Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Siria: Il miraggio della Pace

Si è conclusa l’indagine svolta dal personale dell’Onu sull’utilizzo di agenti chimici nel conflitto siriano.

In cinque (Ghouta, Khan al Assal, Jobar, Saraqueb e Ashrafieh Sahnaya) dei sette casi presi in considerazione è stato confermato l’uso di gas non solo contro persone armate, ma facendo soprattutto vittime tra donne e bambini.

Si tratta di attacchi avvenuti tra marzo e agosto scorso, ma il rapporto non stabilisce alcuna responsabilità, compito escluso dal mandato degli ispettori guidati dallo svedese Ake Sellstrom.

Dopo essere stato accertato l’uso di armi chimiche con missili e bombe, l’Opac (OPCW), l’Organizzazione dedita allo smantellamento delle armi chimiche alla quale è assegnato il Nobel per la Pace 2013, che ha provveduto a rendere inutilizzabili le strutture di fabbricazione e di stoccaggio, ora prosegue con lo smaltimento dell’arsenale.

Un impegno quello della distruzione dalle armi chimiche che affianco all’impegno dell’Opac ci saranno l’Unione europea e gli Stati uniti, con il trasferimento dei contenitori ad un porto italiano, probabilmente in Sicilia o in Sardegna, per poi essere allocati in una nave statunitense destinata all’affondamento con tutto il carico.

Le armi chimiche stanno per essere neutralizzate, così l’Opac può guadagnarsi il Nobel per la Pace conferitogli quest’anno, ma le armi convenzionali continuano a mietere vittime al ritmo di un centinaio al giorno, come anche il freddo e la fame rendono la vita drammatica in questo inverno particolarmente rigido in tutta l’area mediorientale.

Sembra che non ci sia altra soluzione economica e pratica oltre che rapida per allontanare dal teatro di guerra degli strumenti di sterminio di massa e dare un’illusione di pacificazione, ma i bombardamenti proseguono e le auto bomba si perfezionano.

A queste notizie i media dedicano poco spazio, come dimostra il prestigioso quotidiano La Repubblica del 13 dicembre con tre pagine scarse di fatti internazionali su 63 pagine più trenta di cronaca romana. In rapporto alle pagine è il quotidiano Avvenire ad avere maggiore attenzione alla situazione internazionale, quattro pagine su trentatre, nulla a confronto con le cinque pagine su venti dell’edizione che Le Monde invia all’estero.

La situazione non si modifica di molto con l’attenzione che i Tg mostrano alla situazione maliana, con le recenti elezioni o le violenze nella Repubblica centro africana tra cristiani e musulmani per il possesso delle ricchezze di uno dei più poveri paesi dell’Africa.

Altrettanto disinteresse hanno dimostrato i media ai primi scontri nel Sud Sudan, la più giovane nazione, offrendo timide notizie solo quando il tentativo di golpe si è trasformato in guerra civile tra i due principali gruppi tribali per il controllo della ricchezza petrolifera.

Dalle priorità informative sono scomparse le situazioni libiche ed egiziane, in assenza di eclatanti attentati, ma in compenso l’omaggio a Mandela ha occupato molti giornalisti nel raccontarlo, con il solleticante fuori programma del “selfie” di Obama, Cameron e Schmidt, oscurando l’avanzata populista anti Euro.

Non si può gareggiare contro il morboso interesse dei media sulle condizioni di un ricco e famoso per porre all’attenzione dell’opinione pubblica della miserabile situazione di un’umanità “stracciona” o di 24 famiglie bloccate dalla burocrazia, in attesa di adottare di bambini orfani, e dalla incerta situazione politica nella Repubblica democratica del Congo.

Un altro “Mandela”, l’avvocato Riad Turk, è in prigione da venticinque anni come oppositore al regime siriano, ma dopo il rilascio di Domenico Quirico, amareggiato giornalista del La Stampa, sembra che sia caduto un velo sulla Siria e sul sequestro di padre Dell’Olio che sino ad ottobre risultava trattato “bene” dai suoi rapitori.

