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La seconda vita dei libri usati

Ascoltando alla radio i Ricordi di libreria di George Orwell mi sono divertito: figlio di un libraio antiquario, condividevo la delusione di chi lavora con i testi antichi, rari o esauriti e inizialmente crede che tali librerie siano frequentate da bibliofili e collezionisti, salvo prendere atto che entrano per lo più perditempo, ladri di libri e studenti che tirano sul prezzo dei manuali. Personalmente avevo stabilito una regola: se dopo la terza volta lo sfaccendato usciva senza aver comprato almeno un opuscolo, allora non gli rivolgevo più la parola o lo facevo educatamente uscire. Uno addirittura si giustificò affermando di essere “un pensatore strutturale”. Una libreria è un esercizio commerciale (negotium, il contrario di otium); può anche diventare un cenacolo di cultura, ma non una biblioteca pubblica, perché al libraio non arriva lo stipendio a fine mese, ma campa con la merce che vende. La libreria Feltrinelli alla fine levò le poltroncine “di prova”: la gente leggeva i libri senza comprarli (1). Quanto all’esperienza del giovane Orwell, mi fa piacere sapere che tutto il mondo è paese. Quando mio padre neanche trentenne aprì nel 1951 la sua libreria antiquaria in piazza Pasquino “o dei librari” (dietro piazza Navona), la scelta fu felice: se avevi i contanti, nel dopoguerra si potevano comprare intere biblioteche, la gente leggeva molto e le ristampe erano meno frequenti; in più si potevano stampare cataloghi da mandare agli abbonati, pratica comune fino agli anni Ottanta del secolo scorso, quando l’Internet ha sostituito i fascicoli spediti a tariffa agevolata. Conservo qualche foto storica della nostra prima libreria, e ancora mi chiedo come mai un giovane laureato appena sposato abbia pensato di aprire un’attività tipica dei pensionati. Mio padre voleva che la libreria divenisse un circolo culturale e la sua clientela era internazionale. Peccato che una pleurite lo costringesse a chiudere bottega dopo uno o due anni. Nel frattempo ero nato io. Avrei dovuto aspettare quindici anni prima di vedere riaperta la nostra libreria, stavolta ai piedi del Quirinale, dove è sopravvissuta come bottega storica fino al 2018. Dico sopravvissuta perché, morto mio padre nel 2003, mia madre ha voluto continuare l’impresa senza delegarne la gestione ai figli e di fatto invecchiando insieme alla bottega, chiusa definitivamente a pochi mesi dalla sua morte a 91 anni. Ma c’è dell’altro: la zona di Fontana di Trevi e gran parte del centro storico – peraltro limitato dalle ZTL – erano ormai diventate il Luna Park del turismo di massa, ignorante e distruttivo, capace di girare in mutande e fotografare le cartoline per non comprarle. I miei genitori e io stesso eravamo diventati “pittoreschi” e per questo continuamente fotografati, ma il commercio ha bisogno di clienti e non di voyuers. Il libro stava poi perdendo rapidamente la sua centralità: l’epoca d’oro dell’esaurito cedeva il posto alle facili ristampe digitali, quando negli anni 90 la composizione in piombo fu abbandonata per tecnologie più moderne. Le edizioni in linea e altre fonti in rete hanno poi fatto il resto in un paese dove comunque si stampa troppo e si legge troppo poco. Nei mercatini oggi si trovano a meno di un euro volumi che da studente non mi potevo permettere e le enciclopedie oggi addirittura le ritrovi buttate nei cassonetti, tanto c’è Wikipedia, con la quale peraltro collaboro. Mi resta invece l’ingombro di almeno 3000 volumi che non riesco né a vendere, né a regalare a biblioteche: sempre mi rispondono dicendo che non hanno spazio, ed è vero: negli ultimi vent’anni non si è investito nel settore e lo spazio resta sempre quello iniziale. In più c’è il fattore umano: meno libri significa meno lavoro, tanto lo stipendio arriva comunque. E avendo lavorato nelle biblioteche per quarant’anni, certi colleghi li conosco bene.

