Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Africa: Una scaltra “Democrazia”

L’Africa non è solo la culla dell’umanità, ma è anche delle disuguaglianze e a ogni elezione si ha la conferma che chi ha il potere ha anche una posizione privilegiata, se ha le capacità e la volontà, per condizionare il risultato delle elezioni.

Un esempio di condizionamento riuscito, perché ideato con pazienza, è il Rwanda, dove è stato confermato, con il 98,8% dei consensi, Paul Kagame come presidente, dopo che si era prodigato nel far modificare la costituzione e cancellato il limite di due mandati presidenziali. Un impegno che ha visto premiato con la ratificazione del referendum popolare, aprendogli la strada ad altre due ricandidature che lo porterebbero a rimanere al potere almeno fino al 2027, senza escludere una presidenza a vita.

Per assicurarsi un futuro da presidente è necessario non avere opposizioni ed ecco che la polizia di Kagame arresta Diane Shima Rwigara. che agli inizi di quest’anno si era vista rifiutare la candidatura alle presidenziali, perché non avrebbe raggiunto il numero minimo di firme a suo sostegno, avendo usato documenti falsi di persone defunte.

Accuse sempre respinte da Rwigara e ora, dopo una settimana di silenzio della polizia di Kigali e della famiglia, il portavoce della polizia, sotto la pressione della stampa internazionale, accusato d’aver “trattenuto” la candidata politica su mandato del procuratore, insieme alla madre e la sorella, per essere interrogate per evasione fiscale, ma di averle lasciate libere la sera stessa.

Intanto il 60enne presidente guida per un terzo mandato il Paese che, dopo la stagione sanguinosa del genocidio tra Hutu e Tutsi nel 1994 che causò oltre 800.000 morti, controlla con il pugno di ferro.

Uno scaltro utilizzo di un sistema ritenuto “Democratico” solo perché vengono effettuate delle elezioni che non è riuscito in Kenya a Uhuru Kenyatta, il quale non dimostrandosi altrettanto accorto, “limitandosi” alla correzione dei risultati dei vari seggi che non gli è valsa, per ora, la riconferma, dovendo sottoporsi in ottobre al giudizio dell’elettorato e confrontarsi con il suo rivale Raila Odinga. La nuova chiamata alle urne si è ritenuta necessaria dopo l’annullamento decretato, dopo aver riscontrato irregolarità, dalla Corte suprema del Kenya.

Raila Odinga aveva sin da subito contestato l’esito del voto, definendo «storica per il popolo keniano e estensivamente per tutta l’Africa» la decisione della Corte suprema, fissando al 17 ottobre la nuova data per votare.

Per il Continente africano è la prima volta che dei giudici propongono di far svolgere nuovamente le elezioni presidenziali per delle irregolarità.

Nel vicino Burundi è Pierre Nkurunziza, presidente dal 2005, che, dopo essersi affermato per un terzo mandato, vuol convincere l’opposizione, più battagliera di quella del Rwanda, a farlo rimanere sino al 2020, nonostante venga ritenuta la situazione incostituzionale. Un paese carente di democrazia, come viene sottolineata nella relazione della Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH), e l’Onu ha rilevato un peggioramento della crisi umanitaria. Una situazione che ha sconfinato, sin dal 2015, nel vicino Congo, con 400mila profughi, creando difficoltà nell’accoglienza in un paese impegnato a fronteggiare già un milione di sfollati causati dal conflitto tra il governo centrale e i capi delle varie le milizie.

In Angola, con il ritiro del settantacinquenne José Eduardo dos Santos, solo apparentemente il voto sembra cambiare qualcosa. A succedere a dos Santos, presidente per gli ultimi 38 anni e promotore della legge che proibisce al suo successore di cambiare non solo i capi dell’esercito e della polizia, ma anche dei servizi di intelligence per otto anni, è João Lourenço, militante sin dagli anni Settanta del partito al potere (Movimento popolare per la liberazione dell’Angola – Mpla), per poi diventare generale dagli anni ottanta e ministro della difesa, ed esser stato eletto presidente.

