Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

L’infelicità araba

Per la Siria questi ultimi due anni di morti e distruzione sono stati non solo il superamento di quella linea che delimitava la protesta di una parte della popolazione verso un regime in guerra civile, tra chi è stanca di essere la vittima e chi vuol solo vivere, ma la trasformazione di una nazione in un campo di esercitazione di varie componenti islamiste. Gli Hezbollah schierati contro gli insorti, le brigate qaediste impegnate in una jihiad contro tutti, un’opposizione laica dalle mille tonalità e islamici moderati che sono incerti nel voler del tutto destituire Bashar al-Assad.

È una Siria lontana dalla sua Primavera quella immolata sull’altare delle incertezze occidentali e dall’incapacità dell’opposizione a presentasi unita.

L’Occidente si domanda se è il caso di armare i ribelli, è una di quelle cose che non si dicono ma si fanno, anche se la presenza sempre più considerevole degli islamisti rende i governi europei e quello statunitense titubanti in tale senso, mentre Israele, senza prendere posizione per l’uno o per l’altro schieramento, si limita ad osservare e intervenire con raid aerei per impedire le forniture di armi agli Hezbollah in Libano come nel caso di convogli o di depositi di stoccaggio soprattutto dei razzi iraniani Fateh 110.

Le numerose pubblicazioni dedicate alla cosiddetta Primavera Araba o forse più indicata come Rinascita, si sono concentrate sulla trasformazione del crescente scontento in ribellione, per sfociare nell’insurrezione che destituisce i regimi oppressivi della Tunisia, Egitto e Libia, ma che non ha coinvolto altri paesi del mondo arabo e che in Siria non trova sbocchi.

Diversamente da ciò che è accaduto i Tunisia, Egitto e Libia, dove le formazioni islamiste più o meno estremiste sono apparse dopo la caduta dei vari regimi, in Siria i combattenti che si possono definire fodamentalisti sono già all’opera da tempo e provengono dalle diverse aree del medio oriente, trasformando la richiesta di libertà e democrazia in guerra non solo civile, ma anche religiosa per procura tra l’Arabia Saudita e l’Iran, ponendo i sunniti contro i sciiti alawiti. Una contrapposizione che coinvolge anche la Turchia nella sua anima alawita che porta alcuni medici turchi impegnati negli ospedali in Antiochia a praticare una medicina poco compassionevole, estrema, che dagli abusi verbali passa alle amputazioni superflue per vendicare i loro cooreligiosi oltre confine sui ribelli medicati in Turchia, mentre il governo turco cerca di fare pressioni per una soluzione del conflitto.

Una situazione complessa che fa risalire l’attuale tragedia siriana alle angherie subite da una parte del popolo per lungo tempo, con decenni di mancate insurrezioni e da feroci repressioni.

Un dramma che viene da lontano e che Shady Hamadi cerca di ripercorrere, in parte attraverso la storia della sua famiglia, nel libro La felicità araba che descrive le sofferenze di tre generazioni di una famiglia siriana sotto un regime dittatoriale e i racconti di molti ragazzi che si trovano a vivere la rivolta siriana nelle sue atrocità quotidiane e come informare il Mondo e le speranze affidate all’Occidente per riscattare un paese schiavo della propria infelicità.

Se il libro di Antonella Appiano – Clandestina a Damasco (2011) – descriveva un paese sull’orlo della guerra civile, quello di Shady Hamadi è una storia che parte dal ‘900 per giungere alla guerra civile nelle strade e sul web dei nostri giorni.

Un libro che cattura il lettore nel suo alternare la storia della famiglia dell’autore con le vicissitudini odierne, attraverso i racconti dei vari protagonisti e quelli vissuti in prima persona, in un esercizio della Memoria per non dimenticare i vari tentativi di cambiamento e le successive azioni repressive come l’insurrezione organizzata dai Fratelli Musulmani e “conseguente” massacro di Ḥamā del 1982 del quale ancora oggi il numero dei caduti è impreciso e varia, secondo le fonti, dalle 7 alle 40mila vittime.

