Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Dove la politica è sotto confisca

L’Islam non è solo islamista, ma è un composito universo di religiosità e laicità, con una componente araba che è solo una parte di questo mondo. Sunniti e sciiti, wahabiti e alawiti, salafiti e drusi, socialisti e liberali, nasseriani e baatisti, marxisti e monarchici.

Tante anime che stanno trasformando l’ostilità in conflitto permanente non solo tra chi vuole imporre la componente religiosa come riferimento per le leggi e i comportamenti di intere popolazioni e chi vuol tenere separati gli aspetti della fede a quelli dell’amministrazione pubblica, ma anche all’interno dei singoli ambiti.

Un conflitto che sempre più sta trasformandosi in sistematica violenza degli uni contro gli altri in Egitto e che la Tunisia si appresta ad intraprendere la stessa strada. In Libia si susseguono attentati.

Il Marocco vive una crisi di governo con il passaggio all’opposizione del partito Istiqlal, la componente conservatrice della coalizione governativa che chiude con l’esperienza a guida islamista per l’inadeguatezza del partito islamico di Giustizia e Sviluppo nell’affrontare i problemi economici del paese.

Il presidente Abdelaziz Bouteflika, con la sua gestione autoritaria del potere, non ha ancora permesso che in Algeria si esprima rumorosa la contrarietà per uno stato d’impoverimento dei Diritti, vigilando sullo scontento giovanile e soprattutto su quello islamista.

Il periodo del Ramadam è il tempo della purificazione fisica e dalle tentazioni carnali, ma soprattutto un’occasione di riflessione e mai come in quest’anno giunge in un momento drammatico per il mondo arabo.

I contrasti nell’universo islamico non sono solo tra religiosità e laicismo, ma si addentrano nei diversi riferimenti storici delle varie comunità. Correligiosi che non riescono ad andare d’accordo, dilaniandosi in rivalità che nel panorama geopolitico si muovono con grande senso pragmatico verso i diversi schieramenti. Non tutti gli osservanti o ortodossi e fondamentalisti si trovano dalla stessa parte. Piuttosto si dislocano come in Occidente: secondo i momentanei interessi gli avversari non sono sempre rivali, ma possono essere alleati.

Questo Ramadam possa essere l’occasione per comprendere la divisione tra sciiti e sunniti che da secoli travaglia l’Islam, non nelle dimensioni che conobbe l’Europa del ‘600 tra cristiani, ma che continua a causare quotidianamente vittime in Pakistan come in Iraq, in Siria e nell’ambito delle rivolte arabe del nord Africa e con le ribellioni tentate nei paesi del Golfo.

Uno stillicidio tra sciiti e sunniti, i primi sono minoranza in gran parte dell’Islam, generato da una differente lettura dell’eredità di Maometto. I sunniti riconoscono ad Abu Bakr, amico e padre della moglie di Maometto, l’eredità religiosa e politica, mentre per gli sciita la successione doveva essere riconosciuta ad un consanguineo del profeta come il cugino e genero Ali.

In un Medio oriente dove si muovono in schieramenti sparsi islamisti sciiti come gli Hezbollah impegnati a difendere la laicità siriana impersonata da Assad, mentre i sunniti vorrebbero liberarsi dalle leadership corrotte.

Nel Mali i laici Tuareg hanno pensato di allearsi con gli integralisti della sharia per realizzare il loro sogno d’indipendenza, per poi trovarsi estromessi dalle città conquistate sino all’arrivo delle truppe maliane fiancheggiate dai francesi.

Nell’Iraq di Hussain era la minoranza sunnita del paese a governare sulla maggioranza sciita, come le case regnanti di alcuni paesi del Golfo bloccano ogni rivalsa degli sciiti, mentre finanziano le primavere in altri paesi arabi.

In questa complessa rimescolanza di posizioni il punto fermo, il discrimine, è individuabile nella rabbiosa avversità di alcune fazioni verso la cultura e le adolescenti come Malala che sfidano quotidianamente i Talebani per garantire il diritto allo studio. Quella di Malala è una sfida ribadita anche davanti all’assemblea dell’Onu. Nel Mondo i 2/3 degli analfabeti sono donne e la cultura resta l’unico strumento per superare ogni incomprensione tra i popoli e sconfiggere ogni forma di terrorismo.

