Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

I canti di storie e il loro compendio

Sia Mimmo Cuticchio che Ambrogio Sparagna  non li avevo apprezzati dal vivo fino a quella sera di fine giugno alla Villa di Adriano a Tivoli. Uno spettacolo nel quale l’antica arte della narrazione si amalgamava con una musica popolare dalle mille sonorità mediterranee, quello dedicato ai Quattro Canti di Palermo, intendendo Canti come luoghi fisici (cantoni) trovando in piazza Vigliena, luogo di feste ed esecuzioni capitali, il centro virtuale di Palermo che può fregiarsi nei rispettivi angoli di altrettanti palazzi settecenteschi, come quinte teatrali dalle quali transita un’umanità che interpreta se stessa, dalla classica suddivisione a tre ordini sovrapposti (dorico, ionico e corinzio).

Lo spettacolo unisce il cunto (il raccontare), il canto e la musica per calarsi nel mondo variegato delle tradizioni popolari fatte rivivere attraverso l’eclettica figura di Giuseppe Pitrè, scienziato e studioso, che ha raccolto il più vasto patrimonio di storie, usi e costumi del popolo siciliano.

L’incontro di due singolari personalità come Mimmo Cuticchio e Ambrogio Sparagna, entrambi ambasciatori della cultura popolare nel mondo, permette di assaporare la freschezza e la varietà della lingua siciliana attraverso la narrazione del primo e la musica l’altro, in un intreccio tra la vita di tutti i giorni e il fantastico.

In I Quattro Canti di Palermo Mimmo Cuticchio modula la narrazione con tre tonalità, passando dalla sommessa cantilena trasognata alla narrazione discorsiva, sino a calarsi nelle vicende di paladini e garibaldini con una frammentazione dialettica che utilizza come evidenziatore e “rumorista” degli eventi.

Ad Ambrogio Sparagna, virtuoso dell’organetto, il compito di sottolineare i vari passaggi, grazie anche alle voci di Eleonora Bordonaro e Fabia Salvucci, accompagnate da Cristiano Califano (chitarra), Antonello Di Matteo (clarinetto, zampogna), Diego Micheli (contrabbasso), Erasmo Treglia (ghironda, torototela, ciaramella), Arnaldo Vacca (percussioni) e il suggestivo intervento del Coro Popolare diretto da Anna Rita Colaianni.

Il risultato è uno spettacolo dove la parlata siciliana si mescola alle sonorità rinascimentali della Francia meridionale e a quella della tradizione musicale dell’Italia dei territori, per offrire uno spaccato della storia vista con gli occhi del popolo e non degli eruditi e politici.

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Dalla A alla V l’insofferenza di un Continente

È il Venezuela, quando l’informazione si ricorda della sua esistenza nel mondo latino americano, a oscurare ogni altra notizia del Continente. È l’inconsistenza di una leadership come quella di Maduro a far notizia con il suo annaspare, scatenando la violenza, nel tentativo di rimanere su quella poltrona che fu di Chavez.
È il coinvolgimento della numerosa comunità italiana che permette di superare l’indifferenza attraverso le rare notizie dal Venezuela con le continue violenze e le sue vittime, in un paese sempre più in crisi di libertà e di benessere. Sembra che Maduro abbia sperperato non solo il consenso popolare per il socialismo in chiave chavista, ma soprattutto quello dei profitti petroliferi.

L’inflazione galoppa a oltre il 50%, mentre scarseggiano i generi alimentari e Maduro sventola lo spauracchio di un golpe fascista accusando gli Stati uniti di fomentare le continue manifestazioni che trasformano la capitale, come altri centri urbani, in campi di battaglia, con violenti scontri, morti e feriti.

Un momento difficile per il Venezuela, a un anno dalla morte di Hugo Chavez, attraversato dallo scontento che Maduro fronteggia in modo sconclusionato. L’intransigenza autoritaria riservata alle manifestazioni di piazza, viene alternata a timidi segni di dialogo con l’opposizione politica. Mentre le presunte ingerenze degli Stati uniti gli causano improvvisi eccessi d’ira, sino a dare in escandescenze ascoltando la musica di Arcangel, tanto da limitare le ore di trasmissione a tutto il reggaeton. Un genere di musica messa sotto accusa perché le canzoni sono messaggere di denuncia sociale ed è proprio a suon di rap, Musica para Maduro – Venezuela Resistencia, che Maduro sceglie di rispondere agli Stati uniti.

