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Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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Qualcosa di più:

Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria

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75 ore a Milano

Premesso che è consigliabile perdersi in una città per poterla apprezzare o diventarne allergico, il vero e proprio viaggio inizia appena fuori dalla stazione.

Remo Turchi, alla fine degli anni ’30, cinguettava: Passeggiando per Milano /camminando piano, piano / quante cose puoi vedere, / quante cose puoi sapere, poi venne Memo Remigi con Innamorati a Milano (1965) – Sapessi com’è strano / sentirsi innamorati / a Milano. / Senza fiori, senza verde, / senza cielo, senza niente / fra la gente, (tanta gente)  – e oggi abbiamo Dargen D’Amico che rap: Amo Milano perché quando il sole sorge / Nessuno se ne accorge / Amo Milano perché non si nota / Per l’Europa Italia, per l’Italia Europa / Amo Milano perché è un giardino degli Emirati / E siamo tutti immigrati.

Milano è una di quelle mete facilmente raggiungibili da ogni luogo d’Itala e di Europa, rendendo il viaggio godibile se realizzato con il treno per lo scorrere dei paesaggi e potersi soffermare alla giusta distanza, non è come essere ingabbiati nelle carlinghe volanti, con le storie narrate dai volti e dagli abiti dei cooviaggiatori, ma soprattutto potendo limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e trovarsi subito direttamente nel cuore della città.

È opportuno, scegliendo di arrivare a Milano dalla Stazione Centrale, prenotare la visita al Binario 21 e al Memoriale della Shoah da visitare magari il giorno della partenza, non essendo sempre aperto al pubblico. La visita è l’occasione di riflessione sulla “banalità del male” negli spazi sotterranei nei quali si accede da via Ferrante Aporti, dove gli ebrei venivano, dal 1943 e al 1945, raccolti e deportati, dopo una sosta di un paio di giorni, verso Auschwitz-Birkenau, Bergen Belsen o ai campi italiani di raccolta come quelli di Fossoli e Bolzano. Un’umanità che veniva caricata su vagoni merci, con l’utilizzo di un elevatore per essere trasportati al sovrastante piano dei binari.

Ci si accorge, uscendo dalla Stazione Centrale, della grandiosità pretenziosa della sua architettura, impegnata a dare un contributo più al pesante Déco che al Liberty, ma il risultato e una rilettura dell’architettura assiro-babilonese nell’ingabbiare binari e servizi in uno sproporzionato sarcofago. Una realizzazione nonostante tutto ben più austera, in linea con l’Italia giolittiana di quel periodo, di quello che prevedeva il progetto originario ricco ornamenti di corone, festoni e motivi geometrici astratti, oltre a torri, statue e orologi.

Nello piazzale antistante la Mela integrata di Pistoletto non è solo il simbolo di un’idea d’arte, ma anche il reale rifugio di un’umanità migratoria che sosta a Milano con la speranza di potersi ricongiungersi con i familiari in Francia, in Germania o magari sino ai paesi Scandinavi, come raccontato nel film Io sto con la sposa .

Si lasciano i bagagli a casa di amici o in una foresteria religiosa, per non andare incontro ai poco economici alberghi meneghini, affrontando poi una città che guarda più a Parigi per gli spazi che all’intimità viennese, come si decanta nel libro di Sellerio Milano è una seconda Parigi (2007) sulle impressioni dei viaggiatori angloamericani.

Milano appare subito come una città protesa verso il futuro, con passo spedito che da anni miete vittime nelle testimonianze del passato. Come le antiche mura del periodo romano, come di quelle medioevali e spagnole, grazie all’impegno del Barbarossa che le giudicava una sfida e poi successivamente con il ritenerle un impedimento alla viabilità cittadina.