Alcune fazioni sciite si trovano in sintonia con quelle sunnite solo nell’emarginare le donne dalla società, ponendole in un continuo stato di controllo, sino ad arrivare ad un vero e proprio abuso psicologico e fisico.

Appare difficile solo pensare che possa esserci un futuro dove i popoli possono vivere in pace, quando le genti con le stesse radici culturali hanno difficoltà nell’andare d’accordo, sino ad arrivare ad essere rivali, pronti a fronteggiarsi a colpi di business o di auto bomba.

Quando il massacro siriano avrà fine, perché prima o poi anche questa mattanza concluderà, nessuno avrà vinto. Ognuno avrà perso qualcuno e qualcosa, tanto vale terminare gli omicidi al più presto, senza attendere che l’Occidente ponga fine allo smisurato guadagno dei trafficanti d’armi. Entrambe le parti hanno potuto collaudare vari armamenti e fatto esplodere auto bombe. Non è una cifra più che rispettabile l’elenco di 100mila vittime o non è questa la quota di morti che si era prognosticata?

A quale numero si vuol arrivare per ritenersi soddisfatti di aver perso il proprio vicino? Un numero pari al confitto Iraq-Iran o quello della guerra dei Balcani è già sufficiente? Magari le vittime causate dallo sradicamento dei gruppi armati islamici in Algeria può essere costo di vite accettabile.

I musulmani, metaforicamente scrivendo, sono rimasti perplessi per il messaggio augurale tweettato del presidente Barack Obama per il Ramadam. Una confusione che ha trovato in Twitter il canale di sfogo per il disaggio di un messaggio augurale pervenuto dal presidente degli Stati uniti impegnato nell’utilizzo dei droni per attacchi mirati, colpendo non solo i terroristi, ma causando anche vittime tra i musulmani innocenti. Oltre al regime di carcerazione al quale i detenuti sospettati di terrorismo vengono sottoposti nel carcere extraterritoriale di Guantanamo.

Un’irritazione ben focalizzata dal tweeter che paragona, con i dovuti distinguo di eccesso, gli auguri di Obama a quelli che Hitler avrebbe potuto inviare agli ebrei per un felice Hanukkah con Auschwitz in attività.

I conflitti potranno dare un successivo stimolo all’economia o magari facilitare la realizzazione di progetti urbanistici, ma perché non vanno a giocare alla guerra nel bel mezzo di un deserto, senza coinvolgere l’infanzia e le loro madri?

È possibile che il dono della parola possa servire ad elargire sproloqui e non a comunicare con il prossimo per capire che nonostante le differenze culturali apparteniamo alla stessa umanità.

Il costante conflitto che il Mondo islamico sta vivendo è la prevaricazione di un essere su di un altro, ma l’Occidente è maggiormente interessato a mettere in sicurezza le forniture d’idrocarburi, come dimostra l’energico intervento in Libia e la flemma con la quale l’Italia si sta impegnando ad espletare l’incarico che la Ue e gli Stati uniti gli hanno affidato nell’organizzare a Roma una conferenza di pacificazione tra le diverse componenti, potrà dimostrarsi tardiva con il susseguirsi di attentati e scontri tra opposte fazioni.

07 OlO Altri di Noi Riflessione islamica Malala adolescente all'Onu per il diritto allo studio malala-yousafzai-Qualcosa di più:

L’Egitto si è rotto

Egitto: laicità islamica

Nuovi equilibri per tutelare la democrazia in Egitto

Egitto: democrazia sotto tutela

Estive cautele d’Occidente

Una Primavera di libertà congelata dall’inverno

Turchia: Autocrazia Ottomana

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 07 OlO Altri di Noi Riflessione islamica Malala adolescente all'Onu per il diritto allo studio

L’Egitto sull’orlo dell’irreparabile

Nessuno in Egitto sembra intenzionato alla riconciliazione, anzi sono in molti a soffiare sulla brace perché possa divampare un devastante incendio sull’esempio siriano.

L’Esercito come i Fratelli musulmani si sono accodati e insinuati nello scontento popolare che portò alla destituzione di Mubārak, strumentalizzandolo per fine opposti. I Generali per mantenere il potere con tutti gli optional, mentre la Fratellanza per collocare l’Egitto nell’alleanza islamica.