Per “poter diventare coscienti di ciò che accade in questo piccolo grande mondo”, come scrive nella prefazione Dario Fo per il libro di Shady Hamadi, può essere utile soffermarsi anche sulle immagini di Fabio Bucciarelli, che per il suo fotoreportage “Battle to death” da Aleppo è stato premiato con il Robert Capa Gold Medal 2013, visibili su sito della The Overseas Press Club of America e accorgerci che le atrocità delle persone verso altre persone è difficile da immaginare, come è difficile prevedere le conseguenze di una infanzia che da due anni ha smesso di giocare e i più fortunati si trovano smarriti nei campi profughi libanesi o turchi intenti a chiedere l’elemosina.

Una tragedia quella siriana che si può ripercorre attraverso storie pubblicate sull’Osservatorio Italo-Siriano.

Chi potrà ricostruire la Siria del domani se le generazioni future non vedono un diverso futuro che non sia nascondersi tra le macerie delle proprie dimore o vivere nelle tende?

La Siria e i suoi quotidiani morti appare e scompare dalle pagine dell’informazione come un fiume carsico e molti altri sono i drammi sparsi per il pianeta che non trovano spazio sui media.

Riccardo Noury di Amnesty International Italia afferma che “Dare spazio ad autori come Shady Hamadi significa ripristinare un circuito d’informazione corretta su cosa sta accadendo in Siria.”

Forse certificare un testo come informazione corretta può apparire eccessivo, è sempre una narrazione da un punto di vista parziale, ma sicuramente un’occasione di riflessione sulle meschinità e atrocità che l’umanità è capace di perpetrare nei confronti del prossimo.

Una disumanità che crea gabbie come il poeta siriano Adonis, pseudonimo di Alī Ahmad Sa’īd Isbir, che mette in risalto con “Pur viaggiando, ovunque, entro i confini arabi, / non vedrai altro che gabbie. Perfino i giardini / sono l’immagine di gabbie interne.” Poche righe riportate all’inizio del libro da Shady Hamadi, per gabbie insite in noi, gabbie che altri hanno costruito per soggiogare il desiderio di libertà.

Probabilmente la poesia di Adonis più indicata per descrivere il nostro futuro, senza alcune acrobazie chiaroveggenti, può essere:

 

Oriente e Occidente

Una cosa si era distesa nel cunicolo della storia

una cosa adorna, esplosiva

che trasporta il proprio figlio di nafta avvelenato

al quale il mercante avvelenato intona una canzone

esisteva un Oriente simile a un bambino che implora,

chiede aiuto

e l’Occidente era il suo infallibile signore.

Questa mappa è mutata

l’universo è un fuoco

l’Oriente e l’Occidente sono una tomba

sola

raccolta dalle sue ceneri.

 

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Libri Siria La felicità araba Shady Hamadi webAutore: Shady Hamadi

Titolo: La felicità araba. Storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana

Prezzo: € 15,00

Dati: 2013, 256 p., brossura

Editore            ADD Editore (collana ADD#)

 

 

 

Una diversa Liberazione

Hugo Chavez è stato sconfitto dal cancro e l’ortodossia chavista non gode di buona salute. Non è riuscito a manipolare “democraticamente” la malattia e non solo il Venezuela ne sarà influenzato da questa morte, ma tutto il Sud America che ha guardato con interesse all’appuntamento elettorale.

Per sapere cosa succederà al Venezuela ora sarà necessario vedere Nicolas Maduro come affronterà la l’alzata di scudi del l’opposizione capeggiata da Capriles con la sua richiesta del riconteggio delle schede e se poi avrà la forza di portare avanti l’idea bolivariana del riscatto di uno stato e dell’intero continente Latino Americano.

L’ultimo desiderio di Chavez è stato esaudito dai venezuelani, ma con una timida maggioranza, ben lontana da un plebiscito chavista.

Maduro forse non ha lo stesso carisma di Chavez nell’infuocare le folle, ma ha la forza di continuare nell’opera di redistribuzione delle ricchezze che si misurerà con le sue capacità di guidare un paese emergente.