A Ginevra 2, di rinvio in rinvio di appuntamenti confermati e poi disdetti, siamo arrivati all’appuntamento del 22 gennaio 2014 per dissipare almeno in parte la nebbia che avvolge la tragedia siriana.

Poche certezze sulla presenza di tutti i protagonisti, laicisti e islamismi, seduti a un tavolo per riflettere sul futuro della Siria nella città svizzera che ha visto un accordo in “prova” per il nucleare iraniano, presenze di cui poco si sa come ospiti ginevrini.

Il Libero esercito siriano ritorna a recalcitrare per partecipare al summit. Il generale Selim Idriss, nel quale gli Stati uniti avevano riposto una misurata speranza come leader, è fuggito nel Qatar, mentre il fronte islamico si rinforza.

Complica la situazione la situazione meteorologica che ritarda il trasferimento delle armi chimiche e il consolida l’intesa tra la Russia e la Siria dopo la scoperta di giacimenti di idrocarburi allargo delle coste siriane.

Per la Siria si è intrapresa la campagna Free Press for Syria per garantire un’informazione libera per la Siria, ma si può avere qualche notizia sfogliando anche il web di SiriaLibano.

Le armi chimiche siriane saranno inghiottite dal Mediterraneo, come molta umanità in cerca di Pace, ma quali le future conseguenze?

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02 OlO Siria Onu Indagini terminate utilizzo agenti chimici Opac

Parigi: Lo spettacolo dell’Architettura

La definizione urbana della città è dovuta in gran parte dalla continuità del segno architettonico e questo si può riscontrare a Parigi come a Londra. In entrambe le metropoli i nuovi edifici riescono ad integrarsi facilmente con quelli preesistenti anche quando appaiono come ardite realizzazioni di architetti visionari, ma quando si interviene in una zona marginale e magari degradata della città si crea un simbolo che va oltre al singolo edificio. È come edificare una micro Brasilia, con la differenza che non si interviene dal nulla, ma si utilizzano i solchi esistenti e si recuperano alcuni edifici, anche per una utile memoria storica del luogo.

È sotto Napoleone III che Parigi cambia volto con l’apertura dei boulevard ideati dal barone Georges-Eugene Haussman, ossessionato dalla linea retta. Un’ossessione definita “il culto dell’asse” che ha trasformato la città sino a quel momento, tranne qualche precedente timido intervento urbanistico, rimasta medioevale con strade strette e malsane.

Un sovvertimento urbanistico non solo in funzione igienica, come Napoleone III aveva potuto apprezzare visitando Londra, ma anche anti insurrezionale, allargando le vie per osteggiare la eventuale realizzazione delle barricate oltre a liberare il centro dalla popolazione sempre pronta alla rivolta, preparando Parigi alla grandeur moderna. Un intervento che coinvolse più della metà di Parigi e sviluppando non solo un’architettura eclettica, ma modificando la rendita immobiliare in finanziaria, facendo lievitare i prezzi degli alloggi, una crescita che si è protratta sino ai nostri giorni, permettendo di coprire parte dei costi di urbanizzazione per la rete idrica e il sistema fognario, oltre a dare aria e realizzare giardini (square).

Haussman si fece prendere la mano e oltre a sventrare il centro incluse nell’amministrazione parigina anche i villaggi di Vaugirard, Grenelle, la Villette, Belleville, Auteuil, Passy, les Batignolles, Monceau, Montmartre, la Chapelle, Saint-Denis, Charonne e Bercy, noti come stazioni del Metro, riproducendo lo schema di assi e raggiere all’infinito.

D’altronde Parigi vive dell’architettura, in gran parte ottocentesca e novecentesca, che le diverse Esposizioni universali, da quella del 1878 con il Trocadéro a quella del 1889 caratterizzata dalla Torre Eiffel, hanno lasciato segni tangibili nel tessuto urbano.

