanna dell’atto del folle???

Cosa sta succedendo e cosa ci sta succedendo?

Tanti anni fa mi chiesi: Cosa mi sta succedendo?

Ho dovuto chiedermelo spesso: come artista volo nella mia espressione creativa e nella sensibilità che trapassa il reale e lo trasforma in significante. La parte razionale esausta si barcamenava costantemente contenendo la prima in sofferenza, senza ricevere da me una spiegazione in questo quotidiano in cui il materialismo che ormai pervade ogni ambito, annienta ogni spiritualità e concezione più elevata ed immateriale della vita e inaridisce qualunque anima. Parole poetiche e romantiche queste, che però non riuscivano a darmi una lettura dei fatti concreta. Non riuscivo a spiegare il mio giudicarmi o il sentirmi tanto estranea alla contemporaneità. In questo senso il libro di Goffmann mi è venuto in aiuto dandomi l’occasione di riflettere anche su quanto sta accadendo oggi:

«l’attore sociale è soprattutto un virtuoso della sopravvivenza in un mondo quotidiano irto di pericoli potenziali per il suo rispetto di sé o, ciò che è la stessa cosa, per il rispetto “del suo sé”»

Un tema di identità dunque che viene messa pesantemente a rischio in un’istituzione totale. Si potrebbe dire che le istituzioni totali sono solo quelle “chiuse”; ma se la nostra società odierna si stesse trasformando essa stessa in un’istituzione totale, cosa sarebbe di noi? Come potremo distinguere i comportamenti autentici da quelli adattivi di sopravvivenza? Come potremmo avere la chiara immagine del nostro sé, distinguendola dal giudizio che incorporiamo dall’istituzione totale? Come reagiremmo nel momento in cui il mondo che ci è stato inoculato entrasse in contraddizione con quel poco che rimane della nostra parte più profonda ed autentica, e non capissimo più nulla?

A volte il giudizio è il prodotto “della distanza sociale fra chi giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non dalla malattia mentale”. A volte invece di comprenderci, giudichiamo di star perdendo il senno a causa di stereotipi culturali e sociali che, in realtà, sono spesso psichiatricamente ritenuti un semplice e temporaneo sconvolgimento emotivo in una situazione stressante.

Il punto è che oltre al processo dell’accettazione di sé, auspicato da filosofie, religioni ed altre discipline, è necessario capire perché non ci accettiamo o qual è la strada per rinforzare la nostra identità.

La nostra società somiglia sempre più ad un’istituzione totale dunque dovremmo accorgerci dei meccanismi di spersonalizzazione del sé per difenderci e proteggerci e aiutare o sostenere chi è accanto a noi, processo inevitabile se vogliamo usare congiuntamente le lenti della razionalità e quelle dell’empatia.

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Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
Erving Goffman
Traduttore: F. Basaglia
Editore: Einaudi
Collana: Piccola biblioteca Einaudi. Big
Anno edizione: 2010
Pagine: 415 p., Brossura
EAN: 9788806206017