Il nodo principale è proprio la ridistribuzione della ricchezza proveniente dal petrolio che comporta per alcuni perdere parte della propria influenza in favore dei molti poveri.

Sarà stato benedetto dallo spirito di Chavez nelle spoglie di un passerotto, ma Maduro dovrà cedere il palco a Jorge Mario Bergoglio e gli altri capi di stato del Continente guarderanno al Papa venuto da lontano come possibilità di riscatto del Sud America

L’elezione dell’argentino Jorge Mario Bergoglio al soglio pontificio non renderà protagonisti solo i poveri, ma tutto il Continente Americano, come dimostra il suo rifiuto del lusso e la nomina di otto cardinali, di cui ben tre in rappresentanza delle terre d’oltreoceano, ai quali si rivolgerà per un consiglio nel guardare alle Americhe con estrema attenzione.

Un’elezione importante per il continente Latino Americano pari a quello che fu con Giovanni Paolo II per la Polonia e per tutto l’universo sovietico.

Quello che Chavez aveva iniziato nell’infondere l’orgoglio latinoamericano sarà portato avanti dal Papa che viene dalla fine del Mondo, ma con un respiro ecumenico, estraneo all’inflessibilità del cosmo militare.

Come cardinale Jorge Mario Bergoglio era impegnato nell’aiutare i poveri, come Papa Francesco darà voce agli ultimi ed evidenzierà l’importanza nel panorama internazionale della realtà sudamericana e del suo futuro come “patria grandè” echeggiata dagli eroi Simon Bolivar e Josè de San Martin.

Nel messaggio Urbi et Orbi davanti ad oltre duecentocinquantamila presenti in Piazza San Pietro il Papa dell’America Latina ha sintetizzato la sua idea di Mondo, con lo scongiurare le minacce alla vita umana e alla famiglia, condannando la tratta di persone, il narcotraffico e lo sfruttamento iniquo delle risorse naturali, invitando a essere “custodi responsabili del creato”.

Il nuovo vescovo di Roma sta indicando il futuro fatto di prossimità con gli altri e con il Pianeta, non solo in ambito teologico, ma come stile di vita sobrio, non austero e infelice, basato sulla conoscenza delle conseguenze di ogni nostra azione.

Nell’Ecuador di Correa si dovrà riflettere sull’affidare una porzione dell’Amazzonia alla Cina per lo sfruttamento delle risorse naturali, petrolio innanzitutto, cacciando le popolazioni indigene che vi vivono da secoli, come la tribù Kichwa, minacciando la Biosfera del Parco Nazionale Yasunì.

Un Papa che parla a tutti, nell’ambito del buon senso, per far riflettere le persone sul custodire e non sul possedere.

Non sono direttive dell’etica cattolica, ma della convivenza tra persone da poter adottare indistintamente nell’ambito di un condominio come nella geopolitica, per superare ogni divergenza.

Jorge Mario Bergoglio è un filosofo della vita e un Libertador degli ultimi e dei potenti, con il suo improvvisare con cognizione di causa sulla singolarità della felicità.

Il Papa Francesco potrà cambiare il Mondo senza obbligare nessuno, senza alzare la voce, solo con la serenità della sua voce.

Se Chavez era ritenuto el Libertador del Continente Latino Americano dalle maniere energiche che si sono dimostrate inefficaci contro la violenza, ora è la volta della pacatezza impegnata a rieducare ad un nuovo confrontarsi con il prossimo che potrà dare qualche frutto, offrendo un’alternativa alla devastazione dell’umanità.

Il prossimo appuntamento elettorale sarà in Cile con la ricandidatura di Michelle Bachelet alla presidenza.

 

Chavez Papa Francesco

Cultura al tempo della crisi

Serpeggia da anni il pensiero che ricollega la crisi dei beni culturali alla Legge detta di Ronchey, ma è ingiusto addossare tutta la responsabilità ad un solo uomo. Tanti sono i pregi di quella Legge, prima fra tutti di aver obbligato i musei a spolverare le loro collezioni, ma la sua applicazione ha permesso agli oscuri burocrati di dare il loro peggio estremizzando ogni visione privatista e autosufficiente del sistema museale.

