Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

Viaggiando in casa per scoprire la storia

Bill Bryson, in “Breve storia della vita privata”, non si limita a narrare la sua dimora, un’ex canonica vittoriana situata in uno sperduto villaggio del Norfolk, ma intraprende un viaggio, prendendo spunto dai diversi ambienti, nel tempo e nello spazio.

Partendo dall’Esposizione universale del 1851 a Londra e dalla superba architettura in ferro e vetro del Crystal Palace, per poi andare indietro nei secoli all’abbandono delle isole britanniche da parte dei romani e poi in avanti agli attriti tra l’Europa e gli Stati d’America per la produzione dell’acciaio e in mezzo la cosiddetta rivoluzione industriale e le condizioni delle persone e i loro scarsi diritti.

Un excursus che conduce il lettore ad una disarmante conclusione: “Oggi il cittadino medio della Tanzania impiega quasi un anno a generare lo stesso volume di emissioni di carbonio che un europeo produce senza alcuna fatica in due giorni e mezzo o un americano in ventotto ore. In breve, siamo in grado di vivere come viviamo perché usiamo una quantità di energia cento volte superiore a quella sfruttata dalla totalità degli abitanti del pianeta. Un giorno (e non crediate che sia troppo lontano) molti di quei sei miliardi di individui meno privilegiati pretenderanno di avere quello che abbiamo noi, e di ottenerlo con la stessa facilità, e questo richiederà più risorse di quante il nostro pianeta possa plausibilmente fornirci.
L’estremo paradosso sarebbe aver creato, nella nostra eterna ricerca dell’agio e della felicità, un mondo privo di entrambi. Ma questo, ovviamente, sarebbe un altro libro.


Breve storia della vita privata
di Bill Bryson
Stefano Bortolussi (Traduttore)
Guanda, 2011, pp.200
Prezzo: 20,00 €
ISBN 9788860884152


Clima: Alla Cop 27 si preferisce pagare e non prevenire

Dalle grandi speranze dickensiane della Cop di Parigi del 2017 alla conferenza egiziana, si è consolidato l’impegno dei ricchi a pagare piuttosto che prevenire e gli oltre 100 paesi vulnerabili, svantaggiati, quelli che subiscono maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici, si trovano a “far buon viso a cattivo gioco” nell’affermare di essere soddisfatti, ma non contenti con l’istituzione di un fondo per il risarcimento derivante dai danni dei cambiamenti climatici.

Un fondo che non potrà risarcire la perdita delle terre e delle vite umane, dell’estendersi delle malattie respiratorie, ma soprattutto nel non permettere ai profughi climatici di accedere ai paesi ricchi,  per avere una possibilità di costruirsi una vita lontano da carestie ed alluvioni, perché bollati come emigranti economici e non in fuga da guerre e da persecuzioni.

Sembra sia più tranquillo e facile vivere nella gelida tundra che nei luoghi temperati o caldi, dove se non è il deserto a divorare la terra è l’acqua a sommergerla e l’avidità delle persone a rendere difficile la vita al prossimo. A quegli altri di noi, sfortunati nell’essere nati nei luoghi sbagliati.

L’Umanità che cerca un luogo per vivere non può essere discriminata dal motivo della loro fuga, una guerra con le armi non è differente da una contro una natura inospitale. Entrambe possono essere sconfitte se ognuno è interessato a vincere.

In questo contesto si evidenzia la presenza di cinque gruppi di paesi:

quelli industrializzati che discutono come il senato a Roma

quelli industrializzati ai quali non basta e vogliono di più

quelli che provano ad industrializzarsi ma non glielo si vuol permettere

quelli che l’industrializzazione la fanno i governanti nelle loro tasche

quelli che non ambiscono ad industrializzarsi

Un Fondo di “solidarietà” con dei donatori aleatori, la Cina vorrebbe far pagare solo l’Occidente, basato sull’elargizione di soldi per compensare le perdite ed i danni, il Loss and damage, alle persone e all’ambiente che non mette tutti d’accordo.

Un impegno finanziario che a lungo sarà veramente costoso con i cambiamenti climatici dirompenti.

Un fondo sarà istituito dai governi ricchi per il salvataggio e la ricostruzione delle aree vulnerabili colpite dal disastro climatico, una richiesta chiave delle nazioni in via di sviluppo negli ultimi 30 anni di colloqui sul clima.

I paesi ricchi, come gli Stati Uniti e il Canada, temono una serie di richieste di risarcimento miliardarie, quindi non sono risarcimenti, ma aiuti, per escludere ogni forma di “responsabilità” e “compensazione” per i danni dovuti al riscaldamento globale.