La Torre Velasca o il Pirellone, progenitori dei nuovi grattacieli che costellano Milano, hanno sostituito le torri medioevali. Una città che per fare spazio a un “risanamento” edilizio ha sacrificato il Lazzaretto nel centro o l’antica chiesa della Ss. Trinità che in passato era nota come il Borgo degli Scigolatt (ortolani), rimpiazzata da un’altra dai dubbi risultati architettonici. Un edificio architettonicamente poco attraente, ma che è un riuscito esempio di scambio di conoscenze, non solo per l’oratorio e la catechesi, ma anche corsi di lingua, sovrastato dai palazzi della speculazione edilizia che hanno sostituito gli edifici di altri tempi.

Tra ciò che appare curioso sapere su Milano è quello di una città pratica capace di rinnovarsi senza crisi di coscienza nel buttare giù o spostare testimonianze di altre epoche in luoghi diversi da quello originale, come decontestualizzare un colonnato romano per far posto a un condominio.

Il trasporto pubblico è efficiente e grazie ad una serie di tessere orarie o abbonamenti ricaricabili che permette la prima tappa allo sfarzo e alla futilità dell’acquisto di oggetti e abbigliamenti che per molti significa lo stipendio di un anno. Si passa per corso Buenos Aires per raggiungere via Monte Napoleone.

Monte Napoleone è una zona ben diversa da viale Piave dove si trova la sede dell’Opera San Francesco per i Poveri, un punto di riferimento per gli indigenti bisognosi di assistenza gratuita e accoglienza, come il ristorante solidale Ruben (via Gonin, 52).

Il giorno successivo si passa dalla “necessità” del superfluo materialistico alla spiritualità dell’essenziale, con la visita di sant’Eustorgio e all’arca di San Pietro Martire, nella cappella Portinari, commovente esempio di scultura gotica del 1339. Più di una scultura è un’architettura ispirata alle virtù cardinali e teologali, impreziosite dalle figure allegoriche di animali e rappresentazioni mitologiche.

Ad arricchire l’iconografia la decorazione del sarcofago con le storie dei santi e la rappresentazione dei miracoli compiuti da san Pietro martire (il Miracolo del muto, della Nube, la Guarigione dell’infermo e dell’epilettico, il Miracolo della nave) per concludersi con il Martirio, i Funerali e la Canonizzazione.

Dopo un tour nella Milano d’epoca una passeggiata in quella odierna, protesa verso il cielo, con la suggestione di realizzazioni di architetti interessati più ai volumi imponenti, con facciate a specchio che ridisegnano lo skyline della città e meno alla durevole funzionalità degli spazi.

Complessi labirintici, come la nuova sede della Regione Lombardia, molto simile alle carceri del Piranesi e ben lontani dalla lezione razionalista.

Un tour tra le nuove edificazioni e i cambiamenti del quartiere Isola, un quartiere sventrato dalla stazione Garibaldi, chiamata una volta “le varesine” perché serviva principalmente il zona Nord di Milano (come le ferrovie Nord a Cadorna) ed in particolare la zona di Varese, utile per i treni diretti a Torino e per l’alta velocità, e da grattacieli di 25/30 piani che a tutt’oggi rimangono in gran parte vuoti.

La fantasia non manca, ma spesso l’architettura moderna pecca di lungimiranza nella durevolezza del manufatto, come i “grattacieli” milanesi che abbisognano di continue manutenzioni.

Sono edifici indubbiamente interessanti, ma ben lontani da quelli della Défense o di Canary Wharf, come il complesso di torri che vanno sotto il nome di Bosco Verticale, l’ultimo nato dello Studio Boeri, che mette in pratica la lezione di Patrick Blanc con i suoi giardini verticali come il Musée du quai Branly