Dos Santos non voleva sorprese dopo il suo ritiro, cosa che poteva avvenire se era Jennifer Lopez a succedergli, cercando di assicurarsi una vecchiaia dorata rimanendo a capo dell’Mpla, il partito tutt’ora al potere; e con la figlia Isabel (la donna più ricca dell’Africa) alla quale ha affidato la gestione della compagnia petrolifera di stato; mentre uno dei suoi figli controlla il fondo di investimento sovrano di cinque miliardi di dollari.

Con lo slogan «Si metta un limite ai mandati presidenziali» l’opposizione vuole mettere fine al monopolio della famiglia Eyadéma/Gnassingbé sulla presidenza del Togo.

Sono una cinquantina di anni che la famiglia Gnassingbé detiene il potere, prima il padre di Faure Gnassingbé, l’attuale presidente, a prendere con un golpe il potere e tenerselo con dei tira e molla per una quarantina anni, poi nel 2005 è il figlio a succedergli, rendendo il Togo, con una dittatura silenziosa, un personale feudo corrotto e povero, ma con una speranza, se i togolesi potranno vedere rispettata la Costituzione vota dal 90% dei votanti nel 1992, è il quarantasettenne Tikpi Atchadam, ma sarà difficile che si potranno effettuare dei radicali cambiamenti con gli enormi interessi che coinvolgono il porto di Lomé, come uno snodo della rotta della droga dall’America Latina all’Europa, oltre ad essere l’ingresso delle armi che alimentano le guerre del continente.

L’opposizione togolese, una coalizione di 14 partiti, ha indetto nuove manifestazioni per il 4 e il 5 ottobre, dopo le vittime del 20 e 21 settembre, per chiedere riforme costituzionali dopo settimane di mobilitazione popolare contro il regime di Faure Gnassingbé.

Africani che piegano la democrazia ai personali interessi, disinteressandosi, non tanto del benessere degli africani, ma di garantire l’acqua potabile a tutti.

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Qualcosa di più:

Africa: attaccati al Potere
Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Solidarietà: il lato nascosto delle banche
I sensi di colpa del nostro consumismo
Le scelte africane

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Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi

La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.

Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche  all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.

Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.

Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.

L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.

Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.

Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.

Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti

Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.

L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.

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Qualcosa di più:

Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Migrazione: Un monopolio libico

La migrazione anche in Libia sta diventando un affare per ogni contendente e non solo per la gestione discutibile dei 34 centri di detenzione noti, ma anche per la possibilità della Guardia costiera libica e per le vari milizie, che si contendono un fazzoletto di potere, di lucrare sul traffico di esseri umani.

Un grande affare che non poteva essere lasciato in mano ai soli trafficanti, ma ora anche i libici, di tutte le parti, hanno pensato che è ora prendere in mano tutta la filiera: dall’organizzazione dell’imbarco alla “accoglienza”, grazie all’istituzione di una personale zona di soccorso (Sar – Search And Rescue) libica.

Una zona di soccorso che rende più Mediterraneo sotto il controllo di Tripoli ed ecco che riemergono le antiche ambizioni di Gheddafi nell’ ampliare la propria sovranità sulle acque territoriali., comportando, stando alle mappe in uso alla missione EuNavFor Med (Sophia), il possibile arretramento dell’area d’intervenire delle Ong da 12 miglia a fino 97 miglia dalla costa libica.

I migranti che arrivano in Libia possono venire rinchiusi nelle strutture sotto il controllo di Tripoli o di Tobruch, ma anche riuscire a prendere il mare per l’ultima tappa verso l’Europa.

Questo poteva succedere prima, ora tutti possono essere imbarcati su gommoni e bagnarole, per poi essere ripescati dalla Guardia costiera ed essere rinchiusi nelle strutture di detenzione, in attesa di essere venduti come schiavi o ceduti nuovamente agli scafisti.

In Libia si sta collaudando la migrazione a moto perpetuo, una sorta di criceto che corre nella ruota, sino ad esaurimento. Persone nella ruota della fortuna, tra le strutture governative libiche e in balia dei trafficanti, dove solo il banco vince.

