Tutti gli articoli di Luigi M. Bruno

Post d’Arte: da Antonello al superamento della pittura

Antonello da Messina
A proposito del “San Girolamo nello studio” di Antonello da Messina… lo splendore dell’umana intelligenza qui raggiunge la sua vetta…. ragione e sentimento qui si coniugano nella totalità di una sapiente bellezza…

Teatralità nel seicento
Oltre a grande maestro di plasticità chiaroscurale il Merisi fu anche figlio del suo tempo nel senso drammatico della teatralità: il seicento fu il secolo del teatro, dalla concitazione del Bernini e di Borromini, fino a Shakespeare Moliere e Tirso de Molina e l’invenzione tutta italiana del melodramma. Ammirare un dipinto di caravaggio vuol dire anche assistere a un vero e proprio evento teatrale corredato sempre, fra l’altro, da sapienti fonti di luci non naturali, come appunto da scenografia di interni ( nei suoi dipinti e’ rarissima l’introduzione della luce esterna, naturale, e questo crea ogni volta l’effetto di una azione scenica).

La rigidità botticelliana
Però il Botticelli… per carità: bellezza assoluta, nitore e limpidezza, splendore cromatico… ma… come un sospetto di rigidità quasi sovrumana, una beltà fredda e distaccata, il ripetersi di uno schema sublime che certo incanta ma forse non commuove..

La gioia per la vista
La pittura del Veronese è pura gioia visiva, nobile cibo per gli occhi, pittura tattile e corposa di un eros totale verso la materia: non apparenza ma sostanza della realtà.

Le icone nell’arte
… la Kahlo… e poi la Lempicka… o chi altri, Basquiat o Koons o altri “santoni” alla ribalta. A parte il loro valore intrinseco, secondo me piuttosto limitato, sono figure che per varie ragioni risentono di un richiamo, una tendenza, o se preferite semplificare, una “moda” che le porta un po’ sull’altare della celebrità fino a farne icone di alcune ragioni politiche, sociali, umane di una cultura che di volta in volta necessita di “manifesti” e di volti come punti di riferimento emozionali…niente di male. Della Kahlo e della sua pittura “primitiva” e piuttosto crudele ho già detto altrove, della Lempicka celebrata come eroina della ambigua libera sensualità e di un certo femminismo ante Litteram, a proposito della sua pittura mi piace ricordarla come una piacevole e decorativa volgarizzazione di certa avanguardia novecentista, tra Braque e d’Annunzio, una “cubista” (nel senso pittorico) da salotto.

Marina Abramović: Quando non serve dipingere
La china in discesa è senza fine! Archi di trionfo e corone d’alloro alle cosiddette “performer” mentre sono più neglette (se non ridicolizzate) tecnica, capacità espressiva,valenza estetica, lavoro di ricerca e approfondimento pittorico… tutte cose inutili e “sorpassate”… non so quando e chi mi disse: “ma tu disegni ancora?..a che serve? … ma guardati intorno!”.. mi sono guardato intorno, eccome! E il paesaggio è deprimente questi esempi di trionfalismo delle “geniali” trovate concettuali sono la tomba di chi ancora crede nell’arte e nel suo rigore… fra l’altro questo dà sempre mano libera e fornisce alibi formidabili all’esercito infinito di dilettanti allo sbaraglio,pur del tutto incapaci,ma forniti di granitica presunzione…
È proprio vero: a che serve ancora disegnare e dipingere?

Post d’Arte: da Pollock a Frida

Pollock e Hopper

Ecco le due anime fondamentali dell’estetica americana: Pollock e Hopper… Una ne rappresenta la tendenza, pur infantile e primitiva, alla dissoluzione e autodistruzione, con tutte le sue componenti romantiche e nichiliste di proporsi aldilà di ogni schema e ogni limite… L’altro è l’anima del radicato conservatorismo e tradizionalismo legato ai valori d’appartenenza fondamentali: la propria terra, la cultura ereditata e la sostanziale fiducia nel senso concreto del proprio esistere, pur con tutte le incertezze e malinconie inevitabili…

La matita di Seurat

I disegni di Seurat. Magnifici disegni. In questo caso più che di “puntinismo” si dovrebbe parlare di “diffusismo” in cui la materia si sfibra e si ricompone nella vibrazione della luce attraverso un tessuto vivo nel quale l’elemento figurativo ritrova la sua magica dimensione.

