Tutti gli articoli di Gianleonardo Latini

RICORDANDO I NICOLINI

Agosto ha visto la scomparsa di due Nicolini, due differenti anime di Roma che casualmente hanno un cognome in comune.

Omonimi a cui Roma deve molto nel ritrovare se stessa nella cultura e nella solidarietà dell’accoglienza.

Renato Nicolini non è stato solo il fautore del risveglio di Roma negli Anni di Piombo con l’effimero dell’Estate Romana, ma ha portato la cultura nelle strade per essere divulgata e coniugata alla quotidianità. Un architetto chiamato a gestire le politiche culturali del Comune di Roma con tre diverse Amministrazioni di sinistra (Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere), uno spirito forse troppo indipendente per essere capito ed amato da tutto il Partito Comunista Italiano riuscendo in una decina d’anni (1976 – 1985) a cambiare l’immagine di Roma.

Fece uscire il teatro sperimentale come quello tradizionale dai suoi luoghi deputati per una ristretta cerchia di appassionati e portarlo nelle piazze. Favorì l’apertura dei musei al contemporaneo facilitando l’incontro tra i possibili fruitori e realizzatori. L’arte contemporanea diventa consuetudine e Renato Nicolini offre ad Achille Bonito Oliva l’occasione per divulgare gli artisti e le correnti sino ad allora celate nelle gallerie o nei musei d’oltralpe. Le biblioteche hanno cominciato a trasformarsi da polverosi depositi nei sottoscala delle scuole con stantii libri a luoghi dove trovare testi per lo studio e per il tempo libero. La gestione passa dai bidelli e insegnati ai giovani organizzati in cooperative specializzate in biblioteconomia per promuovere la lettura con le più varie iniziative dimostrando che la cultura, come lo spettacolo, si può “mangiare” e far mangiare. Un risveglio per Roma non solo culturale, ma soprattutto lavorativo.

È limitativo definirlo comunista, ma era un comunista che praticava l’utopia fuori dall’organicità di partito, come fuori dall’omogeneità della Curia romana era don Bruno Nicolini scomparso a distanza di pochi giorni da Renato, che ha fatto dell’accoglienza il suo impegno di vita. Dedico ‘50 anni della sua vita al popolo dei Rom e Sinti promuovendo l’Opera Nomadi alla loro comprensione nell’ambito vaticano sino all’incontro dei Rom europei con Papa Benedetto XVI in San Pietro nel giugno 2011.

L’ultimo periodo di vita Don Bruno l’ha trascorsa in una casa della Comunità di Sant’Egidio.

L’anima laica e quella religiosa protese verso la condivisibilità sia della cultura che della solidarietà. Il primo impegnato a offrire nuovi significati della contemporaneità e l’altro dando l’esempio a indicare come porsi verso il prossimo.

Due anime scomode in una Roma che distrattamente ha dato l’ultimo saluto capitolino a Renato con presenze più di forma intellettuale e politica con alcune persone ancora scettiche del ruolo propositivo, mentre per don Bruno l’ultimo saluto è avvenuto senza glamour a Santa Maria in Trastevere con le parole di don Matteo tra i meno favoriti dalla vita e tra gli amici che hanno condiviso con lui la difficile strada dell’amore.

Entrambi, felici di aver vissuto, hanno dato visibilità a un’altra Roma fuori dall’ipocrisia di ogni apparato anche se fra qualche giorno per molti sara’ solo passato.

MALI DEL SAHEL

La crisi umanitaria che si è abbattuta sul Sahel ha aspetti biblici con gli oltre 18 milioni di persone che affrontano la carestia, aggravata dagli sciami di cavallette, tra colera e l’instabilità politica, oltre all’approssimarsi della stagione delle piogge che metterà in pericolo quel poco di raccolto sino ad ora salvato.

Una crisi alimentare inasprita dalla siccità che sta colpendo non solo l’Africa, ma anche l’ Europa, con l’88% delle coltivazioni di mais statunitense, la  Russia e l’Ucraina, riducendo il raccolto dei cereali, con le prospettive di una produzione insufficiente anche per sfamare la parte privilegiata del mondo “saziato”.

Una siccità che ha preoccupato Parigi e Washington, anche se i prezzi non hanno ancora raggiunto i livelli del 2008, tanto da fissare una videoconferenza per il 27 agosto, coinvolgendo i G20 e numerose agenzie intergovernative tra cui la FAO e l’OCSE.