L’Occidente ha creduto di essere stato tanto furbo a delegare ad altri il ruolo di sentinella dei propri confini con accordi e intese che hanno coinvolto governi con problematiche interazioni con il prossimo e personali interpretazioni del concetto di Diritti umani come quello di Khartoum (2014) e il più recente con la Turchia, ma anche a Rabat (2006) e ancor prima a Budapest (1993).

Tanti processi, accordi e trattati con governanti democraticamente discutibili, che hanno e stanno impegnando ingenti fondi europei che sarebbero stati meglio utilizzati se gestiti direttamente per l’accoglienza e per lo sviluppo nei luoghi d’origine, invece di foraggiare i signorotti locali e i governi autoritari.

Il ministro degli interni italiano, Marco Minniti, continua ha esternare la sua soddisfazione nell’andamento degli interventi italo-libici, per controllare il controllo meridionale dei confini europei in Libia. Confini che coinvolgono anche il Niger, il Mali e il Ciad, tre dei cinque paesi che tentano di organizzare una forza d’intervento contro i gruppi terroristici jihadisti, ma per ora è riuscito a guerreggiare con le Ong piuttosto che sconfiggere gli scafisti.

Forse è l’attività “diplomatica” francese, con la Ue nel sostenere Serraj e con l’Egitto per Haftar, che ha scrollato l’Italia, decidendo di riportare la rappresentanza diplomatica al Cario al completo, nominando l’ambasciatore Giampaolo Cantini.

Una decisione che potrebbe andare a discapito della verità sul caso Giulio Regeni, ma dovrebbe aiutare il governo italiano a dialogare con il generale Haftar per raggiungere un accordo sulla questione migratoria.

Le agenzie europee e il governo italiano non si limitano ai conti del ragioniere, disumanizzando le persone che hanno affrontato e continuano ad affrontare mille ostacoli, ma oltre a cercare un accordo con i “due governi” libici, hanno negoziato una riduzione di flussi migratori, grazie all’elargizione  di varie forme di aiuti comprese di forniture ospedaliere a Sabratha, con le varie milizie.

Una disumanizzazione che ha ridimensionato quest’umanità in fuga in numeri o a ingombri come è successo nella guerriglia in una Roma agostana a piazza Indipendenza.

Persone che diventano per la politica solo un problema e alle quali nessuno si interessa alle loro singole storie se non in rari documentari come in “Too much stress from my heart” di Ludovica Lirosi che ha realizzato e prodotto tra il nord Africa e il sud dell’Italia.

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Islamia: Un Buco Nero che non si è ancora richiuso

Improvvisamente, alla fine del giugno 2014, Al-Baghdadi si incorona califfo ed annuncia la creazione dello Stato islamico, così l’Occidente si accorge che a cavallo della frontiera iracheno-siriana è comparso un buco nero.

Un buco nero che in tre anni ha sconvolto la vita di centinaia di migliaia di persone, intere famiglie distrutte, testimonianze di antiche culture ridotte in polvere, una generazione di minori traumatizzata.

Ora quel buco nero si sta per richiudere, ma la sutura sembra che non stia riuscendo, i vari affiliati si stanno disperdendo come un virus che non si è arrivati a circoscrivere. Si riconquistano i territori del fantasioso IS come Mosul, ma rimangono altri villaggi e città che continuano ad essere occupati con  popolazioni tenute in ostaggio.

Il premier iracheno Haider al-Abadi si congratula con le forze irachene, cantando vittoria sui terroristi “nemici di tutti i popoli civilizzati”, ma a Mosul sono presenti ancora alcune sacche di resistenza e ci sono 3mila civili, in gran parte bambini separati dai genitori, bloccati dai Foreign Fighters, da quei combattenti stranieri che non si sono potuti mescolare tra la popolazione per sfuggire alla cattura, facilmente riconoscibili per i caratteri somatici differenti ed ora votati alla morte.