Whistler l’arioso

Whistler. Ecco, questo è un pittore che ho sempre amato: modernissimo, originale, intenso, soffuso di una malinconia tutta sua. Egli supera l’impressionismo nelle sue atmosfere evanescenti e crepuscolari… come fosse un Turner redivivo passando dalla cosmica solarità dell’inglese alle penombre intessute di silenzi e solitudini notturne irrimediabili.

Postraffaelliti?

C’è qualcosa nel manierismo di eccessiva accentuazione estetica e pronunciata raffinatezza formale che fa pensare irresistibilmente agli ideali formali dei preraffaelliti.. .in effetti questi artisti avrebbero dovuto chiamarsi più giustamente “postraffaelliti!”

La bellezza del paesaggio

Non mi stancherò mai di elogiare la bellezza, nei dipinti dal ‘300 al ‘500, degli sfondi paesaggistici: invenzioni di volta in volta fantasiose, elegiache, nitide di una luce incorrotta, quasi favole originali che suggeriscono il desiderio di rievocare un mondo perfetto, un giardino edenico, una natura segnata dal divino.

Rodin: il flusso del sentire

Tutto in Rodin è puro erotismo, beninteso come pura sacralità dell’esistere: sentire, sentire, sentire le manifestazioni della vita come flusso irresistibile e prepotente, e la vita stessa come eterna primavera crudele e vitalissima, e in questa totale aderenza dell’artista alla vita in quanto tale è appunto la sacralità del suo eros necessario e irresistibile che in tutte le sue opere si manifesta.

Frida Kahlo

La pittura della Kahlo risente di quella cultura che fu precolombiana e che è ancora viva in quelle genti, cultura per un verso ricca e raffinata, e per altro crudele e sanguinaria. Nella sua pittura ci sono tutte le componenti di quel mondo violento e carnale: il cromatismo feroce senza mezze misure, la naturalità spietata del corpo vista nella sua elementarietà, tutte componenti di una natura si’ bellissima ma terribile ed eccessiva come quel clima. Una cultura che ancora risente di un primitivismo affascinante ma che reca in se’ l’eredità di antiche barbarie, e in questo è la gioia infantile e la pena dell’esistere espresso dalla Kahlo,

Post d’Arte: da Botero a Rigaud

La storia dell’Arte, tutta la storia di tutte le arti è fatta di incalcolabile, sublime narcisismo… Narcisismo tragico e possente (non querula vanità) per trasformare appropria immagine e somiglianza qualsiasi realtà. Cosicché il mondo, da futile e fugace apparenza, diventa sostanza e carnale riflesso della nostra anima riassumendosi nei disperati specchi dell’artista… Egli si effonde nell’universo e in sé lo racchiude, traducendolo dall’abisso dell’enigma nella certezza vicina e concreta del nostro dolore. Che altro c’è?… Il resto è obiettivo di cronaca mediocre, arte minore, decorativa cialtroneria.

(da “Zibaldone privato“- giugno 1995)

Il minore Botero

Non molto tempo fa (mi sembra fu’ in una trasmissione di Maurizio Costanzo) si definì Botero il più grande pittore del novecento: giudizio a dir poco avventato se si pensa al foltissimo drappello di artisti del secolo di alta o altissima qualità espressiva (Balla, Boccioni, Sironi, Morandi, Afro ecc., solo per restare in casa nostra)… Botero, al massimo, con la sua pittura sacrificata ad un livello di ripetitività satirica (gli eterni ciccioni) può aspirare a definirsi come curioso “minore”, una specie di Arcimboldo dei nostri tempi, in un ambito ristretto ad una originalità aneddotica.

Crivelli e il crudelismo

In Carlo Crivelli l’esigenza espressionista (per quel che noi intendiamo espressionismo) e’ una dimensione talmente scoperta e inderogabile da rasentare il “crudelismo” di una umanità urlante e vulnerabile fin nelle sue fibre intime… una umanità lontanissima, pur contemporanea, dagli olimpici equilibri quattrocenteschi.