I militari continuano a detenere dietro le quinte il potere, mentre i Fratelli si sono impegnati a piegare la democrazia ai loro piani islamistici mentre l’inettitudine di Morsi è riuscita ad aggravare la crisi economica nella quale versa l’Egitto degli ultimi anni di Mubarak.

Un anno di governo islamico ha evidenziato tutta la debolezza di una vittoria elettorale ottenuta con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare.

Un Morsi divenuto presidente grazie ad un’astensione trionfante per uno schieramento laico e liberale diviso.

Una rivoluzione che, se mai si può così definire, due anni fa si mosse dai giovani da piazza Tharir per coinvolgere ogni strato sociale scontento della mancanza di pane e di benzina, ma da allora nulla è cambiato se non l’incarcerazione di una famiglia per essere sostituita da un’altra. Un nepotismo islamico che è riuscito ad aggravare la crisi con le tasse su vari generi compresi gli alcolici.

I giovani manifestano a piazza Tharir e malvolentieri l’Esercito si schiera al loro fianco, l’Islam esce vincitore dalle elezioni per dimostrare tutta l’inettitudine politica e tutta l’ambiguità democratica di Morsi nel soddisfare le richieste dei suoi Fratelli. È nuovamente da piazza Tharir che sale lo scontento per un islamismo poco moderato e i giovani manifestanti di 21 Aprile hanno trovato nel movimento Tamarod la forza di ribellarsi ed ora è ancora una volta l’Esercito ad intervenire come salvatore.

I Militari si dimostrano alleati della piazza laica, lasciando alla polizia il lavoro sporco di sparare sui manifestanti islamici, sollecitando lo scontro tra i pro e gli anti Morsi, ma tenendo pronti i blindati nelle strade e gli elicotteri nel cielo.

Non sono solo degli osservatori e garanti della volontà popolare, i Militari operano anche dietro le quinte, strumentalizzano lo scontento e le nefandezze degli squadroni paramilitari per poi arrivare, dopo centinaia di morti, come i pacificatori in armi.

La “rivoluzione” rimane incompiuta, rischiando di trovarsi tradita per tornare ad un ancien regime.

La Primavera parte seconda è ormai alla quarta fase e si sta addentrando nel buio più profondo di una notte modello siriano. Una riconciliazione resta impossibile dalla crescente ira, come presagio per un conflitto in tutto il nord Africa tra islamismo e laicismo.

La sperimentazione di ogni di alleanze variabili sembra giunta a termine, rimangono i Militari nel ruolo di ago della bilancia.

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza in una rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrovata unità, è la Primavera parte seconda.

È stata la politica di Morsi ha trasformare i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica, come tende a giustificare il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, autore del giallo Polvere di diamante (Marsilio).

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

06 OlO Egitto sull'orlo del burrone Dessin de Haddad, Liban 16-06-Egypte-dossier-illustr-normale-HADDAD_2012-02-13-3962Qualcosa di più:

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La stitichezza informativa

Il caso del ragazzotto americano Edward Snwoden stanco di essere un oscuro analista in forze ai servizi di sicurezza statunitensi per essere sotto i fari della notorietà è una dimostrazione di quanto il giornalismo italiano è interessato a queste rivelazioni solo perché l’Italia si trova coinvolta ancora non ben chiaro se come vittima o collaboratrice, piuttosto di scoprire un Mondo che non si limita al proprio condominio.

Con il cosiddetto Datagate sembra che politici e giornalisti non abbiano mai letto una spy story o visto un film di romanzate storie di spionaggio, ma è la storia di questa società spiare il vicino per la propria sicurezza o profitto. Perché tanta indignazione per il fatto che una nazione vuol sapere di più su di un’altra? Non sono degli amici che sanno ascoltare, ma degli alleati sospettosi e Edward Snwoden non rivela niente di nuovo, l’unico imbarazzo che ha sollevato è divulgare quello che “si fa ma non si dice”, mentre in Africa come nel Medio oriente sono in atto del crisi umanitarie ben più gravi del carpire qualche informazione su quel dato paese e quali sono i suoi partner economici di riferimento.

Gli Stati uniti hanno spiato i suoi alleati e i suoi alleati non sono stati sempre affidabili nel condividere informazioni o hanno occultato accordi con nazioni che in apparenza non sono amichevoli, riformulando l’adagio del nemico del mio nemico è mio amico sino a quando non si dimostra inaffidabile come l’Occidente che promette aiuti per le carestie nel Sahel o per impegnarsi nella riconciliazione di parti in conflitto.