Uno dei luoghi per poter avere un’idea dell’alta borghesia milanese, con i suoi capricci e ossessioni, è il Cimitero monumentale della metà dell’800, con un’infinità di riproduzioni dell’Ultima Cena di Leonardo in versione scultorea e una riproduzione ridotta della Colonna di Traiano. Viali alberati con una varietà di visioni per la “memoria” del caro estinto. Rare le lastre tombali con i dati essenziali, la maggioranza sono arricchite da sculture e ornamenti, per le famiglie altolocate si va dal Golgota rivisitato alle monumentali architetture dagli stili eclettici ispirate ai templi greci e obelischi elaborati, da elaborazioni neogotiche, sino a proporre un’architettura assiro lombarda e all’etereo cubo in memoria degli 847 milanesi caduti nei campi di concentramento. Un monumento semplice che si discosta dalle altre testimonianze funerarie sino al quel momento principalmente figurative. Progettato ed eseguito in una settimana, nel 1946, dal gruppo B.B.P.R. (Belgioioso, Banfi, Peressuti e Rogers), con successive ricostruzioni, è un cubo di tubi metallici con le facce suddivise in una serie di croci, con un cubo più piccolo e un’urna contenente la terra di Mauthausen.

Non è il cimitero parigino del Pére Lachaise, ma il cimitero milanese è il luogo dove hanno trovato riposo Alessandro Manzoni e Francesco Hayez, Arturo Toscanini e Vladimir Horowitz, Arrigo Boito e Sergio Monelli, Gino Bramieri e Alik Cavaliere, Walter Chiari e Guido Crepax, Giorgio Gaber e Enzo Jannacci. Un luogo ordinato e curato, ben diverso dal degrado, come stanno a dimostrare le tombe di Belli e Trilussa, che regna nel romano Verano.

Un museo all’aperto, turisticamente poco frequentato, che raccoglie gli esempi della scultura del XVIII secolo, contenuti in un complesso architettonico eclettico ideato nel 1864 dall’architetto-ingegnere Carlo Maciachini e con monumenti funerari realizzati da artisti come Medardo Rosso o Adolfo Wildt, con cappelle che spaziano dal Liberty che si trasforma in espressionismo, sino a proporre l’architettura degli anni ’50 e ’60.

A due passi dal Cimitero il Quartiere cinese, non una Chinatown dalle architetture caratteristiche, ma un dedalo di vie tra le più trafficate di Milano dove pullulano botteghe di artigiani nei cortili e su strada, dalle sartorie ai conciatori, ma anche del vetro, del ferro e del legno.

Una comunità presente a Milano sin dal 1920 e durante il fascismo il quartiere era chiamato “quartier generale dei cinesi”.

Alle spalle delle Stazione Centrale un altro luogo di multiculturalità è via Padova, ben pubblicizzata dalle iniziative promosse da Città Migrande per conoscere le culture presenti nella città attraverso visite guidate. Una zona compresa tra il Parco Trotter e Piazzale Loreto, dove i nuovi cittadini di Milano svolgono le loro attività artigianali e commerciali, tra gli aromi del curry e del cardamomo.

Il terzo giorno inizia andando alla scoperta del Lazzaretto di manzoniana memoria. Testimonianza del quadrilatero che componeva il Lazzaretto ora rimane San Carlo al Lazzaretto, detto San Carlino per le modeste dimensioni, conosciuto soprattutto per la descrizione che ne fa’ Alessandro Manzoni nel 36esimo capitolo dei I Promessi Sposi e il fulcro di un futuro parco letterario. Un edificio di conforto agli appestati e che ora risente degli oltre quattrocento anni di vita che aspetta ormai un energico intervento per risanare le lesioni e l’umidità che deforma l’architettura. Un restyling che si attende da anni e al quale partecipa anche il colosso delle omonime patatine che ha iniziato la sua attività nel 1936 a poche centinaia di metri dalla chiesa.

Altre tracce del Lazzaretto sono rappresentate dal frammento di muro nei pressi della Chiesa Russa Ortodossa di San Nicola di Milano, al numero 5 di via San Gregorio, dove è la presenza di un’icona che periodicamente lacrima olio vegetale, conosciuto anche come Sacro miron.