Ma il risultato è stato ampiamente giudicato un fallimento negli sforzi per ridurre l’anidride carbonica, dopo che i paesi produttori di petrolio e quelli ad alte emissioni hanno indebolito e rimosso gli impegni chiave sui gas serra e l’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Una abolizione resa difficile dai sussidi energetici dati indiscriminatamente alla produzione con gli idrocarburi e con le rinnovabili, rendendo faticosa la transizione ecologica.

Molti gridano che il Mondo è “sull’orlo della catastrofe climatica” o ancora “Il nostro pianeta è ancora al pronto soccorso” (António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite).

Avvertimenti, tante parole, ma la Terra e gli esseri viventi che la abitano sono in balia dei caprici dell’industria dei combustibili fossili.

Nell’articolo di Damian Carrington, “The 1.5C climate goal died at Cop27 – but hope must”, sul Guardian https://www.theguardian.com/environment/2022/nov/20/cop27-summit-climate-crisis-global-heating-fossil-fuel-industry?CMP=Share_AndroidApp_Other si lascia intravvedere un filo di speranza, non è sufficiente ridimensionare timidamente l’utilizzo del carbone se non si intensifica l’impegno a non utilizzare il petrolio e nell’industria.

Anche se alla Cop27 è naufragato l’impegno di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5°C, ciò non significa arrendersi.

Esiste ancora una speranza, anche se le maggiori economie devono impegnarsi ad ulteriori tagli alle emissioni di carbonio.

I combustibili fossili sono l’ostacolo alla sopravvivenza del genere umano, perché la Terra si riprenderà dopo un Mabul, un diluvio universale, con la scomparsa di molte persone, con una nuova flora rigogliosa e con una diversa fauna e degli umani temprati agli habitat sfavorevoli. Sarà la soddisfazione darwiniana di quello che rimarrà degli 8 miliardi di persone su questa Terra. Forse non sarà necessario un nuovo Mabul, saranno le persone a maledire la Terra.

Quando si deciderà a concentrarsi sulla prevenzione potrebbe essere tardi e una delle prossime generazioni, dopo alternanze repentine delle temperature, potranno fronteggiare un’alluvione di dimensioni bibliche e la natura si difenderà dalla presenza Antropocenica.

Se la Cop egiziana è stata influenzata dalle alleanze regionali, ancor di più quella che si svolgerà a Dubai, uno tra i maggiori esportatori di petrolio al mondo, senza tener dell’indifferenza che entrambi i paesi hanno per i Diritti umani.

Philip Colbert: Dalla Dolce Vita a Parco Gioghi

Sono lontani gli anni della Dolce Vita e sembra archeologia l’intervento di “impacchettamento” Porta Pinciana che Christo realizzò nel 1974.

Un intervento che mise in luce via Veneto da una parte e Villa Borghese dall’altra, ora la via della Dolce Vita e le Mura Aureliane diventano, per la seconda volta, l’ambientazione per mostrare delle opere giocose.

Ad un anno dall’allestimento degli umanoidi di Erwin Wurm è ora la volta delle aragoste e cactus umanizzati di Philip Colbert.

Sculture giocose, capaci di rallegrare l’infanzia e diventare un’attrazione turistica capace di occultare il degrado che nelle vicinanze soffocano le Mura Aureliane, confondendo un intervento di arte pubblica con uno spot pubblicitario.

Collocare le ingombranti e ironiche realizzazioni del Neo Pop Surrealista Philip Colbert sui marciapiedi e addossate alle antiche Mura si potrebbero confondere come arredo urbano, ma sono un divertente trionfo di colori e forme.

Le realizzazioni di Philip Colbert, come quelle di Erwin Wurm, sembrano una continuazione dei lavori di Jeff Koons, sensibili all’arredo.

Un emulo della pop-art che salta dai grandi formati all’intangibilità del digitale (NFT), Philip Colbert rimane fedele alla sua vocazione di designer di moda e arredi.

Un’iniziativa espositiva che rientra nella strana idea di “Roma Contemporanea”, immaginata dalla dal Municipio I, per un dialogo tra il passato e il presente, così per tre mesi le sgargianti opere potranno stimolare la ilarità dei passanti.

Ben diverse sono gli esempi di arte pubblica ambientate nel verde come Villa Borghese con Back to Nature, ideata da Costantino D’Orazio o alla londinese Frieze Sculpture a Regent’s Park, mentre una riflessione andrebbe fatta sull’arte contemporanea in ambientazioni archeologiche come le sculture di Giuseppe Penone alle Terme di Caracalla o nel Parco archeologico del Colosseo con le videoinstallazione di Laurent Fiévet e le sculture che Giuliano Giuliani dedica, in forma astratta, al paesaggio delle Marche.