Un tessuto caratterizzato da linee rette di collegamento tra i vari luoghi, come quella che dal Trocadero si prolunga oltre la Senna sino all’Ecole Militare, passando per la Torre Eiffe e il Parc du Champ de Mars con la Porta per la Pace.

Tra gli anni ’60 e ’70, dopo l’esplosione dell’Art Nouveau come nei quartieri di Passy-Auteuil e Chaillot, ad ovest di Parigi si gettano le basi della La Défense, territorio utilizzato a suo tempo dai difensori della città nella guerra franco-prussiana, che solo negli anni ’90 comincia ad essere non solo il più grande centro direzionale di tutta Europa, ma anche una meta turistica. Un’urbanizzazione che ha sostituito fabbriche e fattorie con grattacieli e ampi spazi lastricati, trovando nel Grand Archeil simbolo del luogo e l’ideale propaggine di Parigi con l’Arco di Trionfo che si intravede lungo l’axe historique.

La Défense nasce come un grande centro finanziario e, nello spirito francese della grandeur, ospita il Quatre Temps (Quattro Tempi), uno dei più grandi centri commerciali d’Europa, oltre a qualche complesso residenziale e alla sede del Ministero dell’Ambiente in un trionfo di vetro e cemento.

Un insieme di edifici dalle architetture ardite diventati un’attrazione turistica, ciò che non è ancora avvenuto all’area risanata di Canary Wharf (Isle of Dogs), trasformando, a partire dagli anni ’80, i vecchi dock londinesi davanti a Greenwich in quartiere residenziale e per la finanza come continuazione della City.

Per l’edificazione di entrambi i quartieri sono stati allontanati i meno abbienti per diventare l’espressione della ricchezza e un autentico parco giochi per architetti.

Canary Wharf potrebbe far concorrenza a La Défense come attrattiva turistica e non solo come centro della finanza. I parigini sono stati capaci di trasformare una lottizzazione in museo del contemporaneo all’aperto, forse perché a Parigi l’edificazione prosegue, avendo altro spazio per estendersi, come solitamente avviene con ogni centro direzionale. Uno sviluppo che si addentra nella campagna e nei boschi, in direzione di Nanterre, come si è prolungata la linea 1 del Metro che si fermava a Pont de Neuilly e ora arriva nei sotterranei della La Défense.

Oltre alla linea 1, tutta automatica come la 14 che passa per la Biblioteca Nazionale, La Défense è collegata al resto del Mondo anche con il tram T2 per Issy-les-Moulineaux e la linea A della RER, emarginando il traffico automobilistico sotto e ai lati del quartiere, con l’avveniristico tunnel La Défense – Nanterre.

Sia La Défense che Canary Wharf sembrano ispirare un distretto futuristico degli affari, Stephenson Business District dalla via principale nell’area nord, con una selva di grattacieli, come proseguimento degli interventi per l’Expo 2015 a Milano. Un progetto che coinvolge i confinanti navigli per diventare una delle principali attrattive turistico-culturali dell’Expo 2015 milanese, ma è difficile immaginare che non rimanga incompiuto.

Parigi può contendere il titolo di capitale dell’architettura a Berlino e a Rotterdam, appellativo che Roma e Milano sembra non ambiscano. Per l’esuberanza architettonica La Défense non è il solo esempio, sicuramente il meno rappresentativo, come modello d’integrazione tra nuovo ed esistente. I cantieri si susseguono e non sembra di trovarsi in un periodo di crisi, se non fosse per i senza fissa dimora che stazionano dove possono. Finito un cantiere si apre un altro, così ecco le irrequiete Les Halles, nate dallo smantellamento dei vecchi mercati alla fine degli anni ‘70, che vengono rimesse in discussione nel loro consolidato ordine per realizzare un nuovo giardino al posto del piazzale inclinato davanti Saint Eustache (sant’Eustachio), con nuovi edifici e accessi sotterranei.