Moreau  o Redon

Moreau, il campione di un simbolismo fine secolo un po’ “pompier”, un po’ sovrabbondante di orpelli e vezzi erotici… molto più interessante il simbolismo decisamente surreale di Odilon Redon.

La rusticità di Utrillo

Amo la pittura di Utrillo… la sua tecnica e’ elementare, spesso ingenua, quasi infantile… ma i suoi colori sono stemperati in un diluente poetico di forte intensità emotiva. la sua Parigi fatta di vecchie stradine di periferia, di rusticità campestri, di antichi intonaci, in uno struggente clima autunnale, e’ una città rivissuta nella memoria di un autentico poeta, un luogo posto nella regione della irrimediabile nostalgia di un mondo perduto nell’incanto di una stagione che pure fu nostra…

L’onesto Rigaud

Hyacinthe Rigaud (1659-1743), artista di corte sotto il re Sole Luigi XIV… Ecco l’esempio di un artista perfettamente “calato” nel suo tempo e nelle sue esigenze… successo, rinomanza, serenità e una vita lunga e piena di soddisfazioni… a che altro può aspirare un valente pittore? Forse di vivere una esistenza breve e tormentata da genio dannato e “maledetto” come Caravaggio?.. Certo, Caravaggio “resta” nella memoria mentre l’onesto Rigaud chi lo ricorda più?.. Ma importa poi molto?… Se potessi, dite quello che volete, sceglierei senz’altro la vita del buon Rigaud!

Nell’Era del CoronaVirus non diminuiranno i maleducati

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Lorenzo Canova, su Fb, pone il quesito se “Nel mondo dell’arte, e della cultura in generale, andrà ancora di moda fare gli stronzi e i maleducati per sembrare più fighi?”, con quattro possibili risposte.

Stando allo sproloquio imbastito da Filippo Facci, su Twitter, contro Selvaggia Lucarelli, è facile, profetizzare pessimisticamente, che certa umanità continuerà a ribollire di astiosità, ma chiederselo è umano.

Quindi mi chiedo e ci si chiede: perché poi questa moda, usanza, abitudine o come vogliate chiamarla di usare in ambito critico ed esplicativo questo linguaggio da adolescenziale in ritardo? Per sembrare “più fighi” come si enuncia? … Non è questione di esser puri e depurati posando a ridicoli e anestetizzati accademici, si può far satira anche feroce e colpire a fondo, se si vuole, usando l’arma del fine umorismo, ci sono molti modi per ridicolizzare un dilettante presuntuoso o un avventuriero cialtrone… Certo, non possiamo essere tutti Oscar Wilde o Mark Twain, ma senza andar troppo lontano abbiamo avuto in casa nostra penne argute e dissacranti senza l’abuso di ciarpame maleodorante: Marcello Marchesi, Alberto Arbasino, Achille Campanile, Savinio ed altri.

Vi basta?

In definitiva il punto non è che sia necessario scrivere in punta di forchetta come Baldassar Castiglione nè buttarla giù grassa come un Aretino … si può trovare la formula giusta dosando ironia, gusto, equilibrio, sempre sostenuti ovviamente da una base culturale solida e sicura.

Credo che in definitiva sia questa la risposta … e invece si pensa che gridando più forte e sbandierando loquacità da “vaiasse” (serve di infimo ordine in napoletano più educatamente “collaboratrici domestiche”) gli altri ci possano prendere sul serio.

È sempre il dilemma antico che l’urlo da caporal maggiore, anche dicendo fesserie, sia più fruttuoso dell’intelligente risposta magari detta sottovoce.

In fondo è sempre di moda l’esempio del dittatore al balcone: non conta il senso di quel che si dice ma la forza in decibel di quello che urli alla folla.

Così la gente comune tende ad ascoltare e rispettare l’urlatore (“lui sì che si sa far valere!”) e a prendere sottogamba chi usa toni moderati pur criticando efficacemente.