Il Museo del ‘900, senza sigle fantasiose, tanto di moda per i nuovi musei, è una tappa importante, nonostante venga ignorato da molte guide per essere stato inaugurato solo recentemente, non solo per il lavoro di recupero realizzato sul Palazzo dell’Arengario che si affaccia su piazza del Duomo, ma soprattutto per aver riunito alcune opere sparse nei vari luoghi di Milano, offrendo una lettura unitaria della storia dell’arte italiana degli ultimi cento anni. Ricevuto il benvenuto da una versione del Quarto Stato di Giuseppe Pelizza Da Volpedo, si possono affrontare gli arditi accostamenti come Braque e Morandi in due opere “minimali” dalle quali traspaiono i primi indizi di Cubismo nel primo e la grandezza delle “piccole” cose quotidiane nel secondo.

Il percorso espositivo è intricato ma la cortesia del personale facilita la comprensione senza perdere neanche un granello d’arte incentrata sulla presenza italiana nel panorama artistico del ‘900 con il Futurismo come discriminante tra la figurazione e l’astrazione. Con Umberto Boccioni si affronta questo passaggio verso la rarefazione, per approdare ad altro. Poi Lucio Fontana che prima di mettere in comunicazione il davanti con il retro delle tele attraverso i tagli dimostra che sapeva fare altre ben cose, dimostrando che non ci si inventa artisti. Seguno Carrà, Soffici, de Chirico, Sironi, Martini, Morandi, Fontana, Manzoni, Kounellis, la collezione Marino Marini con i mille volti della cultura del ‘900. Defilato non poteva mancare l’estroso Pistoletto.

Nel Museo è rarissima la presenza femminile per muoversi dal Futurismo al Novecento, dallo Spazialismo all’Arte Povera.

La maggior sorpresa il Museo la riserva nell’ultimo piano con le enormi vetrate per un impressionante sguardo sul Duomo e dintorni, poi ancora qualche scalino per accedere al contenitore con i tagli di Lucio Fontana. Il percorso termina con la discesa tra ascensori e scale mobili.

Lasciando il Museo e superando la Galleria Vittorio Emanuele II ci si trova davanti ad una scampata testimonianza della Milano Medioevale rappresentata dalle vestigia del Palazzo della Ragione, nella piazza dei Mercanti, poggiato su ampie arcate dove si ritrovavano gli artigiani e i bottegai per il commercio delle loro mercanzie. L’edificio, oltre al commercio, era adibito anche all’attività giudiziaria ed è un’isola nel degrado a due passi dal Duomo, con lo strano connubio di finestre dai vetri infranti e l’avveniristica scala di cristallo per accedere al primo piano.

Sul prospetto interno alla piazza, all’altezza di un pregiato pozzo del XIV sec., è possibile vedere il rilievo di Oldrado da Tresseno a cavallo (1233), attribuito alla scuola di Benedetto Antelami, podestà di Milano al quale si deve la costruzione del Palazzo della Ragione e difensore della fede e della spada, come recita in latino l’epigrafe posta alla base dell’edicola, che costruì il palazzo e bruciò, come doveva, i Catari.

Un periodo, quello del ‘200, d’insofferenza religiosa verso i Catari, e delle altre realtà considerate eretiche dalle gerarchie ecclesiastiche, che durò vent’anni e si concluse con la loro scomparsa dalla Lombardia e dall’Europa.

Sulla facciata “esterna” c’è la possibilità di scoprire il bassorilievo della Scrofa semilanuta, un mitico essere riconducibile alla leggenda sul fondazione di Milano attribuita al capo celtico Belloveso, arrivato da oltralpe, e alle indicazioni venute da una dea in sogno con le fattezze di una scrofa di cinghiale con il pelo molto lungo sulla parte anteriore del corpo, decidendo di costruire la sua città in quel luogo e di chiamarla Mediolanum, cioè “semilanuta” (medio-lanum).