Una riunione che non ha dato nessun risultato, forse i partecipanti sono stati rincuorati dal fatto che l’aumento dei prezzi del mais e della soia non è così preoccupante come poteva apparire, da poter mettere in pericolo la sicurezza alimentare mondiale ed essere occasione di rivolte di piazza, ma la continua mancanza di determinazione di organismi internazionali è sconfortante.

Se il prezzo del riso è stabile e scorte di frumento non ha raggiunto livelli allarmanti, meno tranquille sono le prospettive per la produzione prodotti direttamente influenzati dalla perdita dei raccolti di mais e soia, come la carne e il latte, ma tutto è rinviato probabilmente a Roma, a fine settembre, in occasione del passaggio della presidenza dell’AMIS (Agricultural Market Information System) dalla Francia agli Stati Uniti. Un panorama più definito della situazione alimentare si potrà avere con la pubblicazione del rapporto USDA – WASDE del prossimo 12 settembre e con gli andamenti speculativi dei mercati nei confronti delle Commodity Futures agricole.

È il mercato finanziario che riesce a trarre profitto dalle devastazioni delle cavallette e dall’instabilità politiche della Libia post elettorale, oltre che dagli scontenti popolari per l’irretirsi dei cambiamenti promossi dalle diverse formazioni filoislamiche che guidano la Tunisia come l’Egitto.

Essere islamico o solo un simpatizzante sembra non essere più una discriminante per la salvaguardia della pacifica convivenza opponendosi agli estremismi, come dimostrano  le iniziative intraprese dal presidente egiziano Morsi con l’offensiva lanciata contro la strategia terroristica dei jihadisti nel Siani, attaccando i gruppi armati e distruggendo i tunnel del contrabbando verso Gaza.

Iniziativa non riuscita all’autoritario Mubarak che giocava sull’ambiguità per tenere l’Occidente sotto “ricatto”. Morsi sembra che non debba fare questi giochetti: l’Egitto riceve finanziamenti europei e statunitensi oltre che sauditi e questo influenza le scelte politiche e di campo.

In Libia si è passati dai conflitti a fuoco tra milizie agli attentati contro le forze di polizia sino all’assassinio del generale Mohammed Hadiya Al-Feitouri, ucciso a Bendasi al termine della preghiera del venerdì in moschea. Non è il primo ex ufficiale di Gheddafi che si era unito all’opposizione, alcuni giorni prima la stessa sorte era toccata all’ex colonnello dell’intelligence militare, Suleiman Bouzrida. Due omicidi che hanno dato autorevolezza all’affermazione del primo ministro uscente Abdurrahim El-Kib, rilasciata in una recente intervista a Time Magazine, intesa a rivolgere l’attenzione verso i fedelissimi di Gheddafi come artefici dei recente omicidi e non, come è opinione diffusa, ai jihadisti. L’intervista è ricca di spunti di riflessione su quale sia la realtà dell’attuale Libia e del suo futuro.

Probabilmente anche gli attentati contro gli stranieri, come l’attacco al convoglio dell’ambasciatore britannico rimasto illeso, non sono opera di milizie.

Se la Libia fa conoscenza con la democrazia a sud il Mali la perde e vive i tormenti del dopo golpe e dell’attività separatiste nella parte settentrionale, non permettendo il monitoraggio dello sciamare delle cavallette e l’impossibilità d’intervenire efficacemente per salvaguardare le colture dell’area, compresi i datteri che nel deserto hanno il loro habitat.

La penuria alimentare e i conflitti stanno costringendo, oltre a spingere i prezzi al rialzo, centinaia di migliaia di persone a migrare in cerca di posti dove potersi sfamare e sentirsi al sicuro.

Mentre nel Mali il governo ad interim è impegnato a fronteggiare i soldati che hanno destituito a marzo il precedente governo, la ribellione Tuareg ha reso l’infiltrazione dei gruppi islamisti nella regione una vera presenza d’occupazione, rendendo la situazione nel nord  sempre più oscura.

I gruppi islamisti impongono la Sharia in ogni città conquistata, la musica è bandita dalle radio locali, modello dell’Afghanistan talebana, le donne rischiano di essere picchiate se trovate con il capo scoperto, mentre la fustigazione e la lapidazione sono una pratica giuridica, come nel caso della coppia che ha avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio.

Una situazione che mette in discussione l’edizione del 2013 del Festival au Désert, già pubblicizzato sul sito ufficiale, che ogni anno sin dal 2001 si svolge a Essakane, a 65 chilometri da Timbuctu, per festeggiare internazionalmente la musica, le danze e i giochi legati alla tradizione tuareg.