Per evitare la nascita di una versione 2.0 del gruppo jihadista dell’Isis/Daesh, come suggerisce il generale statunitense Stephen Townsend nell’intervista rilascia alla BCC, il governo di Bagdad dovrà procedere ad una riappacificazione nazionale, dimostrando con la sua opera di voler rappresentare non solo la maggioranza sciita del paese, ma anche la minoranza sunnita.

Non si può cantare vittoria per una città liberata con le macerie e diventata una trappola esplosiva non solo per le bombe nascoste, ma anche bersaglio per gli attacchi con lancio di razzi, come viene evidenziato nel rapporto del CTC di West Point (Combating Terrorism Center at West Point).

Altri territori rimangono sotto il controllo dell’IS in Iraq: Hawija, a 130 km a sud-est da Mosul intorno a Tal Afar, a 65 km ad ovest ed a 250 km a sud-ovest, da Ana a Al-Qaim, nella valle del fiume Eufrate.

Mentre in Siria, sempre lungo l’Eufrate, una serie di città rimangono, oltre la roccaforte di Raqqa, dominio del fanatismo.

L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dell’ONU (UN’s International Organisation for Migration) ha stimato che più di un milione di persone sfollate da Mosul est e ovest e più di 800.000 persone vivevano nei campi.

Una liberazione quella di Mosul, come di Aleppo prima, che ha rimaneggiato struttura urbana, lasciando ben pochi edifici ancora spettralmente in piedi, ben poco rimane riconoscibile tanto da poter essere ancora un punto di riferimento per non scambiare la città con un’altra.

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Islamia: accoliti con benefit

Medio Oriente: un buco nero dell’islamismo

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Macron: Un’Europa in salsa bearnaise

La Francia si è sempre dimostrata con una politica estera bivalente tra europeismo e interessi nazionali, schierandosi con la Ue e l’Onu nel appoggiare il capo del Consiglio del governo di unità nazionale libico, Fayez al-Serraj, ma simpatizzando con l’uomo forte di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, tanto da garantirsi nella futura Libia un posto di riguardo.

Una posizione quella francese che ha certamente facilitato l’incontro tra le due parti alle porte di Parigi, nel castello di La Celle Saint Cloud, che non ha portato alla firma di un accordo sul cessate il fuoco e ad elezioni in primavera, ma solo a una dichiarazione d’intenti che non ha fatto limitato i toni trionfalistici, anche se Le Monde metteva in evidenza la mancanza di garanzie sul risultato Emmanuel Macron parraine un accord en Libye, sans garantie de résultat e l’irritazione di Roma per l’iniziativa non concordata.

Poche ore e i toni trionfalistici sull’accordo sponsorizzato dalla Francia sulla non belligeranza libica si trasformano in delusione ed ecco il generale Haftar non fa in tempo a ritornare in Libia che da del “fanfarone” ad al-Serraj, bollando come un Flop l’incontro parigino voluto da Emmanuel Macron per la Libia.

Forse si poteva essere prevedere un esito negativo, dopo il fallimento del primo tentativo, nel maggio scorso, ad Abu Dhabi.

Il caso ha voluto che la tradizionale politica francese si frantumasse davanti alla marcia trionfante di Macron, ma come la salsa bearnaise è nata dall’erroneo trattamento di uno degli ingredienti e con un nome riferito la soprannome di Enrico IV il Bearnaise, da Béarn della regione la nascita del sovrano conosciuto per la facilità di abiurare per interesse.

Un Macron che improvvisamente si trova a guidare la Francia che sogna di mettere al centro di ogni situazione geopolitica, i suoi predecessori si erano limitati a curare gli interessi francesi nelle ex colonie, lui vuol fare della grandeur La Grandeur, apprestandosi, dopo 10/15 anni di una Europa dal volto teutonico, a modulare la Ue con caratteri gallici, scoprendo un sovranismo europeista che si dilata nell’affaire Fincantieri-Stx, dove il patriottismo economico è un argine nel controllo italiano sul cantiere navale di Saint Nazaire, sulla foce della Loira, ma anche un’occasione di trattare per una parità in cambio di una cooperazione militare, oltre che civile.

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Qualcosa di più:

Macron, Philippe e il “compito immenso”
Francia: Due presidenti al prezzo di uno

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