Ma se il libro usato ha perso qualsiasi valore commerciale, assistiamo a un fenomeno nuovo: l’offerta e lo scambio gratuiti, qualcosa che va ben  oltre il book crossing:. Tanto per fare un esempio, all’interno del mercato comunale Talenti (sulla Nomentana) c’è un ampio spazio dove chiunque può portare i libri che non usa più e prendere quelli che vuole leggere o ritiene utili. Parliamo di centinaia di opere messe in disordine ma non accatastate. Le scaffalature sono state create con le cassette della frutta messe per traverso e impilate, con l’avvertenza di non recuperarle per il mercato. C’è di tutto: libri scolastici, atlanti, romanzi, volumi di enciclopedia, libri per ragazzi, saggistica. Per me ho recuperato un’edizione rilegata de I sette pilastri della saggezza di Lawrence d’Arabia. Perso dunque il valore commerciale, ne resta dunque il valore intrinseco: il libro mantiene ancora il suo valore funzionale prima ancora che simbolico.

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  1. Lo stesso fece la Deutsche Grammophon (stava a via Frattina) con le cabine di prova dei dischi: la gente li ascoltava per intero e poi li restituiva al banco.

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Leggendo del conflitto in Ucraina

Il 24 febbraio 2022 fissa lo spartiacque tra due epoche: dopo la seconda G.M. l’Europa ha goduto 77 anni di pace e la fine della Guerra fredda aveva fatto credere che la guerra come strumento di pressione politica non fosse più una scelta praticabile. Il libro inizia in un modo insolito: una scena teatrale con due possibili finali, protagonisti Putin e i suoi generali alla vigilia dell’”operazione speciale”. Puntavano in realtà su Kiev per far cadere il governo Zelensky e imporne uno loro: storicamente i sovietici puntavano sempre sulla capitale per imporre un loro uomo (Budapest, Praga, Varsavia, Kabul), ma stavolta hanno fatto male i calcoli. Ora, dopo quattro mesi si può fare il punto e trarne alcune conclusioni. L’autore è un generale ora in congedo, con una lunga esperienza nella NATO e nelle missioni internazionali.
Si comincia dalla storia: l’Ucraina, estesa nazione slava per secoli ha gravitato fra Est e Ovest per poi essere assorbita nell’orbita russa almeno fino al 2014, quando l’Ucraina decide di gravitare verso l’Occidente. Si tende a giustificare l’aggressiva politica russa come reazione all’espansione della NATO a Est, ma l’adesione era libera, come libere erano le nazioni che volevano entrare in un’alleanza difensiva. Stranamente, un processo negoziale così importante ha lasciato pochi documenti ufficiali, né provocava una decisa reazione diplomatica da parte russa, nonostante Putin fosse già al potere e potesse esercitare pressioni sulla NATO, con la quale si manteneva un rapporto di collaborazione. Quindi è verosimile pensare che la saturazione risalga al 2014, quando l’Ucraina cambia governo e la Russia si riprende la Crimea, peraltro assegnata nel 1954 all’Ucraina da Krus’ev in un contesto diverso, tutto interno all’URSS. A seguire, il problema del Donbass, vasta e popolata regione ucraina ricca di risorse, ma abitata anche da una forte componente russa, alla quale non si riconosce un’autonomia simile a quella da noi concessa ai sud-tirolesi. Risultato: 4000 morti in 8 anni e una guerra civile strisciante, con l’uso spregiudicato di milizie irregolari.
Nell’”operazione speciale” in realtà di fantasia se ne è vista poca: i russi si sono mossi in modo schematico, con disfunzioni logistiche e tattiche ben sfruttate dalle fanterie leggere ucraine nel contrasto dinamico. L’ossatura tattica dei russi si basa sui BTG (pag.30-31), battaglioni meccanizzati con mezzi, armi e autonomia. Non sono in realtà un’invenzione russa, ispirati piuttosto ai Kampfgruppe tedeschi. Nei primi tre mesi ne sono stati impiegati 90 sui 180 teoricamente disponibili: una forza di manovra 90.000 uomini, più 150.000 tra regolari e miliziani per tenere le retrovie e rimpiazzare le perdite. Le forze ucraine – 250.000 uomini – hanno dovuto dislocare almeno 150.000 soldati lungo il fronte, anche se solo in parte ben addestrati. Dunque il rapporto attaccante/attaccato è 1:1, quando dovrebbe essere 3:1 per riuscire efficace, a meno di non avere Rommel o von Manstein al comando. Qui invece nessuno ha individuato il punto dove aprire un varco e