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Confessioni metropolitane

C’era una volta un povero uccelletto spiaccicato per terra, il suo piccolo cadavere era sul marciapiede forse calpestato da un passante.
Uscendo trafelata di casa come molte altre persone per affrontare una giornata qualunque, lo notai camminando, come un qualcosa di strano, già che per fretta o miopia, non lo mettevo bene a fuoco. Il povero cadavere rimase almeno un giorno sull’asfalto perché, ritornando a casa per rinchiudermi e isolarmi dal mondo dopo una lunga giornata qualunque, stava ancora lì. Questa volta mi fermai: ero curiosa di capire cosa avevo intercettato la mattina.
Appena lo vidi rimasi turbata per quell’esserino, ma la mia insensibilità urbana prevalse: lo fotografai pensando che potevo utilizzare l’immagine in un opera pittorica o in una scultura, successivamente mi chiesi se dovevo dargli sepoltura, poi decisi di lasciare il compito agli animali del quartiere o a chi era preposto alla pulizia delle strade.
Solo la settimana successiva mi accorsi che l’uccelletto spiaccicato mi aveva turbato molto. Ritornando infatti dalla rosticceria con uno dei miei cibi preferiti, il pollo alla diavola e rifugiatami in cucina in preda alla solita fame compulsivo-consolatoria, dopo aver passato una giornata qualunque, mi accorsi che ero incapace di consumare quel croccante e profumato pasto: mi ricordava troppo il povero cadaverino! Dopo un soggiorno di un paio di giorni nel mio frigorifero, il pollo finì tra la spazzatura.
Non ho avuto una conversione al Veganesimo simile a quella di San Paolo sulla via di Damasco, e non so neppure se potrei sopportare fisicamente una dieta vegetariana considerate le mie intolleranze al latte, al glutine, alla soja e ad un’altra dozzina di alimenti che mettono il mio colon in subbuglio etc. Sindrome questa (del colon irritabile) che non mi vergogno di ammettere, già che è ormai diffusa tra noi della comunità dei sedentari. Al momento, comunque, non riesco a mangiare più pollo ed in generale ho grossi conflitti con la carne, eccetto che sia cucinata in modo che non sia riconoscibile la sua origine animale e spero soprattutto di non incontrare dei poveri pesci spiaccicati sul marciapiede!
Nel susseguirsi interminabile di giornate qualunque, nonostante continuassi la mia inutile frenesia, non so se per il caldo africano o per i forti effluvi che fuoriuscivano dai contenitori della spazzatura, i miei sensi che generalmente erano concentrati nelle nevrosi del quotidiano, cominciarono a risvegliarsi facendomi notare indizi di un differente paesaggio, piccoli segnali lasciati apparentemente senza senso: un avviso a noi naviganti del cemento, come ad esempio una cassetta mangianastri appesa ad un cancello.
Anche in questo caso mi fermai per cercare di capire cosa stavo vedendo e fotografai incredula. Certo, la cassetta era stata posta così sul cancello da mano umana, eccetto che il figlio di King Kong non abbia voluto partecipare ad una performance urbana.
Mi chiesi e continuo a chiedermi, chi e perché qualcuno avesse avuto la necessità di appendere una cassetta da mangianastri su un cancello: un messaggio ad un amore perduto, un ricordo spazzato via dalle memoria ma esibito o semplicemente una persona che si trovava là per caso, con una cassetta mangianastri, filo e scotch adesivo?? Era già rotta o era stata rotta in segno di sfregio, protesta o disappunto?
Il piccolo segnale l’ho colto, ma non mi sono sentita di citofonare a tutti gli abitanti opportunamente protetti da quel cancello.