Il commercio, tra saccheggio e terrore, non esiste più, ogni servizio amministrativo e bancario è stato bandito, rendendo Timbuktu ora una città fantasma.

La furia iconoclasta degli islamisti di Ansar Dine e di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) si è accanita su tombe e mausolei, un bene dell’umanità riconosciuto dall’Unesco in nome dell’Islam radicale.

Ma anche chi auspica uno stato islamico ispirato dalla Sharia preferirebbe che sia una scelta e non un’imposizione di un gruppo armato il rifiuto di un’organizzazione sociale laica e dei modelli occidentali.

In questo tragico panorama un barlume di ottimismo viene dall’accordo preliminare tra Sudan e Sud Sudan sulla ripartizione dei proventi petroliferi. Una controversia sulle tasse di transito del petrolio verso un porto sudanese che all’inizio di quest’anno aveva messo in serio pericolo la già precaria pace.

La mancata estrazione ed esportazione del petrolio influenza l’oltre l’80% del bilancio del Sud Sudan e circa il 50% di quello del Sudan, mettendo in crisi delle economie fragili. A Khartoum si sono svolte sin da gennaio numerose manifestazioni contro l’aumento dei prezzi, mentre il governo di Giuba deve affrontare una crisi umanitaria con migliaia di rifugiati provenienti dal Sudan senz’acqua. Il Sud Sudan è ricco di petrolio, ma non si può bere e se non è esportato non permette di avere i proventi da investire nelle infrastrutture per migliorare le condizioni di vita della popolazione e non fomentare la corruzione ad ogni livello. Una crisi umanitaria che i Medici Senza Frontiere cercano di porre rimedio nei campi profughi, dove quotidianamente muoiono bambini malnutriti.

Così anche nel Mali soffrono di fame e di sete centinaia di migliaia di bambini, esposti a un gravissimo rischio malnutrizione e dove Save the Children è impegnata ad affrontare una crisi alimentare crescente innescata dalla scarsità dei raccolti, l’aumento dei prezzi alimentari e l’insicurezza nei paesi vicini.

La ricerca della salvezza ha attivato dei flussi migratori interni incontenibili, innescati dai conflitti, aprendo le porte agli altri tre Cavalieri dell’Apocalisse: Carestia, Pestilenza e Morte.

NUOVI EQUILIBRI PER TUTELARE LA DEMOCRAZIA

Il nuovo esecutivo egiziano è stato il risultato di equilibrismi politici, cominciando con la scelta che il presidente Mohammed Morsi ha fatto affidando l’incarico di premier a Hisham Kandil, un tecnico già gradito ai militari, nel formare il governo, proseguendo con l’accettare due donne di cui una cristiana e cercando di limitare la presenza dei Fratelli musulmani.

L’Egitto sembrava avviato verso una convivenza di non belligeranza tra il potere politico e quello militare in una forma di reciproco controllo affidando il ministero della Difesa al federmaresciallo Hussein Tantawi, responsabile del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), ma l’armonia tra l’anima religiosa e quella laica sembra finita.

In pochi giorni Tantawi passa da ministro a pensionato e sostituito dal generale Abdel Fattah Al-Sisi ed anche il capo di stato maggiore Sami Anan viene messo a riposo e rimpiazzato dal generale Sidki Sobhi; ad entrambi è stato affidato l’incarico di consiglieri presidenziali.

Un avvicendamento all’interno delle Forze armate senza riuscire a capire se sono state delle punizioni o delle ricompense, ma forse Mohammed Morsi ha semplicemente applicato l’antico adagio che consiglia di tener vicini gli amici ma ancora di più i nemici, facendosi più audace con la cancellazione delle limitazioni che l’Esercito aveva posto ai poteri del presidente.

Destituzioni e destinazioni a nuovo incarico sono caldeggiate dall’incapacità di fronteggiare i continui scontri tra egiziani musulmani e quelli cristiani copti. Uno degli ultimi scontri, scatenato da una camicia rovinata in una lavanderia, ha portato all’uccisione di una decina di poliziotti al posto di frontiera Kerem Shalom con Israele.

L’effetto reale di queste scelte si potra’ soppesare solo nei prossimi giorni, ma di sicuro nel Governo non ha trovato posto chi è sceso in piazza Tahrir.