Nella punta più estrema del Continente Sud America è l’Argentina che sta attraversando la stessa fase di protesta e crisi economica. Una crisi che passa inosservata sui media eppure la presenza italiana a Buenos Aires, come in tutto il paese, non sfigura con quella in Venezuela. Una distrazione dell’informazione italiana, come della politica, che nella presidenta peronista Cristina Fernandez de Kirchner ha trovato un interlocutore più affidabile del chiavista Maduro nello scambio commerciale e sino a quando gli interessi dei numerosi imprenditori italiani non saranno in pericolo si cercherà di glissare sullo sciopero generale dei trasporti che ha paralizzato il Paese lo scorso 10 aprile.

Uno scontento argentino in crescita e non solo per l’inflazione e la disoccupazione, ma anche per il pugno di ferro, ben più credibile di quello venezuelano, con il quale la Kirchner guida il Paese e riesce a minimizzare la protesta.

La disparità tra ricchi e poveri è sempre più evidente nei paesi che vivono una crisi economica, dove i poveri diventano sempre più poveri – trascinando nell’indigenza anche quella fascia fino a quel momento considerata agiata – e i ricchi sempre più ricchi, godendo, pur essendo la minoranza della popolazione, delle più espansive attenzioni dei diversi governanti.

Dal nord al sud del continente latino americano gli indios vengono emarginati e defraudati delle loro terre, anche nella Bolivia di Evo Morales, il primo presidente di origine indio, dove i nativi non vengono trattati con il rispetto dovuto agli esseri viventi. In Ecuador il “socialista” Correa offre ai cinesi parte della foresta amazzonica come riscatto del debito contratto, a discapito delle comunità autoctone.

In Brasile, a ridosso dei tanto glorificati mondiali di calcio, non si attenuano le tensioni alimentate dall’opera di “bonifica” esercitata dalla polizia nelle centinaia di favelas del Paese, solo a Rio de Janeiro sono 16. Dopo l’uccisone di un ventenne ballerino, scambiato per un trafficante di droga, e i conseguenti scontri con le forze dell’ordine, trasformatisi in guerriglia urbana che hanno causato la morte anche di un dodicenne, il clima esasperato non lascia spazio alla gioia di una competizione calcistica organizzata anche per celebrare un governo che dovrebbe essere il paladino del popolo, ma che dimostra solo una grande volontà di modernizzare un “continente” dalle grandi diseguaglianze.

Non sono solo gli scontri e gli scioperi all’ordine del giorno, ma un’impennata di omicidi e di saccheggi per il Brasile dove la stessa polizia sciopera e dove imperversa la “distrazione” di ingenti fondi per le strutture sportive e di accoglienza per la priorità di una migliore qualità di vita. Un investimento che, com’è stato dimostrato in Sudafrica, non porterà benessere ai brasiliani, ma solo ai ricchi.

Un assioma quello che una manifestazione sportiva che impegna tanti soldi non porti un duraturo benessere per la vasta popolazione brasiliana che indios sembrano condividere profondamente con le nuova protesta che hanno inscenato a Brasilia. Non solo lo spreco d’ingenti fondi in un paese grande quanto un continente e con una diseguaglianza imperante è motivo dello scontento dell’indio, ma anche per il poco interesse che i parlamentari stanno dimostrando nel mettere in calendario la discussione del progetto di legge che prevede modifiche alle regole di demarcazione delle loro terre.

Proteste pacifiche e agguerrite che hanno visto gli indio fronteggiare le cariche della polizia, non per nulla fatte a cavallo, con frecce e sassi, il tutto per chiedere terre alla capitale quello che gli è dovuto per nascita. Una posizione energica quella del Governo nello smorzare ogni forma di protesta che è costato al Brasile, tanto per rimanere nell’ambito calcistico, il cartellino giallo di Amnesty International.

Anche l’Argentina ha praticato il “risanamento” forzato di zone elette dagli indigenti come rifugio e dove negli acquitrini galleggiano, per l’alto tasso d’inquinamento, anche i sassi.

In Cile e in Colombia la resistenza delle comunità indigene e campesina è riuscita a bloccare l’approvazione di leggi che proibivano agli agricoltori di conservare e scambiarsi diversi tipi di semi, così obbligandoli a diventare debitori delle multinazionali come la Monsanto, rivendicando il loro ruolo di custodi dei semi per conservare la biodiversità.

La prepotenza perpetrata sulle popolazioni native in Colombia è uno dei tanti impegni di Amnesty International per la difesa dei più deboli, organizzando, insieme agli attivisti del Gruppo 056, un recente incontro romano sulle continue violazioni dei diritti umani.