Racconti Confessioni metropolitane Foto unite

Il disagio della Democrazia di Carlo Galli

Il disagio della democrazia, come chiaramente descrive Carlo Galli nel suo omonimo saggio, è un disagio oggettivo per l’inadeguatezza dell’attuale democrazia (e dei suoi istituti) a mantenere le proprie promesse, ma è anche il disagio soggettivo dei cittadini che sembrano accettare passivamente “una morte che non si può annunciare”. Siamo spettatori di un paradosso: l’occidente dalla grande tradizione democratica, ritiene la democrazia l’unica forma di organizzazione politica legittima e tuttavia ne sperimenta il disagio; i paesi caratterizzati da regimi autoritari (es Africa) invece lottano per averla. Carlo Galli, accademico e politico, auspica che ciascuno faccia il primo passo verso una “deliberata volontà di democrazia” e ci conduce quindi attraverso la storia della democrazia: in fondo la democrazia è un termine polisemico, nel quale si sono stratificate diversi significati in funzione dell’evoluzione storica e umanistica. E’ dai suoi fondamenti e dalle sue trasformazioni che possiamo porre un parziale rimedio a quel disagio, poiché ci può aiutare a realizzare la riattivazione selettiva della complessità dentro la quale stanno diverse e molteplici possibilità della democrazia a “venire”. E’ necessario però abbandonare l’insoddisfazione per l’attuale democrazia unita alla sensazione che non ci siano a questa, alternative, perché crea “spaesamento che rischia di essere costante e insuperabile, ma non produttivo”. Lasciare troppo spazio al “disincanto tecnico”, al rifugio nell’individualismo, alla sensazione di tradimento dell’ideale moderno di autenticità della democrazia, dovuta alla perdita della libertà e della piena espressività del singolo, rischia di renderci complici della sua morte.
La parola Democrazia coniata nel mondo greco si riferiva a δῆμος (démos) e κράτος (cràtos) cioè al governo del popolo (che era comunque una minoranza – non partecipavano donne, schiavi, meteci – gli stranieri residenti- ed i troppo poveri). In genere nella prassi politica greca la democrazia si riferiva ad una parte (démos) ritenuta peraltro violenta e rancorosa in contrapposizione all’altra, l’aristocrazia. Sinteticamente il pensiero greco, troviamo, solo Aristotele a interpretare la democrazia (la politeia) in termini positivi o meglio come il governo perfetto per gli imperfetti (il ceto medio ritenuto per il pensiero dell’epoca non in grado, per cultura e per necessità, di pensare a visioni di più ampio respiro relative all’intera città e al bene comune). Galli pone infine l’accento sull’ideale della democrazia espresso da Tucidide, dove “la parte” non è faziosa ma in grado di promuovere i valori multiformi di un umanesimo attivo da tenere sempre presenti per l’analisi critica della situazione attuale: “l’uguaglianza davanti alla legge, la trasparenza della politica, l’autogoverno, la tolleranza di ogni diversità dei singoli purché ciascuno riconosca il proprio obbligo verso la città nella quale lavoro e politica, pubblico e privato, parola e prassi camminano di pari passo”.
Dagli ideali degli antichi alla declinazione democratica nell’età moderna, nella quale il nodo centrale si sposta dal governo (chi governa chi: saggio, aristocratico, filosofo, guerriero) alla legislazione: è il potere generale ed universale che rappresenta tutti (sovranità) e che garantisce unità e pace tramite l’ordine artificiale delle leggi.
A partire dalla Riforma protestante, propulsiva del capitalismo industriale, cominciano a liberarsi energie soggettive individuali e si reinventa un nuovo spazio politico, che si modellerà lungo lo scorrere dell’età moderna fino collassare nell’Era della Globalizzazione. La democrazia degli antichi cede il passo ad un nuovo pensiero che dà forma alla democrazia moderna: l’uguaglianza di tutti gli uomini in natura, che quindi hanno diritto di essere uguali anche davanti alla legge. Il popolo governa e viene rappresentato tramite un intero ordinamento, che in regime di uguaglianza lo coglie non nelle sue specificità ma nella forma astratta e universale delle leggi. In questo momento trovano espressione i concetti di Stato e cittadinanza, come dimensione universale del popolo all’interno dello Stato. L’orizzonte politico inventato ex-novo dalla borghesia mantiene tuttavia le disuguaglianze materiali derivanti dalla legittimazione del nascente capitalismo industriale. Nel secondo dopoguerra la democrazia evolve nella sua figura tardomoderna, cioè il “compromesso socialdemocratico”: accanto ai diritti politici, prendono forza i diritti sociali che tendono a garantire l’uguaglianza delle condizioni. L’epoca moderna, diversamente da quella antica, funziona per separazioni e astrazioni: “è l’insieme delle condizioni formali a dare alla politica una finalità umanistica di espressività delle soggettività, che attraverso i diritti dovrebbero ricomporre la scissione tra universalità della legge e particolarità concrete”; proprio per questo è segnata dalla rivendicazione dei diritti non solo politici ma anche sociali. “Che le lotte siano state necessarie significa che la democrazia non è automatica, ma deve essere voluta nella prassi”. Se il popolo è il grande assente della democrazia moderna nel senso che vi compare come “istanza originaria costituente legittimante le istituzioni”, i partiti politici nello spazio politico dovrebbero essere portatori della pluralità. E’ proprio la partecipazione dei singoli con un’attiva “volizione” costante e continuativa che mantiene in una dialettica sana di un pluralismo sociale e nella trasparenza politica; è proprio questa partecipazione il ponte tra l’individuo e l’interesse generale, non c’è democrazia con un pensiero unico o assenza di pensiero.
Con l’avvento della Globalizzazione la grande sfida della democrazia moderna di fare unità mediando fra le parti è svanita: l’unico protagonista, il capitale (la finanziarizzazione) è fuori controllo e domina indiscusso lo scenario globale. Lo stato democratico moderno s’indebolisce e la politica sprofonda in maneggi di “oligarchie economiche affaristiche”. I partiti sono potenti ma meno collegati con la società è quindi più deboli nel senso democratico del termine, l’omogeneità culturale della nazione si fa precaria ed il dilagare dei conflitti scuote l’apparato democratico costituendo un vero e proprio detonatore per forme meno democratiche, come la democrazia autoritaria o amministrata (“dove il consenso che si attiva non è spontaneo ma passivo”) o come forme di populismo democratico che, esaltando retoricamente la centralità del popolo determinano un movimento anti-establishment. Forme di esemplificazione della realtà e di fuga non sono mai risolutive: “il popolo del populismo è tanto meno reale quanto quello della democrazia istituzionalizzata: un fantasma comunitario che vuole opporsi alla finzione della cittadinanza, un Tutti anonimo che pretende di opporsi all’anonimato della globalizzazione”. Questo “Noi inventato” del populismo “si fa strumento di una politica, che in realtà è ancora più distante dal popolo di quanto lo fosse la tradizionale” e anche se si crede d’opposizione è sempre più spesso utilizzato dai governi. “Una passività di massa mascherata da attività che esprime il pieno disagio della democrazia”.
Galli chiude l’articolata trattazione con un monito: “se è giusto riconoscere la non democraticità del tempo presente”, non ci si può ingenuamente abbandonare a soluzioni immediate o semplicistiche. Partendo dalla consapevolezza della complessità del fenomeno democratico e “in funzione della storia si può selettivamente reinterpretare la complessità e avere il coraggio di indicare ciò che di nuovo va colto e ciò che di vecchio non è più vitale”. Volontà e mediazione ma nello spazio sociale dove gli ingredienti della politica reale e dell’energia formante la democrazia sono vivi e non già nelle istituzioni della politica dove si trovano “sublimazione, stilizzazione e a volte mistificazione”.