Politici e giornalisti sono indignati per il gioco di spie che continua ad andare tanto di moda anche dopo la fine della Guerra fredda. Nel pubblico o nel privato tutti vogliono acquisire informazioni sulle diverse controparti. L’Unione europea minaccia gli Usa di sospendere le trattative per costruire l’area di libero commercio più grande del mondo che favorirà solo le grandi imprese mentre i piccoli produttori di manufatti come dell’agricolo rimarranno schiacciati.

Gli Stati uniti fanno bene a procurarsi informazioni vista la recente scelta dell’alleato turco per un sistema logistico antimissile di fabbricazione cinese piuttosto che lo statunitense Patriot. Un altro segnale di Ankara di scegliere l’orbita d’influenza cinese e allontanarsi dalla Nato e dall’Europa.

In questo panorama di tutti che spiano tutti, come nel Grande gioco definito da Rudyard Kipling, cambiamo le modalità, ma il fine è sempre lo stesso: acquisire il potere dell’informazione.

Un’informazione che per la televisione non riesce ad andare oltre il proprio ombelico, come evidenzia il Rapporto sulle Crisi Dimenticate 2013 redatto da Medici Senza Frontiere (MSF), e anche sulla carta stampata non brilla l’interesse per il futuro d’intere popolazioni.

L’indagine, realizzata con il supporto dell’Osservatorio di Pavia, prende in esame la copertura delle crisi umanitarie nei principali notiziari (prima serata) della televisione generalista (3 della TV pubblica e 4 della TV privata). Il quadro è sconfortante: nel 2012 i telegiornali hanno dedicato solo il 4% dei servizi a contesti di crisi, conflitti, emergenze umanitarie e sanitarie. È il dato più basso dal 2006, cioè da quando MSF ha avviato il monitoraggio dei TG. Le crisi umanitarie da dimenticate sono diventate invisibili. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione in Sud Sudan, nel Mali, nella Repubblica Democratica del Congo o il dramma nel quale è precipitata la Repubblica Centrafricana con i suoi oltre 4 milioni di abitanti bisognosi di un rifugio, di cure sanitarie e di cibo è nulla, mentre qualche accenno viene fatto ai rifugiati siriani in Giordania e Libano. Queste sono alcune delle Crisi Dimenticate che MSF ritiene vengono ignorate dai Tg.

Le eccezioni le troviamo in due quotidiani (Avvenire e La Stampa) e in due reti radiofoniche della Rai (Radio 1 e Radio 3), oltre ad un settimanale come Internazionale.

È poco per un paese come l’Italia calata nel mezzo del Mediterraneo e dove le carestie e i conflitti dell’altra sponda hanno delle ripercussioni sulla vita quotidiana degli italiani come gli sviluppi di federalismo in Somalia come strumento di riconciliazione o solo per camuffare la spartizione del paese in zone d’influenza islamista da una parte e laicista dall’altra.

Ignorare il ruolo di MONUSCO (Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo) e gli sviluppi nel conflitto in Congo Orientale che contrappone militarmente il governo centrale e le milizie tutsi del M23 (Movimento 23 Marzo) con occupazione di Goma, costringendo le forze armate congolesi e i Caschi Blu di MONUSCO a una precipitosa ritirata, lasciando la popolazione nuovamente in balia dei capricci di chi impugna un’arma è una grave “disattenzione”.

Le turbolenze nel Sahel dovute alla crisi maliana creano timori per il risvegliato interesse per il Niger e gli interessi stranieri legati al suo uranio. In questo ambito trova un ruolo il Ciad nel quadro di sicurezza dell’Africa centro-occidentale con il suo intervento militare per fronteggiare le milizie salafite e qaediste. Non lontano non si può ignorare la questione del Sahara Occidentale e dell’invisibilità del popolo dello Saharawi.

I quattro cavalieri dell’Apocalisse continuano a cavalcare, ma i nostri Tg sembrano non vederli.

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Corrispondenza estera

Pochi minuti televisivi per il mondo 2

L’Egitto si è rotto

 

È passato appena un anno da quando era diventato presidente Morsi, un opaco esponente dei Fratelli musulmani, ricevendo l’appoggio di una parte degli egiziani che l’hanno considerato il male minore nello sceglierlo al ballottaggio ad Ahmed Shafiq, candidato indipendente legato ai militari e ultimo Primo ministro di Mubārak.