La Scrofa semilanuta fu inserita nel gonfalone comunale, sino a quando venne sostituita come emblema della città dal biscione visconteo.

Se avete ancora del tempo per fare un salto fuori dal centro, in via Giulio Natta (Lampugnano), è possibile visitare un nuovo spazio mussale, il Mudec, dedicato alle culture del Mondo. Degno non solo per voler dare una casa alle diverse culture ma anche per essere un progetto dell’architetto britannico David Chipperfield che ha recuperato il distretto industriale nella zona dell’ex Ansaldo.

Nel QT8, quartiere che nasce per celebrare l’ottava Triennale di Milano (Q come quartiere T per Triennale e 8 per ottava edizione), è da visitare “Il giardino dei giusti del mondo” , sul modello dello Yad Vashem di Gerusalemme, in memoria di chi si è opposto ai genocidi. Un Giardino che ha trovato spazio sul cosiddetto Monte Stella, un’altura cresciuta con le macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti subiti dalla città.

A Milano si può soddisfare ogni voglia di dolce e di salato, con le numerose pasticcerie e forni, mentre per i pasti, rimanendo nell’ambito milanese anche se non mancano locali multietnici, non si trova certo difficoltà a trovarne, ma se si vuole qualcosa di autenticamente milanese come la trattoria Madonnina in zona Navigli è necessario prenotare, ricordando che la domenica è chiusa come la meno centrale, ma altrettanto ambita, trattoria da Tomaso in zona Isola. Per chi ama atmosfere meno frenetiche, più pacate, si può rivolgere alla trattoria sant’Eustorgio, nell’omonima piazza, o Lo strapuntino a corso Garibaldi, dietro il Teatro Strehler.

Per il dolce e non solo Milano offre una vasta scelta, ma sicuramente la pasticceria Biffi (C.so Magenta 87) rappresenta la gioielleria dei dolci, dove trovare il panettone tutto l’anno con la possibilità di ordinarlo anche online.

Altrettanto nota, ma dai prezzi meno esagitati, la pasticceria Cucchi (Corso Genova, 1) con mille sfiziosità e dar non dimenticare il miglior panettone di Milano preparato (secondo l’antica ricetta e con ingredienti tutti naturali) la piccola ma rinomata pasticceria Corcelli (via Plinio 13).

Girando per le chiese tra Caravaggio e i suoi seguaci

Per chi rimane in città e vuole godersi il fresco delle chiese romane, cercando contemporaneamente di approfondire stimoli e curiosità artistiche dimenticate durante l’inverno, proponiamo un lungo itinerario per conoscere le opere più famose del Caravaggio e del suoi seguaci.

Un viaggio pittorico, che arriva fino a Giovanni Serodine e si snoda attraverso i luoghi per cui le tele erano state ideate: le chiese. Non parleremo quindi — per brevità —delle opere conservate nei musei, in quanto luoghi estranei al contesto dell’opera e legati all’obbligatorietà del biglietto d’ingresso.

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, giunge a Roma verso il 1593; la sua prima commissione pubblica lo impegnava a completare la Cappella Contarelli a san Luigi dei Francesi, iniziata dal Cavalier D’Arpino. Tre tele ispirate alla vita di san Matteo che esprimono la «filosofia» della pittura notturna come unica situazione per evidenziare la vita, la fantasia. Tagli di luce che mettono in risalto, facendole uscire dall’oscurità del fondo, le figure umane che si muovono sulla scena pittorica.

Dopo il san Matteo realizza la «Conversione di san Paolo» e la «Crocifissione di san Pietro» per santa Maria del Popolo, cimentandosi con i soggetti che Michelangelo Buonarroti realizzò poco meno di un secolo prima per la Cappella Paolina in Vaticano.