penetrare in profondità. In più le forze ucraine – più agili – si sono valse di armi moderne ed efficaci: droni armati Bayraktar TB2, missili controcarro Javelin, Le operazioni sono comunque ben illustrate nelle pagine 39-48, con tanto di cartine. In alcune zone sono stati conquistati 200 km in 6 giorni, altrove dai 10 ai 100 km., salvo poi dover affrontare i grossi centri abitati, dove rastrellare blocchi di 20 piani o industrie grandi quanto l’Ilva di Taranto ha trasformato l’avanzata in una guerra di assedio, dove i civili pagano il conto: i russi non fanno sconti e procedono alla russificazione immediata delle zone conquistate, secondo l’archetipo della seconda GM.
Nel frattempo si è chiarita la strategia russa: non solo conquistare tutto il Donbass, ma saldarlo alla Crimea conquistando uno dopo l’altro i porti del Mar Nero – Cherson e Mariupol – e chiudendo il Mar d’Azov. L’assedio dell’acciaieria Azovstal ha avuto effetti mediatici, ma più logico sarebbe stato esfiltrare le forze per tempo e riorganizzarle altrove. Odessa a tutt’oggi (luglio 2022) non è ancora stata conquistata, ma l’Ucraina non vuole perdere l’accesso al mare e quindi affonda le navi russe e difende l’Isola dei Serpenti. Le forze da sbarco in realtà non hanno la capacità offensiva e la forza di penetrazione in profondità richiesta da un’operazione del genere. Ma nel frattempo le operazioni sul terreno sono cambiate: sguarnito il fronte di Kiev (ma con la pressione dell’alleato/vassallo bielorusso) le forze russe sono state concentrate nel Donbass e lungo la costa del Mar Nero. Per risparmiare gli uomini i russi ora combattono come 50 anni fa, facendo uso massiccio dell’artiglieria – quasi 5000 colpi al giorno più i missili – per spianare tutto quello che c’è davanti, città comprese, per poi far avanzare i carri e infine la fanteria. Dall’altra trincea si chiede agli alleati europei e americani artiglieria a lunga gittata, mentre i mezzi corazzati arrivano dai depositi degli ex membri del Patto di Varsavia. Non esistono per ora fonti ufficiali sicure, ma finora i due contendenti hanno verosimilmente perso ognuno 1000 corazzati e almeno 6000 soldati. Un conflitto ad alta intensità fra forze convenzionali simmetriche logora le forze in modo rapido: è la classica Materialschlacht, guerra di logoramento che dura finché è possibile alimentare il fronte. Solo in caso di esaurimento delle risorse uno dei due nemici è disposto a negoziare. In realtà gli ucraini non vincono: resistono.
Nel capitolo successivo (p.71) l’autore analizza invece la questione del comando, che secondo l’autore risente ancora del retaggio del centralismo sovietico. Dopo poche settimane tanti generali sono stati mandati a casa, ma la decisione di attaccare su 1500 km di fronte con 90 BTG non era solo militare: la guerra è una funzione della politica.
Il capitolo successivo (p.89-99) è un’analisi dei rispettivi armamenti (mezzi e organici) e mostra un certo squilibrio quantitativo a favore dei russi, compensato da una migliore tecnologia occidentale, tangibile p.es. nel controllo del campo di battaglia, nella direzione di tiro e nelle armi controcarro. Ma l’evoluzione del campo di battaglia può oggi portare solo a un consolidamento delle conquiste sul terreno. Dipende dalle forze in campo, dalla resilienza della società civile e dalla capacità industriale; questo vale per tutti. Una guerra lunga non fa comodo a nessuno e il Gas ne è il paradigma. Il problema è che chi scatena una guerra punta sempre sulla sua brevità, e in questo la storia militare è piena di exempla.
L’ultima domanda: le forze armate italiane e/o europee sono preparate a un conflitto ad alta intensità? La risposta è negativa: finita la Guerra Fredda si è investito molto sulle “missioni di pace” e poco sulle forze di terra. Italia e Germania hanno una componente carri pesanti ormai ridotta e ci vorranno anni per ricostruirne una credibile. Si parla poi da anni di Difesa Europea, ma finora restano i problemi di sempre (chi paga e chi comanda?), mentre la NATO è invece rinata proprio perché c’è la guerra in casa. Purtroppo lo spostamento del fulcro al centro dell’Europa penalizza il Mediterraneo, anche se il ruolo strategico della Turchia e la gestione delle rotte del grano dovrebbero aprire gli occhi a chi ragiona come se esistesse solo il Sacro Romano Impero.