04 DemosKratia Il disagio della democrazia******************************

Titolo: Il disagio della democrazia
Autore: Carlo Galli
Editore : Einaudi (collana Vele), 2011
Prezzo: € 10,00

Disponibile anche usato a € 5,00 su Libraccio.it
Disponibile in eBook a € 6,99

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Homo videns

Come è cambiata l’informazione con la comunicazione di massa e con l’avvento della televisione? Non c’è bisogno di risalire alle opinioni di Pasolini, agli sketch comici di Guzzanti sul telegiornale o ancor di più alla pellicola “Videocracy”, presentata al Festival del Cinema di Venezia, per intuire cosa è avvenuto da circa cinquant’anni or sono. Ma parlare del tema è utile solo per alimentare la chiacchiera heideggeriana? Abbiamo veramente compreso la portata di certi meccanismi?
Giovanni Sartori quasi 10 anni prima di Crouch Colin punta il dito sul fenomeno del “tele-vedere” e del “video vivere”. Il politologo italiano nel suo libro “Homo videns” pretende di dimostrare, senza lasciare spazio a spiragli di ottimismo, l’effetto totalmente deleterio dello strumento televisivo.
Con una sagace dissertazione Sartori asserisce che la televisione sta producendo una metamorfosi che investe la natura stessa dell’uomo: ribalta il rapporto tra capire e vedere. “La televisione non è soltanto uno strumento di comunicazione, è anche al tempo stesso, paidèia, uno strumento «antropogenetico», un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo di essere umano”: l’homo videns appunto.
E’ il “prevalere del visibile sull’intellegibile che porta a vedere senza capire”, ad atrofizzare il processo cognitivo. Disabituarsi a capire e a pensare tramite il processo di astrazione che ci differenzia dagli animali, produce l’homo videns, ultimo anello della catena non evolutiva ma involutiva!. “L’homo sapiens è entrato in cri-si, in crisi di perdita di sapienza e capacità di sapere”.
In estrema sintesi l’homo videns, è un essere videodipendente non più capace di un pensiero razionale ma preda delle sensazioni emotive indotte dalle immagini e da un flusso di notizie il più delle volte inconsistenti. L’informazione che non spiega l’immagine ma è scelta in funzione dell’immagine e della sua capacità di creare “sensazione” a prescindere dal valore della notizia crea “disinformazione” e vuoto conoscitivo.
Contro i nuovi profeti della democrazia virtuale, della tecnocrazia al potere e contro tutti i “negropontini”, il nuovo Savonarola mette anche in guardia dall’uso d’internet, che potrebbe essere un nuovo mezzo di crescita culturale se, l’adolescente o l’adulto che si avvicina, non fosse stato il bambino nutrito da tanta televisione. Il cibernauta “non avendo un interesse cognitivo più sensibilizzato in chiave astraente”, naviga con obiettivi per lo più ludici, rischiando di perdere il senso del reale, cioè il confine tra vero e falso o tra esistente e immaginario.
Sartori denuncia i Murdoch e i Berlusconi – e tutti i grandi burattinai dell’informazione – che nutrono di spazzatura lo spettatore, perenne video-bambino, pilotando la sua bulimia a favore dell’accrescimento del portafoglio o e del potere.
Proprio in merito al condizionamento televisivo Sartori introduce osservazioni ancora attuali sulla trasformazione del potere politico, mediante l’uso dell’immagine televisiva.
La televisione diventa l’autorità cognitiva per eccellenza: “si esibisce come portavoce di una opinione pubblica, che è in realtà l’eco di ritorno della propria voce”.
Se da un lato l’opinione del pubblico intervistato non da luogo necessariamente ad un’azione coerente con l’opinione stessa (ad es.: l’opinione di voto politico rispetto al risultato elettorale), il sondaggio d’opinione darà risultati variabili in funzione di come verrà posta la domanda. L’homo videns ascolta il messaggio televisivo non relativizzando l’informazione che riceve, anzi a volte è indotto in errore per l’inadeguata descrizione delle rilevazioni statistiche presentate che “sono « false» nella interpretazione che ne viene data”.
Senza aderire radicalmente al pensiero di Sartori a distanza di 20 anni il panorama è desolante: colui che è stato esposto alla “disinformazione” televisiva e successivamente a quella dei quotidiani, ora deve recuperare un gap conoscitivo che non gli richiede solo sforzo di tempo e di attenzione (almeno fino a che l’informazione immagazzinata non arrivi alla sua massa critica), ma ha anche difficoltà di reperire una informazione valida ed accessibile per creare un reale bagaglio conoscitivo.
Anche dissentendo dalla linea di Sartori, è difficile non osservare come la televisione, oggi forse meno incisiva a causa dell’effetto assuefattivo, sembra aver modificato comunque i modelli di riferimento e gli stereotipi: nutrirsi d’immagine ed essere immagine. Basta apparire! fare spettacolo, essere spettacolo a tutti i costi non importa se in maniera triviale: vince chi urla più forte, l’affermazione eclatante, la posizione più eccentrica, se aggressiva meglio, lo stile più inusuale. In fondo anche i politici, che ci rappresentano sono così!
Una possibile via di uscita? Fuggire gli schemi, anche quelli della protesta e del cinismo! Ritornare sul proprio sé e solo dopo individuare le proprie scelte e il modo personale di percorrerle.