Affidare alcuni servizi alla gestione privata può essere stato un incentivo per il pubblico, ma sicuramente è incomprensibile assegnare al privato l’organizzazione della Didattica. Un servizio quello della Didattica che non può essere un ambito dove si può confondere l’utente con il cliente. E proprio questa osmosi tra utente in cliente che è il vero nocciolo del cambiamento dei Beni Culturali da strumento di istruzione e conoscenza a giacimento culturali, al pari di una riserva di idrocarburi. Una visione stimolata dalla prorompenza “socialista” dell’era craxiana.

Da utenti a clienti è la vera questione dello svilimento della missione che a suo tempo era nel pensiero di Giovanni Spadolini quando “estrasse” dal Ministero della pubblica Istruzione oltre che le funzioni del Ministero degli Interni e della Presidenza del Consiglio dei Ministri gran parte delle competenze per la tutela dei Beni Culturali, intesi come musei, monumenti e ambiente, oltre che delle biblioteche e degli archivi.

Era la fine di gennaio 1975 e neanche vent’anni dopo Alberto Ronchey riesce a far approvare la Legge che porta il suo nome, aprendo a deviazioni liberaliste del patrimonio culturale, non solo aprendo all’iniziativa privata e al merchandising a tutti i costi, ma spalancando le porte all’idea di una cultura che possa produrre ricchezza per chi v’investe e non per chi ne dovrebbe usufruire.

Si è svecchiato il modo di gestire il patrimonio, ma non si è ritenuto importante riconoscere a tale patrimonio il ruolo educativo e di crescita. Un ruolo che i musei e le biblioteche dovrebbero svolgere per far conoscere a ogni cittadino la storia italiana.

I musei e le biblioteche non potranno mai autofinanziarsi, non vi riescono gli americani, ma possono creare ricchezza nel territorio. La soluzione non è nel manifesto lanciato nel 2012 dal Sole 24 Ore domenicale per una Costituente della cultura. La cultura non è un deodorante.

Il recente rapporto dell’EuroStat relega l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per spesa pubblica dedicata alla scuola e alla cultura, ben lontana dal primo posto dell’Estonia che non ha come l’Italia oltre il 40% del patrimonio mondiale.

Forse il problema è che l’Italia continua ad avere troppo patrimonio, nonostante i crolli e il degrado nel quale versano. Dovrebbe avere meno per potersene prendere cura.

Un’analisi critica delle politiche culturali dell’Italia viene proposta da Tomaso Montanari nel suo recente libro Le pietre e il popolo (Minimum Fax), politiche basate su grandi eventi che poco hanno a che fare con un museo o un’area archeologica, trasformandoli in luna park o vetrine di moda solo per racimolare qualche euro per il restauro di un’opera o provvedere alla riparazione del soffitto.

Scelte che fanno transitare ancora di più il cittadino dall’essere utente a consumatore, non partecipi ma passivi alla vita culturale.

Il libro non è solo una critica contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d’arte, ma è un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l’Italia può risorgere solo se si pensa come a una “Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza”.

Sul quotidiano La Stampa del 6 aprile 2013 un’inchiesta sui beni culturali, Bellezza, sprechi e scempi dei dodici gioielli d’Italia, tende a un certo ottimismo basato sul nostro patrimonio più conosciuto del centro-nord, tranne per un salto a Pompei e alla Reggia di Caserta che non sprizzano di salute, ma senza far menzione di Venezia o Bologna, come si ignora Napoli e Palermo.

Dodici musei e siti più visitati corredati da una scheda dei servizi e dove vi sono delle mancanze è il personale a sopperire con la loro disponibilità.

Luoghi di cultura con una missione, tra paradossi e occasioni perse, che difficilmente possono svolgere se l’ingresso è permesso solo attraverso i contanti, vedendo i visitatori come clienti e non utenti.