 

Una vittoria che non poco è stata influenzata dai numerosi egiziani, la metà degli aventi diritto al voto, che hanno scelto di astenersi per non schierarsi, dopo che l’opposizione si è trovata sconfitta nell’essersi presentata divisa con i suoi tre candidati, vedendo la vittoria di uno dei due candidati una rivoluzione incompiuta se non addirittura tradita.

 

Ora, con il passare dei mesi, il signor Morsi-Nessuno ha dimostrato tutta la sua ambiguità democratica e inadeguatezza nel gestire la crisi economica, traducendo un’elezione con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare, come la gestione del potere di una parte dell’Egitto sull’altra.

 

 

Gli astenuti del 2012 si sono trovati insieme ai delusi dal metodo autocratico di Morsi nel movimento Tamarod (Ribelle), per raccogliere milioni di firme, ne hanno dichiarate 22milioni, per chiederne le dimissioni.

 

 

Milioni di firme che si trasformano in una folla oceanica che riprende possesso non solo di piazza Tahrir, ma in ogni strada del Cairo e di Alessandria, a Luxor come in altre città egiziane, lanciando l’ultimatum a Morsi.

 

 

Dopo il prolungarsi di scontri tra oppositori e sostenitori di Morsi, con decine di morti che diventano centinaia e incalcolabili e il numero dei feriti, sono le Forze armate, come nel febbraio del 2011 con la destituzione di Mubarak, a prendere in pugno la situazione, portando nelle strade blindati ed elicotteri nel cielo.

 

 

L’ultimatum di Tamarod diventa l’ultimatum dei militari e, dopo un iniziale timido tentativo di trattare, Morsi viene preso in “custodia” preventiva con i suoi collaboratori e i vertici dei Fratelli musulmani, altri esponenti del governo vengono invitati a rimanere nei loro appartamenti.

 

 

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza nella rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrova un’unità, è la Primavera parte seconda.

 

 

È la politica di Morsi che ha trasformato i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica.

 

 

Un’immagine quella di paragonare la Fratellanza ad una mafia condivisa da molti intellettuali come il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, ultimo libro pubblicato il giallo Polvere di diamante per Marsilio, che il potere egiziano l’ha visto da vicino essendo stato il fotografo di Mubarak, Morsi e ora di Mansour, raffrontando la figura di Mubarak con quella di Morsi nel definire il primo un uomo che si era allontanato dal popolo e il secondo un organizzazione nelle mani dei Fratelli musulmani. Altrettanto severo è il giudizio dello scrittore Ala Al Aswani che equipara il loro comportamento come quello dei fascisti.

 

 

L’estromissione dei Fratelli musulmani dal potere egiziano riceve i consensi dell’Arabia saudita e l’applauso del siriano Bashar al-Assad che fa sospettare un accartocciamento dei cambiamenti nel Mondo arabo con ritorno agli antichi equilibri.

 

 

Un segnale di questa ricerca di antichi equilibri potrebbe essere la casualità che vuole il Presidente della Corte costituzionale egiziana, il giudice Adly Mansour nominato da Mubarak e promosso all’attuale carica da Mohammed Morsi, a essere designato dai militari come presidente ad interim fino a nuove elezioni.

 

 

Le prime mosse del presidente pro tempore Mansour hanno portato allo scioglimento della Camera alta, di nomina governativa, ha nominato il nuovo capo dell’intelligence e deve affrontare le violente proteste dei sostenitori di Morsi.

 

 

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

 

 

In Egitto sono i militari a detenere il vero potere, anche dopo le numerose e raffazzonate riforme di Morsi nel limitarne la loro intromissione, ma senza poter fare a meno del finanziamento annuo statunitense di 1,3 miliardi di dollari.

 

 

L’Egitto ha sperimentato un socialismo nasseriano caratterizzato da una forte impronta nazionalistica panaraba che non ammetteva opposizioni, con Sadat il paese doveva superare Nasser per essere traghettato nel capitalismo che Mubarak lo portò a trionfare. Con i Fratelli musulmani è l’islam ad essere la soluzione e Morsi si accingeva a far vivere gli egiziani sotto tale precetto.