Una violenza che le comunità indigene della Colombia, contadine e afrodiscendenti, insieme ai difensori dei Diritti Umani, continuano a subire nel conflitto civile del loro Paese.

L’Uruguay ha Josè Mujica, un presidente dalle minime esigenze di sostentamento e dal burrascoso passato di guerrigliero, che devolve circa il 90% del suo stipendio di 12.000 dollari al mese, facendosi bastare 1.500 dollari, per il suo lavoro alla guida del paese, a favore di organizzazioni non governative e a persone bisognose. Il suo mezzo di trasporto non è una lussuosa limousine, ma un Maggiolino degli anni Settanta. Josè Mujica sembra la versione laica di Papa Francesco che apre alle libertà individuali: sostenendo la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento dei matrimoni gay e la legalizzazione della marijuana, per scardinare il monopolio dei narcotrafficanti, evitando la piccola criminalità, e poter controllarne l’uso.

Il Continente Latino Americano cerca di ritrovare un posto nella crescita mondiale fuori dall’ingerenza statunitense, con il rischio di diventare vittima della neo colonizzazione cinese.

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Gli Orti dell’Occidente

Il Nord del Mondo si differenzia dal cosiddetto Sud non solo per il benessere che ostenta, ma anche per il fantasioso approccio che ha nell’usare l’indispensabile come superfluo.

Un esempio è la visione che l’Occidente ha degli orti da realizzare sui balconi, negli spazi condominiali o come intervento artistico, perdendo il vitale presupposto che rende l’orto importante per intere comunità in aree povere della Terra come unica fonte di sussistenza.

È chic, oltre che utile e decorativo, realizzare degli orti sui balconi di Roma come di Milano o New York. A Parigi non sono stati realizzati solo gli orti sui terrazzi, ma anche le facciate d’interi edifici, pubblici e privati, sono stati rivestiti di vegetazione da Patrick Blanc o gli orti “comunitari” nei giardini delle scuole per educare le nuove generazioni ad un differente rapporto con la natura.

Si realizzano video per pubblicizzare gli Orti pensili come il futuro “green” per la città come quello presente sul sito del quotidiano La Stampa per ribadire la facilità con la quale degli spazi verdi possono essere non solo decorativi ma anche utili.

Michelangelo Pistoletto, in occasione del Salone del Mobile di Milano, è intervenuto su di un terrazzo con 750 metri quadrati di orto urbano. L’arte cavalca i tempi, imbrigliando l’idea degli eco sistemi nella moda, mentre l’orto per alcune comunità non è un’occasione di decoro, ma di sopravvivenza.

Con l’Expo 2015 di Milano viene proposto il tema dell’alimentazione “Nutrire il Pianeta Energia per la Vita”, affrontando marginalmente gli stili di vita che gli Orti urbani possono aver contribuito a modificare verso una maggior sensibilità per l’ambiente e come strumento contro la speculazione edilizia, ma presentando, a titolo dimostrativo, la vertical farm tutta italiana realizzata dall’Enea.

Sembra che l’Occidente sia lo sviluppo verticale come logica evoluzione dell’agricoltura integrata nel contesto urbano. Grattacieli vestiti dalle lattughe e decorati con cetrioli e pomodori o impianti industriali convertiti alle coltivazioni idroponiche, con le piante che galleggiano sotto la luce dei Led, sotto il vigile controllo del sistema informatizzato e con “contadini” in candide tute bianche.

L’Amministrazione capitolina patrocina la campagna “Porto l’Orto a Lampedusa”, come ha spiegato il sindaco dell’isola, per la creazione di orti urbani con l’obiettivo non solo di rifondare l’agricoltura, sottraendo il territorio alla cementificazione o a essere adibito a discarica dei rifiuti, ma anche nel tentativo di essere autonomi dal sostentamento del “continente”, oltre ad essere un’opportunità d’integrazione dei numerosi migranti che ogni anno sbarcano a Lampedusa.

Un’agricoltura che non si limita a decorare il panorama urbano, ma soddisfa anche la ricerca di una moda gastronomica e soprattutto contribuisce ad assorbire l’emissione di Co2.