Nei primi anni del 1600 realizza per la chiesa di santa Maria della Concezione, detta dei Cappuccini, il «san Francesco in meditazione», situato nella sacrestia. Un’altra versione dell’opera era nella chiesa di San Pietro a Carpineto Romano e ora in deposito alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma e messi in mostra, in questo mese di luglio 2017, insieme alla doppia proposta del Caravaggio «La Flagellazione di Cristo», proveniente da Napoli, per festeggiare i 30 della F.E.C., Fondo Edifici Culto, proprietaria dei quattro dipinti.

Per la chiesa di sant’Agostino, poco lontana da san Luigi dei Francesi, dipinge tra il 1603 e il 1605 la «Madonna dei pellegrini» con l’esaltazione dei volumi per mezzo di un fascio di luce che taglia obliquo la tela da sinistra a destra.

Queste sono alcune delle opere del Caravaggio conservate a Roma che si possono vedere senza obbligo di biglietto, più elencate che descritte, ma le tele del Merisi sono da osservare dal vivo nelle chiese, per le penombre, per i primi piani delle mani e dei piedi, per le figure popolaresche che danno vita a santi, madonne e angeli in una resa «brutale» della realtà e la presenza della luce come apparizione simbolica della vita; la luce della notte che si contrappone alla pittura dell’alba (la morte) e a quella del sole (la rassegnazione).

Questa lezione nel trattare la materia pittorica in un campo contrastato di luci e ombre fece numerosi seguaci e ammiratori tra i quali Orazio Gentileschi e sua figlia Artemisia. Di Orazio Gentileschi si può vedere nella chiesa di san Silvestro in Capite (piazza San Silvestro) nella seconda cappella a destra, la pala d’altare dedicata a san Francesco; nella stesa chiesa sono presenti anche due tele attribuite a Orazio Borgiani, il quale è presente con «san Carlo che adora la santissima Trinità» nella chiesa di san Carlino alle Quattro Fontane.

Il «Battesimo di Gesù», nella cappella a destra dell’altare maggiore della chiesa di santa Maria della Pace, è di Orazio Gentileschi. La chiesa è possibile visitarla grazie ai volontari del Servizio civile che provvedono a tenerla aperta dalle ore 9.00 alle 18.00 dal lunedì al sabato.

Non lontano, verso piazza Navona, ecco Carlo Saraceni, nella chiesa di santa Maria dell’Anima, con i «Miracoli di San Bennone che riceve le chiavi» e «Il martirio di san Lamberto».

Proseguendo verso santa Maria sopra Minerva si trova la «Coronazione di spine» attribuita a Carlo Saraceni.

In santa Maria alla Scala la «Morte della Vergine» di Carlo Saraceni ha sostituito l’analogo quadro del Caravaggio, rifiutato dai Carmelitani in quanto ritenuto poco decoroso per come era rappresentata la Vergine, si trova in compagnia del fiammingo Gerrit Van Honthorst, noto anche come Gherardo delle Notti, con la «Decollazione del Battista».

La lezione della notte ritorna con il soprannome Gherardo delle Notti che il fiammingo Van Honthorst si guadagnò forse per la sua bravura nel dipingere i notturni o forse perché la sua ambizione lo portò a dover dipingere anche di notte, cosa non rara in quell’epoca, per avere maggiori guadagni.

Dopo il Gentileschi molti furono i seguaci del Merisi, italiani e stranieri, che lasciarono nelle chiese romane testimonianze del loro amore per la pittura caravaggesca come Giovanni Baglione, meglio affermatosi come scrittore di storia artistica, lasciò ai santi Cosma e Damiano (via dei Fori Imperiali l) la cappella della vergine Maria e di S. Giovanni e «Sant’Antonio da Padova con Gesù Bambino» di Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino.

Il Baglione è anche presente nell’altare di sinistra della chiesa fortificata dei santi Quattro Coronati con il «san Sebastiano» e a santa Maria della Consolazione con le «Storie di Gesù e della Vergine».