A sud-est de La Défense, nel 13esimo Arrondissement, svettano dagli anni ‘90 le quattro torri della biblioteca François Mitterrand, con la passerella pedonale Simon de Beauvoir, dall’andamento sinuoso ondeggiare, si raggiunge il parco di Bercy con il Palazzetto dello sport e la “scombinata” architettura della Cineteca Francese, un edificio nato nel 1996 come l’American Center per mano di Frank O. Gehry ma solo nel 2005, dopo nove anni d’inattività, è diventato il monumento alla cinematografia.

Bercy è tutta da scoprire dopo, la riqualificazione degli anni ’70 della parte est, con il differente utilizzo degli edifici di stoccaggio vini e delle botteghe artigiane di fine ‘800.

(4 continua)

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 Dello stesso argomento:

 Parigi: I contrasti di una città

 Parigi: La frenesia delle luci

 Roma Parigi: Andata e Ritorno

 I grattacieli davanti Greenwich

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Balcani: La dissoluzione di una federazione

Sono bastati una decina d’anni per dissolvere la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia che per una trentina d’anni Tito, con pugno di ferro e una politica sociale, era riuscito a tenere unità nella sua differenza culturale e religiosa, ma con la sua morte, nel 1980, hanno prevalso le diffidenze che si sono trasformate presto in acredine e poi con l’astio che raggiunge l’odio.

Tanti figli adottivi che vedono, con la morte del loro “padre” Tito, finire uno stato che garantiva a tutti un’istruzione e uno stato sociale. La paura di perdere delle garanzie che vennero poi amplificate dalla guerra intestina per la successione, trasformandosi in affermazioni personali con l’inneggiare alla separazione da Belgrado.

Fù un paternalistico ferreo pugno del socialismo “reale” ad aver tenuto coesi differenti popoli per la religione e la cultura di riferimento che componevano il mosaico jugoslavo di allora ed ora, a più di vent’anni dalle Guerre Balcaniche, potrebbe essere il Capitalismo ha mettere in secondo piano i privati convincimenti per poter ampliare le prospettive lavorative.

L’astio per un’identità persa con la scomparsa della Jugoslavia ha portato a confondere la religione professata con un’etnia di appartenenza essendo in gran parte legati al ceppo slavo.

Niente più istruzione garantita, lo stato sociale dissolto, la pensione inconsistente, il lavoro di prestigio sempre pertinenza del gruppo sociale dominante nell’area.

È difficile pensare che il Maresciallo Tito potesse immaginare che la sua scomparsa innescasse una reazione a catena, popolazioni invogliate lasciare le loro case per rendere “culturalmente” omogenee le città e le campagne, per evitare una presenza a macchia di leopardo in zone croate, bosniache e kosovare.

La Slovenia si è tenuta lontana dai conflitti, la Serbia ha subito i bombardamenti della Nato, la Macedonia è in cerca di un futuro e il Montenegro cerca di uscire una reputazione di stato malavitoso al pari del Kosovo per il contrabbando e il traffico di stupefacenti, armi e quant’altro.

Un conflitto di stragi e distruzioni culturali, di eccidi e fosse comuni, di monasteri ortodossi, chiese cattoliche e mosche fatte saltare come il ponte di Mostar o l’annientamento della Biblioteca nazionale di Sarajevo che solo nel 2014 si potrà scoprire, con il completamento del recupero, a cosa sarà destinato l’edificio austro moresco che ha perso milioni di libri.

È la nostalgia di quell’epoca dove lo Stato pensava a tutto, anche alla Libertà, e l’invenzione della Jugoslavia  come uno stato federale che appariva come una unica comunità, che a Lubiana si propone una mostra, visitabile sino al 28 febbraio 2014, Tito: il volto della Jugoslavia , con oggetti provenienti dal Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado. Una storia che nel Terzo millennio si mostra in equilibrio tra marchio commerciale o icona politica nel rileggere la figura di Tito.

Una memoria che non resta affidata solo alle testimonianze esposte nella mostra o custodite al Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado, ma anche per le strade di Sarajevo con il Bar Mi smo Titovi Tito je nas (Noi siamo Tito, Tito è noi). Il bar, vicino al Museo storico di Sarajevo, rappresenta un Memoriale e un monito con le numerose immagini e busti dedicati a Tito che arredano l’interno, mentre all’esterno armamentari bellici fanno scenografia ai tavolini degli avventori e su tutto regnano le varie tonalità di rosso.