Finalità purtroppo ben lontane dall’essere comprese da quelle popolazioni continuamente in conflitto con la natura per poter strappare alla Terra quello stretto necessario per sopravvivere in habitat ostili come nelle zone sub sahariana e in particolare nel Ciad, dove da anni padre Franco Martellozzo sta portando avanti il progetto degli orti comunitari, iniziato con la realizzazione di pozzi e la messa a dimora di alberi. Trovare l’acqua nel sottosuolo e piantare gli alberi permetteranno un’agricoltura fuori dai condizionamenti delle precipitazioni atmosferiche.

Un lavoro che continua a richiedere non solo pazienza, ma soprattutto caparbietà nello strappare metro dopo metro la terra al deserto, nella regione di Guera.

Sono pochi i metri quadrati coltivati dalle donne associate in gruppi non solo per nutrire le loro famiglie, ma con la speranza di superare la pura agricoltura di sussistenza per avere anche qualcosa da barattare al mercato.

Un’orticoltura che supera l’agricoltura del miglio e dell’arachide, unico sostentamento per oltre l’80% della popolazione, per coltivare ortaggi, come pomodori e insalate, migliorando la dieta con l’arricchimento di vitamine, per poi realizzare vivai per contrastare i processi di desertificazione.

È il Sahara che vuol estendersi da est a ovest ad essere uno dei maggiori ostacoli alla sopravvivenza delle comunità ciadiane, senza dimenticare i conflitti al di là delle frontiere del Ciad in Sudan – Darfour e nella Repubblica Centrafricana, oltre all’instabilità politica in Libia.

Centinaia di pozzi che hanno favorito l’accesso all’acqua e con allestimento dei barrage (piccole dighe) per rallentare il deflusso dell’acqua piovana e favorire la penetrazione nel terreno per alimentare la falda acquifera.

Non solo i pozzi per scongiurare le carestie, ma anche la costituzione delle banche di cereali, gestite direttamente dai villaggi, per avere sempre delle scorte e calmierare i prezzi del miglio e del sorgo.

L’Occidente investe in titoli di stato, in Ciad nel “conto miglio”, grazie all’idea di P. Franco Martellozzo di realizzare le banche dei cereali non solo come baratto tra merci, ma anche per salvaguardare l’unicità delle culture dall’imperante politica di una produzione agricola uniformata alle esigenze delle multinazionali a discapito della sopravvivenza delle piccole comunità. Nella diocesi di Mongo, nel centro del paese, non ci sono istituti di credito che remunerano la liquidità perché il bene più prezioso è il raccolto nei campi, basando l’erogazione di prestiti, quasi esclusivamente in natura, avviando la cultura del lavoro, dell’autosufficienza, dell’impegno contrattuale e della solidarietà. I nuovi animatori si uniranno al già folto gruppo di persone che è deciso a passare da un livello di sopravvivenza incerta e costantemente a rischio verso una sicurezza di vita e un miglioramento della sua qualità.

È interessante come l’Occidente mistificatore rende ordinario ciò che è l’indispensabile per alcune comunità, trasformando un modo di vivere superfluo in impegno per la salvaguardia dell’ambiente. Un’opulenza che si autoassolve e placa il suo senso di colpa per lo spreco alimentare perpetrato sistematicamente (ogni anno in Europa sprecano 89 milioni di tonnellate di cibo), dimostrandosi sensibile agli sforzi di un manipolo di persone con iniziative del tipo Last minute market. Un Occidente incapace di valutare l’importanza di un fazzoletto di terra da coltivare per non morire, o dell’acqua che scorre a perdere dalle fontane e fontanelle delle città europee, mentre in Africa si devono scavare pozzi e raccogliere quella rara pioggia per dissetarsi, senza alcuna misura sanitaria. Il risparmio dell’acqua come degli alimenti, certo non garantirebbe un miglioramento della vita nei luoghi disagiati del Pianeta, ma i fortunati del Pianeta assumerebbero una posizione etica e di rispetto verso gli sventurati.

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Gli Orti dell'Occidente 20140513_164245_1 Gli Orti dell'Occidente giardini_verticali1I giardini verticali di Patrick Blanc il muro vegetale alla conquista della città Fuorisalone:'SuperOrtoPiù', orto urbano sui tetti di Milano PENTAX DIGITAL CAMERA

Una speranza per un’Europa giusta

Con i buoni risultati nelle elezioni amministrative greche di domenica 18 maggio 2014 ottenuti dalla formazione Syriza, guidata da Alexis Tsipras, si aprono nuovi ottimistici panorami per una rappresentanza al parlamento europeo. Nelle imminenti elezioni del 25 maggio, per chi sembra intenzionato a superare demagogie e populismi incardinati su come è bella o come è odiosa questa Europa, ma per portare una visione critica e rifondatrice per un’Europa giusta per tutti e non solo per i politici e i faccendieri, le banche e i grandi complessi industriali.