Il conflitto in Ucraina
Una cosa troppo seria per certi generali ma specialmente per certi politici
Luigi Chiapperini
Francesco d’Amato Editore, 2022, pp. 240
ISBN 978-88-5525-136-5
Prezzo 12 euro.


Dalla scuola Duca d’Aosta

Storicamente i nuovi regimi cambiano i nomi e non certo solo in Italia: Koenigsberg è diventata Kaliningrad, Tilsit è Sovetsk, Pietrogrado si è chiamata ora San Pietroburgo e poi Leningrado e di nuovo San Pietroburgo. Da noi Littoria è diventata Latina e a Roma viale dei Martiri Fascisti è oggi viale Bruno Buozzi, tanto per fare solo un paio di esempi. Solo che si tratta di azioni decise in seguito a un conflitto vinto dal gruppo dirigente della nazione vincente oppure da un governo che si sostituisce a un regime. C’è un consenso collettivo almeno di una parte, e soprattutto sono atti che si fanno subito e sistematicamente e come tali vengono accettati dalla comunità. Qui invece assistiamo allo strano spettacolo di singoli attivisti che dopo ottant’anni dalla fine della guerra e del Fascismo si svegliano e scoprono che al Foro Italico (già Mussolini) c’è una stele con inciso DUX o che Amedeo duca d’Aosta era un colonialista. Ricerca di notorietà o rapido assorbimento di quel conformismo rivoluzionario (è un paradosso, lo so) chiamato Cancel Culture? L’ultimo episodio si registra  a Pistoia, dove si è proposto di cambiare nome al locale liceo scientifico, intitolato dal 1942 al Duca d’Aosta, per sostituirlo magari con quello di una donna (Margherita Hack? Rita Levi Montalcini?). Alla fine il Consiglio d’istituto non ha approvato la proposta, ma gli strascichi sono finiti sui giornali per tutto luglio. Pro la cancellazione: il Duca era un fascista, militarista e colonialista. Contro: Amedeo era estraneo al Fascismo, era un buon soldato, eroe di Amba Alagi, oppositore del Duce, buon padre dei suoi soldati. Contro: gli studenti di sinistra, le associazioni partigiane, lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari. Pro: gli studenti ed ex studenti di destra, i monarchici e Aimone di Savoia, difensore d’ufficio della dinastia sabauda. Per fortuna nessuno ha messo in mezzo il romano Ponte Duca d’Aosta, magari non sapendo che non è intitolato ad Amedeo ma ad Emanuele Filiberto, generale della prima Guerra Mondiale e capo della “invitta Terza Armata”. In realtà la sua armata era invitta perché l’attacco austro-ungarico-tedesco nel 1917 si svolse più a sud, lungo la valle dell’Isonzo, trascurando dunque il settore nord del fronte. E a dirla per intero, Emanuele Filiberto era anche un mediocre stratega. Amato dai suoi uomini, volle che la sua tomba fosse nel sacrario di Redipuglia accanto ai suoi soldati. E almeno qui il mito non è stato mai intaccato.