 

 

È uno scatto di orgoglio nazionalista che ha coinvolto così tante persone nel chiedere di non dover dipendere dall’elemosina dei paesi più ricchi, soprattutto dagli Stati uniti.

 

 

Quello che non piace a Tamarod di Morsi è il non essere riuscito a migliorare la sicurezza, a trovare delle soluzioni alla crescente povertà, al far sopravvivere l’economia egiziana con gli aiuti internazionali e soprattutto il non essere riuscito ad affrancarsi dalle decisioni statunitensi.

 

 

Il problema non è l’islam, l’Egitto è un paese musulmano, ma la politica messa in pratica dal movimento islamista dei Fratelli musulmani che ha portato a dividere il paese, ha evidenziato una polarizzazione della società egiziana, iniziata alla fine del 2012 con il decreto che permetteva a Morsi di raccogliere nelle sue mani gran parte dei poteri.

 

 

Nonostante i cospicui finanziamenti provenienti dal Mondo arabo e dall’Occidente, l’Egitto vive una crisi economica che si è aggravata con le incertezze di stabilità e riducendo a un lumicino l’industria turistica, escludendo la zona di Sharm el Sheikh e alle gite di un giorno a Luxor.

 

Il turismo ha subito un duro colpo, nonostante la disponibilità dei Fratelli musulmani a rendere duttili le direttive islamiche in favore del pragmatismo economico sui divieti nell’uso di alcolici e nell’utilizzo del bikini.

 

 

Il continuo veto posto dagli islamisti ad ogni laicità governativa evidenzia la mancanza di dialogo tra schieramenti. Alla mancata candidatura di El Baradei a primo ministro è seguita quella di altre personalità accusate di essere laici e troppo vicini agli Usa. Un’intransigenza della fratellanza musulmana ben comprensibile dopo aver visto esautorato il loro presidente Morsi e la maggioranza elettorale che non ha permesso nessun compromesso mentre la democrazia sotto tutela militare ha partorito un governo laicista di 34 ministri con 3 donne, di cui una cristiana, e nessun islamico. Questo il governo di transizione guidato dall’economista Hazem El-Beblawi, con Mohamed El Baradei suo vice, scelto dal presidente ad interim Adly Mansour e avallato dai militari che sono presenti con il generale Abdel Fattah al-Sisi, capo delle Forze armate e “ispiratore della destituzione di Mohamed Morsi, alla difesa.

 

Un governo ritenuto illegittimo dai Fratelli musulmani che continuano a manifestare sempre più rumorosamente anche in concomitanza con le visite del vice segretario di stato americano, William Burns, e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, in Egitto per due volte nello spazio di due settimane.

 

 

Il presidente statunitense, per uscire dall’imbarazzo di non aver compreso nuovamente la forza della piazza, afferma che la democrazia va oltre le elezioni. Altrettanto laconici sono i commenti di altri leader occidentali, evitando di stigmatizzare la destituzione di Morsi come un golpe, ma è al massimo la conseguenza di una forte pressione popolare assecondata dai militari.

 

 

Il paese è in fiamme e l’esercito usa le armi, l’Unione africana ha sospeso temporaneamente l’Egitto dal suo seggio, ritenendo “irregolare” la deposizione del presidente Morsi, sino a quando non saranno ripristinati i diritti costituzionali.

 

 

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

 

 

La “nuova” dirigenza egiziana, con le frequenti incursioni armate nel Sinai, ha ritenuto indispensabile comunicare al governo di Tel Aviv, nel rispetto del trattato del 1979, la necessità di aumentare la presenza di militari egiziani nella penisola per far fronte ai diversi gruppi terroristici, tra i quali l’esordiente gruppo pro Morsi Ansar al-Shariah, che si infiltrano attraverso la striscia di Gaza.

 

 

Una decisione che ha portato il blocco dei diversi tunnel lungo il confine di Gaza mentre il valico di Rafah è stato chiuso. Di fatto i palestinesi di Gaza sono bloccati in quella che si ritiene “la più grande prigione a cielo aperto”, pagando di fatto il sostegno che Hamas ha dato e ricevuto dalla Fratellanza. La caduta del regime di Morsi ha reso la popolazione di Gaza una vittima collaterale, strangolando ulteriormente, se mai fosse possibile, l’economia di una zona tra le più disagiate del Pianeta. Una pressione su Hamas perché possa vigilare con maggior fermezza sui confini.