 

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Titolo: Homo videns. Televisione e post-pensiero
Autore: Giovanni Sartori
Editore : Laterza (collana Economica Laterza), 2007, XVI-166 p.,
Prezzo: € 8,50

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I sondaggi da: Tunnel

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Il nuovo Paradigma contemporaneo

Sociologo francese Alain Touraine, osservando le trasformazioni in atto, individua un nuovo paradigma che potrebbe aiutarci a comprendere il mondo contemporaneo. Nel suo libro Un nouveau paradigme tradotto in Italia come La globalizzazione e la fine del sociale e nelle sue numerose interviste, Alain Tourain ci spinge a ripensare alla realtà e a leggere il mondo contemporaneo abbandonando i nostri vecchi modelli e categorie di riferimento.

Semplificando, il nostro modello di riferimento era espresso con un paradigma economico-sociale: “classi sociali e ricchezza, borghesia e proletariato, sindacati e scioperi, stratificazione e mobilità sociale, disuguaglianze e redistribuzione (..)”. Con l’avvento della globalizzazione e del capitalismo finanziario, tutte le istituzioni sociali (nazionali), che ci aiutavano a pensare e costruire la società, hanno cominciato ad essere sempre meno utilizzabili e quindi a svuotarsi di significato: “non sono in grado di controllare i sistemi economici che agiscono ad un livello più ampio”. L’economia globalizzata, e dunque sovranazionale, le ha rese di fatto marginali. Oggi la società è totalmente separata dal sistema economico ed in balìa dei conflitti provocati dalle contrapposizioni culturali e religiose.

Per Alain Tourain ne consegue la disgregazione sociale dovuta alla “dissoluzione di meccanismi di appartenenza a gruppi e istituzioni capaci di rendere stabile la propria coesione interna e di gestire le proprie trasformazioni” ci deve portare alla riformulazione del pensiero sociale, che individui altre categorie affinché l’inquietudine e l’angoscia per la perdita dei punti di riferimento abituali, non ci spinga ad accogliere posizioni regressive di tipo “pseudo-religioso”, “pseudo-politico, di “comunitarismo e ossessione dell’identità”, di “edonismo individualista sfrenato, che alimenta la psicosi e la violenza su se stessi e sugli altri”.