Invece torniamo ad Amedeo di Savoia Duca d’Aosta. Fin dalle elementari ricordo la sua immagine nei libri di scuola: giovane e bello, nella sua uniforme bianca, morto in prigionia, eroe rispettato anche dagli Inglesi, che gli concessero l’onore delle armi . Un mito. E come tutti i miti, costruito ad arte quanto sentito a livello popolare. La realtà ovviamente è sempre diversa. Instradato alla carriera militare fin da giovane – nella scontata tradizione dei Savoia – quando Amedeo fu inviato in Africa Orientale nel 1936 come viceré d’Etiopia, riuscì a rendere meno odiosa la gestione coloniale finora affidata al maresciallo Graziani. Dopo la seconda guerra italo-abissina, il 21 ottobre 1937 Amedeo di Savoia-Aosta fu nominato governatore generale (e quindi comandante in capo) dell’Africa Orientale Italiana e viceré d’Etiopia. Nel 1941, di fronte all’avanzata degli inglesi nell’Africa Orientale Italiana, le poche truppe italiane rimaste al suo comando si ritirarono per organizzare l’ultima resistenza sulle montagne etiopi. Amedeo si asserragliò dal 17 aprile al 17 maggio 1941 sull’Amba Alagi – una montagna tipica dell’Etiopia, alta più di 3000 metri  – con 7.000 uomini, una forza che comprendeva un reggimento di fanteria, carabinieri, avieri, marinai della base di Assab, 500 soldati della sanità e circa 3.000 indigeni, più un rteggimento di artiglieria con cannoni vari. Un assedio 6 contro 1, visto che gli inglesi e le loro truppe coloniali assommavano a 40.000 uomini. In realtà non poteva fare altro: una volta chiuso il canale di Suez, l’Africa Orientale Italiana non poteva più essere rifornita (per inciso, nessun Savoia è mai stato un genio militare) e l’esito dell’assedio era scontato. Amedeo morì di malaria durante la prigionia in Kenya il 3 marzo 1942. Aveva 44 anni.

Ora, dire che Amedeo fosse un oppositore del fascismo è un falso storico. Per quanto il Duce potesse essere antipatico al Duca d’Aosta, il Re e i Savoia sono stati organici col Fascismo dal primo all’ultimo giorno, pur sopportandone la volgarità. Ozioso invece accusarlo di colonialismo: un viceré d’Etiopia lo era per forza, per quanto accorta e diplomatica fosse la sua gestione rispetto alle pratiche criminali di Graziani. Il vero problema lo affrontò con ironia Umberto Eco: nelle cattedrali d’Europa sono seppelliti personaggi che nessuno inviterebbe a cena se avesse una figlia minorenne, ma sono prodotti nazionali e come tali te li devi tenere. Anche loro sono avvolti dal mito ed è il mito a essere trasmesso a scuola. Possiamo creare nuovi monumenti, ma dobbiamo tenerci anche quelli esistenti. Non sono monarchico, ma per me il Duca d’Aosta rimane quel bell’ufficiale in divisa bianca al quale gli Inglesi (la perfida Albione) ha concesso l’onore delle armi. In Italia ci vergogniamo delle poche vittorie, ma abbiamo il culto della gloriosa sconfitta, come El Alamein (1942). Infine, una riflessione: se dobbiamo cancellare la memoria del Duca d’Aosta perché fascista e colonialista, allora dobbiamo cambiar nome anche a viale Giulio Cesare: se non era imperialista lui, chi altri? Imperium è anche una parola latina.

La guerra è una parola

Immagino i futuri libri di scuola: “Dopo oltre 70 anni di pace in Europa garantita dall’equilibrio tra le nazioni, dal benessere sociale, dalla ricchezza dei commerci e dai trattati internazionali, nel 2022 l’invasione russa dell’Ucraina fu l’inizio della Terza Guerra Mondiale, che rimise in gioco equilibri e conquiste civili consolidate”. Ma guai a chiamare le cose con il loro nome: la guerra è fatta anche di parole che negano la sua stessa realtà: è un’ “azione speciale”, anche se dura da quattro mesi invece che quattro giorni, mentre il nemico è privo di identità: “l’Ucraina è Russia”, che ricorda “Trst je nas” <Trieste è nostra> del Maresciallo Tito. Cito dal convegno “Guerra e Pace”, democraticamente svolto a Montecitorio il 29 giugno 2022:

«A oltre quattro mesi dall’inizio dell’operazione speciale militare in Ucraina secondo la versione russa o invasione secondo la speculare versione euroatlantica cominciano a emergere le prime avvisaglie di una frattura all’interno del cosiddetto fronte occidentale che si riflette nelle società civili dei vari paesi europei»