 

 

A Gaza nessun palestinese entra o esce ed ogni intervento medico urgente non potrà essere fornito, mentre i palestinesi Ramallah confidano nell’attività diplomatica del segretario di stato statunitense, John Kerry, nella ripresa dei colloqui di pace tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese.

 

 

L’Occidente, interessato a mettere in sicurezza le forniture degli idrocarburi, si augura che l’Egitto possa presto tornare alla normalità costituzionale, per non cadere in una tragedia modello siriano, magari dopo la revisione che i dieci “saggi” dovrebbero effettuare sulla Costituzione, già emendata in senso islamico da Morsi e contestata da liberali e cristiani che ne denunciano i limiti di libertà e diritti umani.

 

La situazione siriana non sembra sortire alcun effetto come ammonimento, anzi l’esortazione a scendere in piazza del generale e Ministro della difesa El-Sisi sembra voler far eco agli incitamenti dei Fratelli musulmani allo scontro, mentre le famiglie egiziane continuano a soffrire la fame, come dimostra la fornitura di 240.000 tonnellate di grano provenienti dalla Romania, Ucraina e Russia per la produzione di pane sovvenzionato.

 

 

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

 

 

 

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I frutti celati negli Orti

Il recupero dell’orto come alternativa al rincaro della vita e per ravvivare la quotidianità urbana ha riscontrato un sempre maggior interesse tra i singoli e le comunità che si adoperano per instaurare un rapporto di conoscenza con la natura e con il cibo che si mangia.

In questo idilliaco panorama si può anche scoprire un orto che da secoli custodisce la storia di un luogo come quello dell’Abbazia e Basilica di san Paolo fuori le Mura, ma che l’esigenza di edificare una struttura di accoglienza dei visitatori del complesso monastico e degli spazi museali annessi, ha portato a smantellare l’antico orto e al conseguente rinvenimento di una serie di antiche strutture altomedioevali che comprendeva anche le mura volute dal papa Giovanni VIII (872-882), facilitando la nascita del borgo detto “Giovannipoli”, con la presenza spontanea di una comunità laica che viveva in simbiosi con il complesso monacale.

Una scoperta quella sotterranea all’orto che ha ravvivato l’eterno conflitto tra i “conservatorismi” e i “modernisti”, esemplificato nel chi voleva realizzare un’ampia area archeologica e chi riteneva importante dar sfogo creativo alla contemporaneità architettonica inserita in un contesto millenario.

Gli organi vaticani, preposti anche alla tutela del complesso monacale di san Paolo, hanno mediato tra le due posizioni facendo convivere le esigenze con la conservazione.

È stato effettuato prima uno scavo e poi la scelta dei luoghi dove porre i pilastri di sostegno per l’esecuzione del progetto edilizio del bookshop e degli altri ambienti di servizio, toilette e deposito sedie compresi, in un tripudio di vetro e acciaio.

Il risultato è una suggestiva area archeologica “sotterranea”, con l’immancabile audiovisivo esplicativo nelle ricostruzioni virtuali e i pannelli retro illuminati che facilitano la lettura.

L’allestimento non è completo, le passerelle saranno anche provvisorie, ma l’area è pronta ad accogliere i visitatori in un percorso integrato con gli altri ambiti del complesso.

Da un orto che celava delle risposte sulla storia di un luogo ad un orto che stimola la cultura della conservazione come l’iniziativa “Gli Orti per l’Arte” che ha preso le mosse a Roma con la presentazione dei lavori di restauro della volta della Basilica di Santa Maria in Montesanto, più conosciuta come la Chiesa degli Artisti, e degli affreschi della sacrestia annessa.

L’iniziativa che ha coinvolto la Fondaco insieme a Gli Orti di Venezia marchio per la vendita di insalate in sacchetto e la Bonduelle, ha esordito a Venezia nel 2010 con il restauro del Gobbo di Rialto, statua del xv° secolo che si affaccia in Campo San Giacometto.

Abbazia e Basilica di san Paolo fuori le Mura
Abbazia e Basilica di san Paolo fuori le Mura
Basilica di Santa Maria in Montesanto totale affreschi
Basilica di Santa Maria in Montesanto totale affreschi