Nella chiesa di santa Maria in Aquiro (piazza Capranica) sono presenti due tele di Carlo Saraceni, «Nascita della Vergine» e «Presentazione al Tempio», nella terza cappella di destra, a Gherardo delle Notti viene attribuita la «Coronazione di Spine», al francese Trophine Bigot la «Flagellazione», mentre la «Deposizione» ad un ignoto caravaggesco.

Altre opere del Saraceni sono nella chiesa di santa Maria dell’Orto di san Lorenzo in Lucina, dove troviamo un altro caravaggesco, il francese Simone Vouet, cappella Alaleona, con due opere dedicate a san Francesco, mentre nella chiesa di san Francesco a Ripa Vouet è presente, nella prima cappella a sinistra e raramente illuminata, con la «Natività di Maria».

L’itinerario, forse un po’ schizofrenico e che non elenca tutti i tesori di ogni singola chiesa citata, si conclude con il quadro di Giovanni Serodine la «Decollazione del Battista» in San Lorenzo fuori le mura, dove la lezione caravaggesca viene assimilata e fatta propria precorrendo, per il suo originale modo di intendere la luce, Vermeer.

Un rimaneggiamento e aggiornamento
di luglio 2017
da il manifesto – cronaca romana
del 13 agosto 1988

 

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Qualcosa di più:

Doppi Caravaggio

La Finestra del Caravaggio

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Trump Il commesso viaggiatore tra i sauditi e gli israeliani

Gli Stati uniti, anche con questo presidente, proseguono nella politica di far fare il lavoro sporco a quei governi che “democraticamente” hanno le mani libere, ma se con Barack Obama si chiedeva di non utilizzare certe armi proibite sui civili, con Trump non ci sono pubbliche remore e si fornisce armamentario per 110 miliardi di dollari all’Arabia saudita, anche se sarà usato sulle popolazioni dell’Yemen.

Nel primo viaggio di Trump in Medio oriente lo si vuole far apparire come uno “statista” impegnato nella rappacificazione israelopalestinese. Nessun altro aveva mai osato tanta spavalderia, ma forse viaggiare tra l’Arabia e Israele potrebbe portare ad una ripresa dei colloqui di pace, se non per umanità, certamente per convenienza politica.

Nella valigetta di Trump non ci sono soluzioni ma una serie di contratti per vendere armamenti di ogni genere e dopo aver ottenuto buone commesse con i Paesi del golfo, è la volta di Israele che non dovrebbe essere da meno, perché non basta chiamare gli stati arabi sunniti alla guerra al terrorismo e fare muro contro l’Iran sciita.

Nella sua valigetta ha anche delle proposte commerciali saudite per Israele, in cambio della sospensione di nuovi insediamenti nei territori occupati, tentando di coalizzare gli stati arabi sunniti e gli israeliani contro l’Iran sciita, oltre al terrorismo che fa male ad una parte degli affari.

Più che uno statista appare simile al disinibito “commesso viaggiatore” Alberto Sordi in Finché c’è guerra c’è speranza (1974), un commesso viaggiatore che fa l’unica cosa che gli riesce meglio: vendere.

Un commesso viaggiatore che a Riyadh trova a attenderlo non solo il re saudita Salman bin Abdulaz, ma anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi per dar vita ad una delle più inquietanti, quanto esilaranti, foto di gruppo dove i tre poggiano le mani su di una sfera luminescente, in una sorta di seduta spiritica o di delirante intesa per impossessarsi del mondo, mentre migliaia di volti si intravedono nell’oscurità, come testimoni di uno scellerato patto.

Trump vende armi agli arabi per poi sollecitare l’attenzione di Israele sulle sue offerte di fornire altri armamenti più potenti e minacciare, indirettamente, gli iraniani.