Ma come ci ha insegnato il linguista Noam Chomsky, con la parola la politica non descrive il mondo: lo crea. Sono proprio le parole a marcare i cambiamenti. Ricordo Balkan Express di Slavenka Drakulic’, un libro uscito al tempo della guerra civile jugoslava (anni ’90 del secolo scorso); ma oggi citerei la scrittrice  e sceneggiatrice di Kharkiv (per i russi: Kharkov) Marina Višneveckaja, la quale  nel suo Dizionario dei cambiamenti (è una comunità Facebook) traccia dal 2011 il modo come la lingua cambia nel tempo, soprattutto nei suoi aspetti socio-politici. Il tempo di osservazione deve essere piuttosto lungo; i cambiamenti sono significativi se diventano stabili nel tempo, quindi il Dizionario dei cambiamenti esce ogni 2 o 3 anni. Lo scorso aprile è stata presentata l’edizione del 2022, relativa al periodo 2017-2018. Parole che scompaiono e altre che assumono nuovi significati (vetera verba novata significatione , direbbero gli antichi manuali di retorica). Ebbene, guarda caso il lessico politico russo inizia a cambiare dal 2014, anno dell’invasione della Crimea, l’ operazione speciale”, che riuniva alla Russia il porto militare di Sebastopoli e costituisce di fatto l’inizio della nuova politica estera di Putin.

La ‘Parola dell’anno’ fu non a caso il neologismo Krymnash, cioè ‘La-Crimea-è-nostra’: sulla bocca di alcuni era un’esclamazione di giubilo, sulla bocca di altri era un soprannome per i patrioti sciovinisti. Bene, il nostro dizionario include parole come Krymnashist (un sostenitore dell’annessione della Crimea alla Russia) e Krymnashism (l’ideologia dei krymnashist). Contemporaneamente, compariva nella nostra lingua l’espressione “Guerra civile fredda”, che descrive la spaccatura avvenuta nella società” (citato da un articolo su Il Foglio del 3 giugno 2022)

E se posso dare un consiglio, leggetevi con cura le fonti russe e/o “collaborazioniste”.  Un italiano si firma p.es. “Angelo Vendicatore” e riempie con i suoi interventi il sito di discussione Quora (https://it.quora.com/ ). A parte qualche grossolano falso storico e ideologico, fornisce un quadro preciso non tanto della macchina del consenso, ma rende leggibili alcuni concetti che noi “occidentali” tardiamo a capire. Già, perché una cosa sono i comunicati per l’opinione interna russa, altro è quanto riservato ai media occidentali, si suppone siano più informati e meno controllati di quelli russi. Cito ad esempio un articolato contributo del colonnello Jacques Baud, un ex-ufficiale di stato maggiore svizzero che aveva avuto anche incarichi di alto livello. S’intitola “La vera storia della guerra in Ucraina: parla un ex colonnello di ONU e NATO” e ne cito la versione pubblicata su www.renovatio21.com (ne circolano varie traduzioni, quindi è un documento ufficiale). Un punto mi ha colpito in modo particolare:

“Molti commentatori occidentali si sono meravigliati del fatto che i russi abbiano continuato a cercare una soluzione negoziata mentre conducevano operazioni militari. La spiegazione è nella concezione strategica russa, fin dall’epoca sovietica. Per gli occidentali, la guerra inizia quando cessa la politica.  Tuttavia, l’approccio russo segue un’ispirazione clausewitziana: la guerra è la continuità della politica e si può passare fluidamente dall’una all’altra, anche durante il combattimento. Questo crea pressione sull’avversario e lo spinge a negoziare.  Da un punto di vista operativo, l’offensiva russa <iniziata il 24 febbraio 2022, ndr.> fu un esempio nel suo genere: in sei giorni i russi si impadronirono di un territorio vasto quanto il Regno Unito, con una velocità di avanzamento maggiore di quella che fece la Wehrmacht nel 1940”

A parte il sinistro e controproducente riferimento alla Wehrmacht, c’è l’ammissione ufficiale della Guerra come Valore, la vera discriminante fra l’Europa democratica e la Russia di Putin. Che la guerra sia la continuazione dell’azione politica lo aveva teorizzato Carl von Clausewitz dopo le guerre napoleoniche e il suo trattato Della Guerra è la bibbia delle scuole militari. Solo che dopo la seconda G.M. la nazioni europee hanno rinunciato alla guerra come strumento di pressione politica e l’Italia addirittura l’ha inserito nella Costituzione. La Russia no. La questione è tutta qui.