Ora l’Egitto deve affrontare la situazione economica e garantire sicurezza al turismo, sua maggiore fonte d’introito, portando Morsi a rispondere con risolutezza alle scorrerie jihadiste nel Sinai e interrompe il contrabbando e il transito di terroristi attraverso i centinaia di tunnel che collegano la zona di Rafah e Gaza. Il controllo del transito è stato uno dei tanti fallimenti dell’autoritario Mubarak che giocava sull’ambiguità, tenendo l’Occidente sotto “ricatto”. Morsi sembra che non debba fare questi giochetti: l’Egitto riceve finanziamenti europei e statunitensi oltre a quelli sauditi e questo facilita una via pragmatica nel governare, almeno sino a quando non troverà altre fonti di aiuto economico.

Un pragmatismo che sembra mancare alla nuova classe politica che sta impostando il futuro della Tunisia con delle scelte impopolari del partito islamista Ennahda (al-Nahda) di governo sulla messa in discussione dello status delle donne. Nella metà degli anni ’50 grazie alla visione modernista di modello sociale Habib Bourguiba adottò un testo progressista per il mondo arabo di allora come d’oggi con il Codice sullo status personale (Code du statut personnel – CSP). Una scelta che aveva rivoluzionato i rapporti familiari e che ora viene messa in discussione con modifiche costituzionali, trasformando la parità tra donna e uomo in “complementarietà”, ribadendo sia il ruolo dello Stato come garante dei diritti e sia le pari opportunità delle donne, ma “all’interno della famiglia”. Un’incongruenza dialettica nel controverso articolo 28 che ha portato a manifestare per le strade di Tunisi come a Sidi Bouzid, la culla della rivoluzione, per non trasformare la parità in complementarietà.

NEGLI OCCHI DI UN SIRIANO

A Roma sono numerose le persone provenienti da aree in conflitto, ma quando è giunto Sahl il risveglio arabo non aveva dato ancora dei segnali e in Siria la vita trascorreva tranquilla come possono essere delle giornate in uno stato autoritario.

Ora è lontano e racconta com’erano belle Homs e Aleppo con i suoi 3.000 anni di storia e tutta la Siria, parole sommesse con uno sguardo che esprime tristezza e rassegnazione. Racconta dell’ospitalità della popolazione e della cucina mediorientale con dolci ai pistacchi e alle mandorle, il cardamomo che aromatizza il tè e il caffè.

Le presenze di un antico passato in tutta la Siria e del monastero di Deir Mar Musa al-Habashi (Monastero di san Mosè l’Abissino), nel deserto a nord di Damasco, rifondato da Padre Paolo Dall’Oglio per facilitare il dialogo interreligioso con il mondo musulmano, di Palmira e della regina Zenobia, della Via della Seta.

Un siriano da anni a Roma che si domanda se la democrazia, non tanto la libertà, deve avere morti e distruzione sulla coscienza. Gli occhi sono lucidi e più parla e più la voce tradisce la commozione e l’angoscia per i familiari e i conoscenti che sono in Siria.

Chi è rimasto a Homs, ora che è stata martoriata, non dovrebbe essere più in pericolo; la violenta attenzione del potere è in altre direzioni.

Nella ribellione in Siria non vi era nulla di preordinato, nessun piano insurrezionale, solo una manifestazione dopo l’altra per esprimere lo scontento e le successive repressioni fino a giungere in una situazione di non ritorno per una riconciliazione.

La popolazione che gridava il proprio scontento non poteva fermarsi perché ciò significava andare incontro a rappresaglie, alla quotidiana minaccia di essere individuati come nemici dello stato con la possibilità di sparire nelle carceri del regime.

Uno scontento dalle diverse anime, disorganizzato che tenta di trovare una sintesi in un coordinamento, per sottrarsi dall’essere uno strumento armato dai sauditi o dai turchi. La Siria come un campo di battaglia per affermare l’egemonia dell’Arabia saudita o dell’Iran, non è una guerra tra fazioni islamiche, non sono i sciiti alauiti contro i sunniti, ma la trasformazione in quella procura tra la via sciita iraniana e quella sunnita saudita. Il regime di Assad riceve armamenti dalla Russia ed addestramento dall’Iran, mentre il variegato fronte antigovernativo ottiene aiuti dai Paesi del Golfo e l’Occidente stimola le defezioni tra le file governative.

La Siria garantiva gli interessi geopolitici di molti stati nell’area, soprattutto lo status quo che dal conflitto arabo israeliano del 1973 ad oggi aveva assicurato, nonostante le periodiche rivendicazioni, di volerne ritornare in possesso sulle alture del Golan.