Sarajevo è sicuramente il simbolo della città martire, con l’assedio subito per 43 mesi e il viale dei cecchini, come Sebrenica lo è per uno degli eccidi dei Balcani.

Dalle macerie di una Bosnia, governata da una forma di triunvirato, la speranza di una ritrovata unità d’intenti, superando momentaneamente ogni divisione religiosa germoglia dalla favola dell’ottenuta la qualificazione ai Mondiale di Calcio 2014 in Brasile.

Un’unità d’intenti che la squadra ha dimostrato di poter perseguire, superamento le diffidenze religiose, sperando nell’archiviazione dei treni come quello che collega Sarajevo a Belgrado, con i suoi tre comparti per la separazione confessionale, nonostante sia fondamentalmente lo stesso Dio.

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Iran: Sei mesi di speranze

Al tavolo delle trattative sul nucleare iraniano l’Europa non si presenta come un’unica entità, ma come accade sempre più spesso in questo suo ordine sparso nella geopolitica. L’Unione europea, forse per la debolezza rappresentativa del responsabile della politica estera, è presente con la Gran Bretagna, la Francia per affiancare gli Stati uniti, la Cina e la Russia, Paesi che hanno diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e sono riusciti, con la formula del “cinque + uno”, a far imbucare anche la Germania, in un ruolo subalterno.

È una delle innumerevoli dimostrazioni non solo della debolezza europea, ma soprattutto di una mancanza di una politica estera comune che Catherine Ashton, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, cerca di sopperire intrufolandosi ad osservare o indire conferenze stampa con il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif.

Anche se più di una volta sono apparsi segnali ottimistici che hanno fatto pensare ad un imminente positiva conclusione, sono state altrettante le volte che hanno generato delusione.

È talmente poco considerata la Catherine Ashton che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius gli ha sottratto la scena con una conferenza stampa che pone delle riflessioni sulla volontà di voler conseguire un accordo condiviso.

I paesi dell’Occidente, e tra questi in prima fila si trova l’Italia, dimostrano tutta la loro impazienza a riallacciare, alla luce del sole, i rapporti commerciali con Iran. Fremono e non vorrebbero aspettare che si concludano le trattative sul nucleare e la conseguente attenuazione delle sanzioni economiche.

Le speranze riposte nei 5 + 1, con la presenza notarile dell’Unione europea, per trovare il giusto compromesso tra le paure che un nucleare civile si trasformi in bellico e le ambizioni per uno sviluppo industriale di un Iran ricco d’idrocarburi appaiono ben riposte con la firma a Ginevra nella notte del 23 novembre tra le parti.

Con l’attenuarsi delle minacce reciproche e l’apertura alla diplomazia ha permesso, con molte diffidenze, dare un’opportunità alla civile convivenza con la messa in prova di sei mesi.

02 OlO Europa Davanti al nucleare iraniano raggiunto primo accordo

Egitto: acrobazie controrivoluzionarie

In Egitto, dopo tre mesi, la Corte dichiara concluso lo stato d’emergenza, ma rimangono i sospetti e le paure nel poter manifestare le proprie idee. Le ansie e i timori nel gridare il proprio scontento che erano scemati sono ricomparsi, portando a pensare che in Egitto non sia cambiato nulla dopo migliaia di vittime della Rivoluzione.

La gente di piazza Tharir rientra nelle loro abitazioni e gli intellettuali tornano a sfoggiare prudenza nell’esprimere le proprio opinioni sul clima politico che sta scendendo sul paese.

In Italia vi era un’epoca, non troppo lontana, che sui giornali si leggeva di una Crisi guidata. Ora in Egitto si è varata la Rivoluzione guidata verso una Restaurazione e il popolo di Tharir si accorge di essere stato strumentalizzato dai militari.