ZIA DOT

Noi italiani da sempre siamo grandi appassionati di letteratura americana, al punto… da produrne. Se il giovane esordiente Riccardo D’Aquila (n. 1992) si fosse firmato Eagle Richard, sfido chiunque a capire che questo frenetico romanzo on the road figlio della grande narrativa americana è stato scritto a Chieti: i personaggi s’iscrivono nella serie delle figure viste in tanti romanzi e film ormai classici. La California s’incrocia qui con l’Arizona. Il mondo di zia Dorothy (Dot), lesbica, diretta e pratica di mondo è quello delle ville di Bel Air, mentre quello di Marvin è l’Arizona delle aziende di allevatori e dei nomadi del lavoro. Marvin prima ripassa la frontiera dal Messico con documenti falsi e l’aiuto di un compare – in Arizona avrebbe guai con la giustizia per via di una rapina maldestra – e si presenta nella residenza dove zia Dot e le sue sorelle e tutto il clan risiedono. Erano quindici anni che non si era fatto vivo e propone alla zia di venire con lei in Arizona per sistemare una faccenda privata. Marvin è figlio di farmer rovinati e la sua è una famiglia sfasciata; ha fatto diversi lavori e gente come lui è stata descritta decine di volte. Marvin e zia Dot partono dunque insieme, come nella migliore tradizione dei road movie e durante il viaggio vengono approfonditi i loro caratteri, Ma fino alla fine non sapremo come e perché Marvin si era avvicinato a quel mondo di ricchi, cosa va a sistemare in Arizona e perché vuole con sé zia Dot, che in effetti è una simpatica donna capace di sistemare tutto e si vede fin dall’inizio, quando una sua giovane nipote teme di essere rimasta incinta. Non anticipiamo nulla al lettore – niente spoileraggio -, riconoscendo invece al nostro giovane autore la capacità di creare personaggi credibili e un intreccio avvincente, alternato da descrizioni d’ambiente forse pure costruite con un certo manierismo, ma familiari. Per chi ama il cinema direi che nell’incrocio tra i due mondi americani descritti nel romanzo si vede da un lato la mano di Robert Altman, dall’altro quella di John Ford: l’ironica descrizione del dorato mondo californiano si confronta con quella degli spazi desertici punteggiati da motel e stazioni di servizio e dei casuali incontri on the road.

Il libro è stato passato al vaglio della PAL, Piccola Agenzia Letteraria fondata nel 2020 dalla scrittrice Melissa Panarello, attiva nella selezione e revisione di testi di esordienti e non, da proporre agli editori.

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Zia Dot
Autore: Riccardo D’Aquila
Editore: Fandango Libri, 2022, pp. 270
Prezzo: € 18,00

EAN: 9788860448118

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Un brano a caso:

La farmacia più vicina era fuori città. Chiusa. Dovette accontentarsi del distributore.

Dopo aver infilato i dieci dollari, sentì una presenza, proprio dietro di lei, mentre si stava specchiando sul vetro della macchinetta, per levarsi i segni del vino dai denti. Il cappello e gli occhiali le davano un’aria quasi seria.

Si girò, con la confezione del test in mano.

Dietro di lei c’era un ragazzetto ben pettinato, in un cappotto beige, alto almeno un metro e ottanta, che sghignazzava.

«Che ridi?» gli fece Dot.

Il ragazzo non rispondeva.

«Voglio sapere che cazzo ridi, imbecille. Non lo sai come sei nato?»

Il ragazzo annuì. Aveva una polo e le chiavi della macchina in mano.

«Sei sicuro?» continuò Dot.

Il ragazzo parlò.

«Lei è Dorothy Roth, vero?»

La donna alzò il cappello e abbassò gli occhiali da sole, per squadrarlo meglio. Quello sguardo le diceva qualcosa.

«Sì.» gli fece «Allora?»

L’altro rise ancora.

«Niente, mi fa ridere una lesbica che compra un test di gravidanza.» disse con un ghigno.