Realtà gestite con regole codificate e con la volontà di farle rispettare, senza tollerare i truffatori.

Lontano da ogni ottimismo è invece l’articolo Tutti i musei pubblici d’Italia guadagnano meno del Louvre di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di cinque giorni dopo.

Anche da oltreoceano, e non è la prima volta, giungono critiche sulla cattiva gestione del patrimonio, coma ad esempio quello di Pompei con l’articolo The Latest Threat to Pompeii’s Treasures: Italy’s Red Tape, corredato dal video, del New York Times del 20 aprile. Un Tesoro, quello di Pompei che sta cadendo in disgrazia, minacciato dalla burocrazia italiana, dopo essere sopravvissuto alla distruzione del Vesuvio, agli scavi, per non dimenticare i traffici camorristici, e sopportato stoicamente i milioni di turisti.

Contemporaneamente il quotidiano britannico The Independent si domanda se la camorra sia la causa di tutti i problemi e crolli di Pompei o molto è dovuto all’insufficiente manutenzione. Una negligenza simile che accomuna Pompei ad altri monumenti come il crollo che ha coinvolto la Domus Aurea nel 2010.

La ricchezza dell’Italia non è solo Pompei che crolla o il Colosseo assediato dagli ambulanti, ma Selinunte o Alba Fucens, Sibari reduce da un allagamento o San Vincenzo al Volturno sulla via della transumanza, Buccino in Volcei o Aquileia, Pitinum Pisaurense o San Galgano

A cosa può servire in questa situazione svolgere il Forum Universale delle Culture a Napoli, sul quale peraltro i tagli sono calati come una mannaia?

Fortunatamente il fine settimana di metà aprile ha rivitalizzato il panorama culturale da due assemblee sul patrimonio comune come quella tenutasi a Roma presso il Teatro Valle Occupato per la Costituente beni comuni e il patrimonio culturale è un bene comune come l’acqua e l’aria, trovando giuristi e realtà sociali riunite per discuterne.

Mentre il dopo il voto e costruzione dell’alternativa economica è l’argomento a Firenze dell’assemblea che l’incompiuto soggetto politico denominato Alba (Alleanza per i beni comuni) ha riunito intellettuali tuttologhi e specialisti in vari campi, ma anche sindacalisti e politici, riafferma la sua esistenza con l’analisi sul risultato elettorale e sul governo Monti.

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Sindaco nuovo vecchi problemi

Dopo le primarie romane vinte da Ignazio Marino, ora il Pd avrà qualche possibilità di tornare in Campidoglio, non perché Roma ha visto un Pd cambiato e liberato dagli orpelli di una politica poco idealista, ma un esponente che appare minoritario, pur se sponsorizzato da Goffredo Bettini, capace, come ha dichiarato dopo i risultati, di liberare la città dal malaffare.

Ignazio Marino sarà capace di far riflettere quegli elettori in fuga verso le 5 Stelle che il cambiamento può avvenire dall’interno e non è necessario esprimere tutta la propria rabbia verso la politica con un voto che potrebbe avvantaggiare gruppi di potere. È improbabile che Ignazio Marino possa convogliare sul suo nome anche degli elettori schierati con Sandro Medici.

Anche se lo slogan di Sandro Medici «Roma malata ha bisogni di Medici» è estremamente indicato per un medico chirurgo come Ignazio Marino che deve svincolarsi dalla morsa di Bettini.

Oltre a smantellare il malaffare dal Campidoglio saprà arginare i questuanti pronti dietro la porta del nuovo Sindaco e affrontare l’impoverimento del bilancio capitolino grazie anche alla voracità delle società municipalizzate, come alter ego dell’Amministrazione.

Alla poltrona di Sindaco ambiscono persone che sono espressione di un partito e indipendenti. Ignazio Marino è sicuramente espressione del Partito Democratico come Alemanno del Popolo della Libertà e Marcello De Vito per Movimento 5 Stelle, non un partito, ma una presenza organizzata.