Nella campagna elettorale, Trump, propugnava una politica estera non certo propensa all’islam, ma con gli arabi così danarosi è un altro discorso, tanto è vero che progettava anche di strappare l’accordo sul nucleare con l’Iran, ma per ora si limita a monitorarne l’applicazione.

Gli affari sono affari e anche se nel vocabolario dei Paesi del golfo non è contemplato il termine democrazia, sono meglio dell’Iran dove, nonostante i numerosi filtri e ostacoli alle libertà fondamentali, si può andare a votare e scegliere, con moderazione, da chi essere governati.

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Qualcosa di più:

Trump: un elefante nella cristalleria del Mondo
Trump: un uomo per un lavoro sporco
Trump: Quando l’improbabile è prevedibile
Arabia Saudita: Le donne si ribellano al controllo maschile
I Diritti Umani secondo i sauditi
Un anno di r-involuzione araba
Primavere Arabe: il fantasma della libertà
Donne e Primavera araba. Libertà è anche una patente

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Francia: Due presidenti al prezzo di uno

La Grandeur francese trova nuovo significato con Emmanuel Macron, non solo nel aver usato più volte il termine “immenso”, nel suo discorso nella piazza del Louvre, ma nel dare alla première dame un compito che travalica la sola gestione “domestica” dell’Eliseo, per essere qualcosa di più di una consigliera per il 39mo presidente di Francia e dei territori d’oltre mare.

Usare il vocabolo “immenso” per definire il compito che spetta a lui, a sua moglie, e ai francesi nel moralizzare la vita pubblica, garantire la sicurezza e rilanciare l’economia, forse è poco politico ma un pò di poesia non guasta.

Un Presidente con un sogno, avendo i piedi ben piantati a Terra, per un patriottismo che si apre al Mondo, senza paura di dialogare, e non quello sventolato dalla Le Pen di chi si chiude in una cupa solitudine, asserragliandosi per paura e innalzando muri, chiamando l’isolazionismo: difesa del paese.

È possibile che gli operai e i contadini, dalla vita difficile, abbiano votato per Le Pen, mentre i 2/3 hanno preferito Macron, e aggiungendo un 35% di astenuti, si potrebbe dedurre che la Francia è in gran parte benestante, ma in realtà è talmente scontenta che più di un terzo degli aventi diritto al voto ha preferito delegare ed affidarsi all’ottimismo del più giovane dei presidenti.

Il risultato, per ora, è aver smembrato il partito socialista e rafforzato le compagini estreme, apprestandosi a mettere in seria difficoltà, affidando l’incarico al moderato conservatore Edouard Philippe di formare il governo, la destra repubblicana-gollista.

Se a destra la nomina di Edouard Philippe crea scompiglio, a sinistra le femministe la criticano per il suo romanzetto «Dans l’ombre», scritto insieme a Gilles Boyer (2011), per la sua impronta machista. Liberation la definisce la “buona frattura” (de bonne fracture), ma forse la posizione del quotidiano di sinistra pecca di piaggeria, visto che il neo premier ha scritto una serie di articoli sulla campagna presidenziale, definendo Emmanuel Macron un «banchiere tecnocrate» senza carisma.

Sono 22 i membri, tra ministre/i e sottosegretari/e (11 donne e 11

uomini) del governo Macron/Philippe, che spaziano dalla destra alla sinistra passando per il centro, coinvolgendo politici di professione ed esponenti della società civile

Questa volta i francesi non hanno uno, ma ben due presidenti, ma forse potrebbe costare il doppio il nuovo status della première dame nell’Eliseo.

Una Francia dove Macron ha preso le distanze da un’imperante russofilia, guardando alle larghe intese, impegnato a ravvivare l’intesa franco-tedesca, aperto europeista, proteso a rinvigorire l’Unione, ma si, però… il nodo gordiano che dovrà sciogliere sarà rendere l’Europa comprensibile e più vicina alle genti del vecchio continente, per cominciare a scalfire l’euroscetticismo che fa proseliti ormai anche a sinistra.

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