Un conflitto che offre molte occasioni per lucrosi affari e non solo nella vendita di armi, ma soprattutto nel settore immobiliare e degli idrocarburi nell’ambito del mercato nero. Non è solo l’arte di arrangiarsi; chi ha dollari ed euro compra di tutto: un ristorante, ora raramente frequentato, in una buona posizione, in attesa che torni la quotidianità del turismo. Come avvoltoi si approfittano delle famiglie in crisi per acquistare a prezzi di svendita appartamenti in zone residenziali, riponendo una nuova Siria senza quartieri completamente sunnita o alauita e in questo rimescolamento, se Damasco non sarà rasa al suolo, saranno i proprietari d’immobili a vedere incrementati i loro investimenti, senza contare poi il traffico di opere d’arte. Una Siria in svendita con tante vittime.

Un’opposizione divisa tra quella laica, religiosa e dei giovani che per ora combattono senza aver ancora scelto il campo nel quale schierasi per confrontarsi sul futuro della Siria e il ruolo che avrà Al-Qaeda e quello dei pacifisti nel far tacere le armi. L’ottimismo riposto nell’ambiziosa riunione romana di luglio presso la comunità di Sant’Egidio non ha portato ad una semplificazione, con l’unificazione delle undici formazioni partecipanti, dello schieramento che si oppone al regime di Assad.

Un futuro che mostrerà, a fine conflitto, Aleppo come Homs simili a Mogadiscio o Sarajevo e con l’impossibilità di una ritrovata convivenza tra i siriani.

UNA FINANZA FATTA DI PAROLE

Il web è sicuramente uno strumento d’informazione condivisa, l’e-mail è meno pubblica, ma arrivare tramite i social network ad una comunicazione personalizzata evidenziando la solitudine nella quale una gran parte di persone sono sprofondate rasenta il chiacchiericcio.

Ora il chiacchiericcio sociale di Facebook è stato quotato in Borsa trovandosi in compagnia degli altrettanto eterei Zynga per il gioco condiviso e Groupon per incrementare gli acquisti online di ogni genere.

Sono lontani i tempi immortalati da un film come Una poltrona per due (di John Landis con Dan Aykroyd, Eddie Murphy e Jamie Lee Curtis) del 1983 dove i raggiri della finanza si facevano sul raccolto delle arance o sulla produzione della pancetta e  non su quanti click di mouse si effettuano su di una icona per calcolare quanti possibili utenti potrebbero avere la pubblicità in quel sito web.

Appare impossibile che Facebook possa contare su centinaia di milioni di abitanti annoiati che vagano sulla Terra per permettere con le loro facezie a far vivere comodamente, nonostante un calo degli utili iniziato con un preoccupante meno 12%, a Mark Zuckerberg e alla banca d’affari Goldman Sachs sua partner.

Un calo che si è trasformato in un tonfo che ha coinvolto altri prodotti del web facendo suonare il campanello d’allarme a Nasdaq e c’è chi vede i presagi di una nuova crisi finanziaria che, come nella bolla speculativa dei beni tecnologica di fine millennio, anticipa la bolla immobiliare.

Quale vocabolo può meglio descrivere l’umiliazione subita da azioni che nell’arco di alcuni mesi hanno perso metà della loro quotazione iniziale: crollo, tonfo, forse boom.

Facebook è come Damien Hirst: è un nulla quotato in Borsa con la differenza che l’artista inglese può contare su un esercito di sostenitori, tra galleristi, critici e collezionisti, che continuano a soffiare dentro la bolla per tenerla a galla senza farla scoppiare.

Tra tanto annaspare solo LinkedIn, social impegnato a mettere in contatto professionisti in diversi campi, appare ancora in buona salute in un ambiente che basta un sussurro o un vigoroso discorso a determinare i sali e scendi dei propri titoli.

Sono le tre sorelle del rating, nemiche dell’economia reale con i loro conflitti d’interessi, che meritano l’attenzione della magistratura italiana e dell’Unione europea per le loro avventate esternazioni.

Volubili Borse che periodicamente subiscono accordi vietati ad operare con transazioni allo scoperto che permettono di speculare senza possedere la valuta necessaria per l’acquisto di un bene o di un servizio perché viene immediatamente rivenduto.

È un po’ come il gioco del cerino: perde chi rimane per ultimo con la fiammella che brucia tra le dita.

Sono i Commodity Futures, come in Una poltrona per due, a permettere alla finanza di guadagnare scommettendo su cereali e petrolio pagando a posteriori.

Tra questa moltitudine di annoiati ci sono anche persone che utilizzano i social network per esternare il disagio verso una società opulenta che, nel suo essere una minoranza, detiene la proprietà della maggioranza delle ricchezze del Mondo.