Ma è proprio necessario instaurare un “vero” dialogo tra contemporaneo e passato, quando il presente è tale per la storia alle sue spalle?


Philip Colbert
Dal 6 ottobre 2022 all’8 gennaio 2023

Via Vittorio Veneto
Roma


Il “Cisternone” abbandonato di Villa Borghese

Terra secca, ciuffi sparuti d’erba e non siamo sulle rive del Po in carenza d’acqua, ma nei pressi dell’hotel Parco dei Principi, dove negli anni ’20 venne edificato il cd  “Cisternone”con la fontana del Sileno, ma più comunemente conosciuta come quella del  “Cisternone”.

Non è il periodo di carenza dell’acqua ad offrire uno spettacolo di arrido abbandono di un’area di Villa Borghese, non lontana dall’omonima Galleria, ma la facilità con la quale l’Amministrazione Capitolina preferisce transennare un edificio che mostra qualche debolezza, piuttosto che impegnarsi al recupero e alla manutenzione di una costruzione suggestiva nel suo strano connubio eclettico delle massicce forme assirobabilonese con dei brividi rinascimentali barocchi, per dimenticarlo del degrado.

Decoro urbano non si può identificare con il vietare o ostacolare le persone a sedersi sugli scalini per mangiare in panino quando le Amministrazioni non curano gli spazi e gli edifici

L’architetto Raffaele de Vico e l’ingegnere Pompeo Passerini mai avrebbero potuto pensare, quando lo realizzarono tra il 1922 ed il 1925, che il serbatoio dell’Acqua Marcia non avrebbe più effettuato l’approvvigionamento idrico di Villa Borghese, per profondare nel degrado e nell’incuria.

È ironico che su di una delle facciate dell’edificio è scritto Novo Urbis Decor (la nuova bellezza della città), con il suo fascino “blasé”, annoiato e indifferente nel aver perso la sua attrattiva con le fontanelle private dell’allegro zampillare dell’acqua.

Sarebbero stati utili, in questo periodo, i litri d’acqua della cisterna, forse, nell’ambito del progetto “Caput Mundi” e tra i 335 provvedimenti pensati come un’opportunità per fare Roma bella grazie al Pnrr e in coincidenza con il Giubileo 2025, il commissario straordinario per il Giubileo e sindaco di Roma Roberto Gualtieri troverà spazio, nella linea d’intervento denominata “Mi tingo di verde” (parchi, giardini storici, ville e fontane) anche di intervenire sul “Cisternone” tra i molti siti poco conosciuti da valorizzare.

Il mistero della Sfera bronzea

Il complesso ospedaliero del San Camillo oltre ad annoverare edifici chiusi, inutilizzati anche come discarica per suppellettili e attrezzature varie, aree verdi senza decoro, ha anche un mistero di arte contemporanea.

Una sfera bronzea collocata al centro di quello che doveva essere un luogo d’incontro davanti al Padiglione Puddu, ma che l’erba incolta lo ha reso un mondezzaio, tanto da usare uno dei vuoti della scultura come deposito di buste di plastica.

Sulla scultura è presente una targa in ricordo del restauro eseguito da Agostino Ragusa nel maggio 2019, per commemorare gli oltre 15 anni di attività della AOSCF (Aziena Ospedaliera San Camillo-Forlanini) congiunta alla Ong VPM (Voci di Popoli del Mondo), ma non l’autore.

La Ong VPM è impegnata nella cooperazione internazionale allo sviluppo in Africa sub sahariana, documentata nella pubblicazione Health Diplomacy, e il restauro è stato solo l’occasione per pubblicizzare la collaborazione con AOSCF, ma anche per riportare agli splendori degli anni ’70 un’opera sottoposta ad anni d’intemperie, presentando un’ossidazione diffusa con erosioni e infiltrazioni d’acqua stagnante nella struttura interna, che ne compromettevano anche la stabilità.

Una scultura attribuita a Giò Pomodoro, anche se negli archivi di Pomodoro non risulta alcuna documentazione.

Il Dott. Gianluca de Vito della Ong prese a cuore la situazione di degrado, tanto da pulirla dagli aghi di pino e dai vari rifiuti che la fantasia degli operatori e utenti dei servizi ospedaliere abbandonavano anche con cura, magari cercando di occultarli all’interno dalla scultura.

La speranza che la sensibilità, con il buon esempio, verso le opere d’ingegno siano tutelate dall’incuria e dall’indifferenza delle persone verso il patrimonio comune.