Alfio Marchini è un indipendente dell’imprenditoria edilizia, mentre Umberto Croppi è indipendente scontento della destra berlusconiana che pensa di ritirarsi per appoggiare Marino. Sino a qui sono comunque espressione di correnti e rabbie politiche, mentre Sandro Medici è più un’espressione del sociale e della cultura, come dimostrano i suoi mandati da presidente del Municipio X e la conoscenza della città esternato nella pubblicazione Roma bella m’appare, pure se la sua candidatura è consigliata dai comunisti rimasti fuori dal Parlamento.

Ogni candidato alla poltrona di Sindaco dovrebbe avere un programma d’intervento per rendere efficienti e accessibili i servizi per la tutela del patrimonio, ora frammentati in diversi luoghi di Roma, e non continuare a cedere a destra e a sinistra la gestione dei musei e di monumenti.

Una politica più avveduta verso i rifiuti come una possibilità di ricchezza per la città e smettere di continuare a nascondere la mondezza sotto il tappeto. Il tappeto è troppo corto e i rifiuti non solo potrebbero essere, dovutamente trattati, un combustibile, ma incentivare la raccolta privata della carta, vetro e plastica, con un sicuro guadagno  che sarebbe occasione per diminuire la quantità nelle discariche e fonte di sopravvivenza per molti senza dimora.

Tra questi candidati potrebbe esserci chi riuscirà a sfatare l’idea che la crisi si combatte con l’edificazione e riflettere sulla costruzione dello stadio della Roma nella zona di Tor di Valle, un complesso stretto tra la via del Mare e il Tevere. Un territorio aggredito anche dal corridoio d’asfalto verso Tor de Cenci-Latina della Bretella autostradale A12 Genova-Roma che coinvolge tre aree archeologiche e due Riserve naturali, mettendo in secondo piano la realizzazione della metropolitana leggera Roma-Pomezia-Ardea e il potenziamento della rete ferroviaria pontina e la linea Roma-Ostia.

A Vitinia fa gola l’area dell’ex deposito militare, 50 ettari di vallate e colline e presenze archeologiche, per una colata di cemento.

Il Sindaco dovrà affrontare anche “piccoli” problemi come la pavimentazione e aree lasciate nell’abbandono come il Campo del Testaccio, nell’omonimo quartiere. Un buco nero dell’incuria nei pressi del Cimitero Acattolico, della Biblioteca “Enzo Tortora” e di un complesso scolastico. Un cattivo esempio educativo per nuove generazioni sul tema della salvaguardia dei beni comuni.

Questi sono solo alcuni dei problemi che il nuovo Sindaco si troverà ad affrontare e di alcuni di questi candidati abbiamo auscultato l’incapacità di affrontare le emergenze, la loro voce sgradevole, gli occhi come due minuscole fessure o i successi amministrativi e programmatici. Di altri non abbiamo ancora neppure un programma.

Illuminante è l’inchiesta Romanzo Capitale realizzata da Paolo Mondani per Report del 14 aprile 2013 e dedicata a Roma e alle trame affaristiche ha avviluppato la città e Alemanno può sentirsi offeso e querelare Milena Gabanelli, ma un sindaco ha difficoltà di controllare un’amministrazione così dilatata e dove si annidano mille possibilità per “arrotondare” i “miseri” compensi.

Precedentemente un pezzo di storia romana recente era stata ispiratrice del Romanzo comunale dell’ex assessore alla cultura Umberto Croppi.

Il prossimo sindaco dovrà essere molto accorto nella scelta dei collaboratori per non incorrere in spiacevoli incomprensioni gestionali della municipalità e soprattutto tenendo conto dell’incapacità dei politici di dare delle certezze e nel comprendere i rimproveri del Presidente della Repubblica, tanto da portarli ad applaudire ad ogni richiamo, pensando che non era indirizzato al proprio comportamento, ma a quello degli altri. Applaudire quando si dovrebbe provare imbarazzo, è dimostrazione di vera confusione mentale.