Alle elezioni europee sarà presente la lista Tsipras anche in Italia con candidati come Barbara Spinelli, Giuliana Sgrena, Moni Ovadia, Sandro Medici, Ermanno Rea e Loredana Lipperini.

Una presenza quella di Alexis Tsipras come candidato presidente alla Commissione Europea con la lista «L’Altra Europa con Tsipras» che offre una nuova visione dell’Europa, non da abbracciare a occhi chiusi o esternando un euroscetticismo che tracima in pure farneticazioni di recupero dei bei tempi delle fluttuanti monete nazionali.

Il greco Alexis Tsipras ha visto cosa ha portato la degenerazione per un’ottusa fede in un’Europa unita nel fare il propri comodi.

Un’Europa con un rappresentante per gli affari esteri impresentabile, senza alcuna autorità per parlare a nome dei paesi dell’Unione europea per un’unica voce in conflitti e calamità, senza andare in ordine sparso. UnEuropa con un’organizzazione per la sicurezza senza avere un esercito, agenzie e milioni di Euro divorati per monitorare la migrazione, lasciando ogni nazione libera di affrontare l’infelicità umana nel modo più repressivo o creativo che ritenga opportuno. Una Banca centrale che vigila sulla moneta unica, senza avere una sola politica finanziaria e fiscale.

Un’Europa più come un albergo che una casa comune, dove ognuno va e viene con si conviene in ogni Grand Hotel, senza ritenere necessario informare gli altri ospiti. Tutti vogliono trarne profitto, ma ognuno cerca di ignorare i momenti di solidarietà e c’è chi non riesce a utilizzare con lungimiranza i fondi europei senza un altro partner o agenzia che lo guidi.

Bella dimostrazione di casa comune, dove c’è chi, nella propria sfortunata ignoranza, vuol rifiutare una politica europea unitaria a costo di farsi del male.

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Squarci di umanità temporale

Può avvenire di non comprendere le intenzioni di un regista con la sua realizzazione e si elude il quesito sentenziando con “è solo un film”, perché farebbe troppo male riconoscere di aver perso del tempo in una scomoda poltrona davanti all’infranta magia cinematografica.

Riflettendo, un film non è solo un film e si può anche essere superficiali, ma un film come un libro o qualsiasi altra attività che si intraprende, non è solo un impegno o un atto di evasione, ma è un’azione che interviene in un diverso modo nella vita di ogni singolo. L’ultimo lavoro di Ferzan Özpetek, Allacciate le cinture, non è un’eccezione.

Al primo impatto appare come uno dei film che vuol indagare nell’animo umano, ma bisogna considerare che la scelta di svolgere un racconto intorno al tema del ricordo delle giovanili passioni che prevaricano ogni differenza – i contrari si attraggono – non può essere sufficiente per catturare l’attenzione del pubblico e si aggiunge anche il drammatico momento della scoperta di un male per mostrare alcune possibili reazioni nell’affrontare quello che potrebbe essere l’ultimo atto di una vita.

Un evento dove c’è sempre chi soffre di più e Özpetek si limita ad arricchirlo con gelosie, tradimenti, discriminazioni e quant’altro si può trovare nel compendio della vita di ciascuno di noi con l’aggiunta di salti temporali e dimensionali, degli improvvisi flash forward, come se la vita si possa rappresentare come un serpente che si morde la coda, e non come una strada da percorrere, con tutte le sue curve e possibili inversioni, protesa in avanti.

Un film di sogni per mostrare la possibile leggerezza della vita, anche nei momenti più tragici, e toccare le corde della commozione con i drammi personali che si trasformano in occasioni di riconciliazione o di una definitiva fuga. Differenti modi di affrontare le prove della vita usati come escamotage per strappare una lacrima, ma ferisce le persone che hanno vissuto un’esperienza così dilaniante anche quando l’ammalato mostra tanta ironia da dare forza alle persone che gli sono vicino.

Un film che, nonostante la bravura degli interpreti, si mostra come un distillato dei buoni sentimenti estratti dal filone modello Ultima neve di primavera o L’incompreso e da quello dei telefoni bianchi.

 

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ALLACCIATE LE CINTURE

Un film di Ferzan Ozpetek

Con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Francesco Scianna, Carolina Crescentini, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni.

 

Commedia

durata 110 min.

Italia, 2013

01 Distribution

 

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