Non rientra nell’ambito dei racconti di fantapolitica ipotizzare il ritorno dell’ancien regime. nell’attesa che si concretizzi un Egitto da nuova “repubblica”. Mubarak, dai suoi dorati arresti domiciliari nella residenza di Shark el Shiekh, potrebbe pensare a quanto impegno è occorso, in una versione araba del Gattopardo con il suo “tutto cambia affinché nulla cambi”ai suoi fidati militari per un giro a 360°.

Egiziani pedine di un gioco delle parti, con i militari buoni e quelli cattivi impegnati a recitare un ruolo per conservare la loro influenza sull’Egitto, mentre un’assemblea costituente di 50 membri, in stragrande maggioranza d’ispirazione laica, si appresta a varare una Costituzione, in sostituzione di quella approvata dall’esecutivo del deposto presidente Morsi, senza riferimenti alla sharia e alla legge islamica.

Un sistema politico in stile francese, dove è contemplato un bilanciamento nell’attribuzione dei poteri del presidente e quelli del primo ministro e una condivisione di responsabilità nel dichiarare futuri stati d’emergenza.

Una Costituzione che vorrebbe dare una dignità al ruolo femminile, anche se l’Egitto rimane un paese difficile rispetto ai diritti delle donne, come risulta dalle interviste che Thomson Reuters Foundation ha realizzato grazie alla collaborazione di centinaia di esperti nei 21 membri della Lega Araba più la Siria (sospesa dall’organizzazione nel 2011).

Un sondaggio che evidenzia come l’Egitto detiene il primato tra i paesi del mondo arabo in cui è difficile vivere per una donna, al secondo posto l’Iraq, mentre le Isole Comore, piccolo arcipelago nell’Oceano Indiano, è il migliore tra i membri della Lega Araba, anche senza libertà di espressione, non discrimina le donne in caso di divorzio, in politica (il 20% dei ministri) né sul posto di lavoro (il 35%), probabilmente grazie all’eredità francese, ma come ogni sondaggio deve essere interpretato.

L’Egitto è un paese dove le donne rischiano quotidianamente la sopraffazione fisica, anche se l’attuale governo proclama di voler ristabilire i diritti messi in discussione dalle scelte islamiste del precedente esecutivo.

Diritti che il Arabia saudita non sono neanche presi in considerazione e dove la Tunisia li sta mettendo in discussione. Non è solo l’Egitto ad essere un paese negato alle donne, è solo tra quelli più insicuri.

Se in Arabia saudita è negato alla donne di guidare, in Egitto la 22enne Ghadeer Ahmed ha lanciato su Facebook la campagna Andremo in bicicletta, nell’ambito del progetto Girls Revolution, per sconfiggere il tabù che considera inappropriato e “poco signorile” l’uso della bicicletta da parte delle donne.

Un Egitto che da una parte pensa ai diritti delle donne e dall’altra non intende rinunciare a un ferreo controllo sull’informazione.

Cambiano i volti del potere egiziano, ma i metodi per controllare e mettere a tacere il dissenso non muta. In certi casi si preferisce alla carcerazione l’emarginazione come è accaduto a Bassem Yussef con la sospensione della sua trasmissione satirica.

Una trasmissione che mise alla berlina il passato governo Morsi e si apprestava a fare lo stesso con l’attuale governo militare, anche se, come ha scritto lui stesso nella sua rubrica sul giornale arabo Al-Shorouk, «le cose ora sono molto più difficili».

Ironizzare sul generale Abdel Fattah al-Sisi, avendo provocato le proteste di molti ascoltatori, al trentottenne Youssef, con una formazione da cardiochirurgo, gli è costato il posto.

Era più semplice deridere Morsi e i Fratelli Musulmani, con la loro incapacità di governare invece dei militari che hanno “ristabilito” un equilibrio laico all’Egitto.

Un populismo religioso è stato sostituito con uno laico, ma chi critica le scelte e i volti del potere lo deve fare in silenzio e soprattutto con poco seguito, mentre Youssef, anche lui populista, rappresenta un modello da seguire.

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