Questi fenomeni sono evidenti nel caso americano dopo la caduta delle torri gemelle a New York. Dal 2001 la situazione, già grave per l’aumento delle disuguaglianze e per la disgregazione della società, è peggiorata a causa della paura della violenza e della guerra. Come reazione, il presidente Bush con la sua equipe d’ideologi, ha ricreato le condizioni psico-ideologiche per condurre una vera e propria guerra santa in nome del Bene contro il Male.

Altrettanto esposta a forze disgreganti è l’Europa, dove l’indebolimento delle identità nazionali non è stato compensato dalla formazione di un’identità continentale. “L’Europa è l’esempio più probante di creazione di un insieme politico ed economico sovranazionale, ma la sua realizzazione è stata vissuta dalla popolazione come il frutto di un’iniziativa presa da dirigenti politici fermamente schierati, durante la Guerra fredda, dalla parte degli americani”. La mancanza di una legittimazione della maggioranza popolare e di una coscienza identitaria, non ha dato forza al progetto di una Costituzione che avrebbe reso almeno più facile l’esercizio di una politica internazionale comune, dando all’Europa un peso più rilevante a livello geopolitico.
Una nuova dimensione sociale, che possa fronteggiare gli aspetti della globalizzazione, può ripartire invece dall’idea di “Soggetto”: il riconoscimento del “Soggetto” nella sua dignità di essere umano, portatore di proprie specificità e di propri diritti culturali da rispettare e tutelare come quelli di ogni altro soggetto in contrapposizione alle logiche spersonalizzanti di massificazione e di mercato. Si può uscire dal mero individualismo per ritrovarsi nel sé.

Cercando di fornire dei semplici flash della trattazione profonda e complessa di Turaine, il sociologo francese ci incoraggia a prestare attenzione e dare peso ai movimenti come quello femminista o quello ecologista, che stanno avendo un ruolo di primo piano nel ritorno al soggetto.

Tourain auspica la formazione di soggetti personali, che non si sottraggano ai loro doveri sociali e che maturando una vera e propria coscienza civica si sentano responsabili della vita politica e sociale riconoscendo la superiorità della cittadinanza rispetto ai comunitarismi, che tendono a minare seriamente la base della libertà individuale.

Accanto ai diritti politici è l’idea dei diritti umani, insieme a quelli di soggetto (diritti culturali), a offrire la migliore difesa di fronte a tutte le forme di dominio sociale. I diritti culturali, sebbene specifici di categorie, possono dialogare con i diritti politici arricchendo la vita pubblica: il rispetto dei principi generali (o universali) è del tutto compatibile con l’ammissione della pluralità delle forme culturali esistenti che, ancorché minoritarie, hanno in se il germe dell’universalità. “Senza il carattere individuale di un diritto non si potrebbe trasformare la tolleranza nei confronti di certi gruppi in diritti culturali. La legge, dunque non deve riconoscere la libertà di esercizio di culto se non è in grado di proteggere colui o colei che non vuole più essere un fedele di quella chiesa, desidera uscirne o, eventualmente aderire ad un’altra religione.”
La centralità dell’universalismo del soggetto e l’esigenza etica possono far nascere un rinnovamento delle istituzioni, svuotate dal loro significato, e dare linfa vitale a una politica, che è ormai “una realtà molto degradata e travisata”.
Oggi la politica deve favorire la nascita di nuovi attori sociali passando per il soggetto e i suoi diritti; solo allora la democrazia, che oggi appare svuotata di senso, ritroverà il suo significato come espressione dei soggetti democratici.
Solo il rinnovamento della società può consentirci di mettere a punto le politiche sociali che ci permetteranno di superare l’attuale crisi, modificando obiettivi e soprattutto le nostre modalità di intervento pubblico.

(2 parte)

Parte Prima

01 Italia Il filo di Ariannna 2 parte 41gXNdvOcuL__******************************

 

Alain Touraine
Un nouveau paradigme

Interviste:

Siamo tutti soli come attori in un teatro vuoto
su La Repubblica del 31 ottobre 2013

Liberarsi del neoliberismo: da vittime a soggetti
su MicroMega del 7 gennaio 2011