Se si vuol dire, storicamente, l’uso della “parolaccia” per condire il proprio pensiero, fu introdotta per la prima volta dal grande Cesare Zavattini, ahimè pur fine intellettuale ed umorista, che durante una trasmissione in radio, travolto dalla sua passionalità romagnola (o emiliana?), eruppe in un travolgente “cazzo!” … Dopo anni di genuflessa ipocrisia democristiana si applaudì all’efficacia verbale e disinibita dello scrittore.

Da allora e fino ad oggi e chissà per quanto ancora si usa e si abusa a destra e a sinistra del pepe simile e anche peggio del trionfale sostantivo zavattiniano … Dobbiamo dunque rimpiangere la malsana bigotteria e le genuflessioni democristiane? Penso proprio di no.

Perdoniamo volentieri al grande scrittore di aver aperto questo maleodorante vaso di pandora e pensiamo, speriamo, confidiamo, in un futuro ritorno al buon gusto, la misura e “l’humour” a cui ci avevano abituato ben altri maestri.

Mino Maccari Irridente giovenale

Rievocando la “storia” del pittore satirico Maccari, irridente Giovenale, annusando e centellinando le sue vignette umoristiche, i suoi schizzi, i suoi appunti e i suoi rapidi bozzetti, le pagine ingiallite delle sue gloriose riviste di “Strapaese”, guardando le vecchie foto di quei ragazzacci di tanti anni fà, torno a respirare una ventata di quell’Italia irrimediabilmente perduta, di quella generazione ricca di arguta, sapida intelligenza, rumorosa della sua spavalda giovinezza, trafelata, contraddittoria, esaltante, viva, fiduciosa.

Quelle due o tre generazioni che incendiarono l’Europa nei primi trent’anni del ‘900, coi loro colletti inamidati, le loro ghette, i loro ciuffi impomatati: commuove un pò vedere riaffacciarsi quei giorni come una mitica epopea in cui giovinezza, ardore di idee, fantasia vivevano sanguigne e pronte, semplici e coraggiose. Vedere quei giorni che rispuntano attraverso la cornice sbiadita di struggenti fotografie dove volti di crudeli burloni raccontano di antichi scherzi, di giochi e di amori, tratti di penna e improvvisi soggetti che oggi guardiamo sotto il vetro d’una teca, tenere mummie della nostra cultura appena di ieri e appassita dentro i riflessivi sarcofagi dei nostri libri e delle nostre colte e rispettabili retrospettive.

Maccari fù di rapidi tratti e di tagliente battuta, umor sanguigno di toscanaccio nobilitato dal parigino umorismo, abbeverato agli atroci grotteschi espressionisti, un pò “naif” e un pò macchiaiolo, graffiante epigrammatico, ovunque e dovunque pronto alla beffa o al gioco verbale, col suo lucido rasoio intinto di colori crudi, prendendo in giro la pittura celebrativa e accademica, i gerarchi, i salotti, gli artisti in feluca, non risparmiando pizzicotti e affettuose gomitate neanche ai suoi amici (e a sé stesso).

Ora parlare del valore intrinseco, del peso specifico, estetico, del pittore Maccari è secondo me secondario rispetto agli umori di un costume nostro, colto e irriverente, che ha influenzato i migliori anni del nostro paese. Non perché Maccari sia un pittore trascurabile, tutt’altro. Sfatando e negando il solito limite che gli si affibbia di straordinario caricaturista, si ritrova in lui l’ascendenza diretta dei bozzetti macchiaioli intrisi d’aria e di luce, ma anche l’eredità feroce e pungente dei Grosz, dei Beckmann, dei Dix, ma non solo.

Maccari fu una specie di iridescente magnete, di tutto s’incuriosì: pastosità barocche alla Scipione, grigiore di postriboli da “scuola romana”, classicità dechirichiane, furori picassiani, sensualità da artista maledetto, per restituirci poi la grottesca commedia tutta sua di un’Italia, di un costume che ancora oggi graffia e convince.

Forse le nostre stesse facce coi nostri malumori e le nostre ipocrisie, che oggi aguzzano e sorridono ai suoi “balletti” surreali (generali impettiti e coglioni, aridi intellettuali, rispettabili puttane, corrotti e corruttori) fanno già parte di un altro girotondo di maschere, di un’altra filastrocca di personaggi ridicoli e patetici, materia per un altro Maccari, e non ce ne accorgiamo.