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Storie di sottomarini sovietici

Siamo in piena Guerra Fredda. Gli Americani hanno varato il sottomarino a propulsione nucleare Nautilus e l’Unione Sovietica non vuole rimanere indietro e promuove un’ambiziosa cantieristica navale. I battelli a doppio scafo a propulsione diesel/elettrica erano basati sui modelli tedeschi preda di guerra, ma per il nucleare mancava ovviamente l’esperienza. Gli ingegneri erano preparati, ma i marinai (diversamente dalla nostra leva di mare) provenivano dai posti più sperduti dell’URSS e vedevano nella Marina un’occasione sociale. In più mancavano – e mancano tuttora, come si è visto nell’affondamento del “Moskva” – i “petty officers”, i nostri esperti marescialli con anni di imbarco. Ma torniamo al nostro battello. Sin dalla sua costruzione nel 1958, la storia del sottomarino sovietico di classe Hotel K-19, il primo a essere equipaggiato con missili nucleari, è stata costellata di luci e ombre. Varato l’8 aprile 1959, il K-19 fu costruito in un periodo in cui l’Unione Sovietica era intenzionata a eguagliare la potenza nucleare degli Stati Uniti, sino ad allora in netto vantaggio. Tuttavia, nella volontà di proiettare la dimostrazione di potenza, furono messi in secondo piano diversi requisiti di sicurezza, determinando così una serie di malfunzionamenti nei battelli prodotti in serie (il libro è pieno di esaurienti dettagli tecnici, che qui omettiamo). Prudenza avrebbe suggerito di collaudare un paio di battelli per un anno o due prima di passare alla produzione in serie, ma le motivazioni politiche e le pressioni dell’industria prevalsero sulle esigenze della Marina, col risultato di mettere sotto stress gli equipaggi. Gli incidenti più comuni erano dovuti a guarnizioni difettose, a valvole bloccate, a strumenti tarati male e/o inesperienza degli equipaggi. Ma il peggio doveva causarlo una carenza strutturale: a differenza dei battelli della US Navy, il circuito di raffreddamento primario del reattore nucleare non era affiancato da un circuito d’emergenza. Il 4 luglio 1961 avvenne il più tragico degli incidenti: dopo alcune esercitazioni nell’Atlantico, a 45 metri di profondità, l’equipaggio del K-19, agli ordini del capitano Nikolaj Zateev, si trovò a fronteggiare un incubo nucleare. Una grave perdita nel reattore aveva causato il guasto del sistema di raffreddamento, portando a un pericoloso aumento della temperatura all’interno del nucleo. Esattamente quello che successe anni dopo a Chernobyl, con la differenza che intervenire d’urgenza negli spazi ristretti e scomodi di un sottomarino è un’impresa complicata anche in porto, figurarsi in immersione. Ad aggravare la situazione si accompagnò anche il malfunzionamento del sistema radio, che lasciò l’equipaggio isolato e senza la possibilità di contattare Mosca. Il sottomarino fu costretto a emergere e alcuni degli uomini furono testimoni di un grande atto di coraggio, sacrificandosi per riparare l’avaria prima che causasse un disastro nucleare. Nel 2006, l’ex presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbacëv ha proposto l’equipaggio del sottomarino al Nobel per la pace, per le azioni compiute il 4 luglio 1961. L’incidente, fu secretato per quasi trent’anni. Ma non fu l’unico: nel 1968 il K-129 (Golf II in codice NATO) a propulsione diesel/elettrica sparì nel Pacifico con due siluri a carica nucleare e tre missili balistici intercontinentali tipo SS-N-5 “Serb”. I Sovietici ignoravano la sua posizione ma non gli Americani, che nel 1974 con un’operazione coperta affidata a una ditta privata specializzata riuscirono a recuperare parte dello scafo sepolto a 5000 metri di profondità. Bottino: due siluri a carica nucleare, le macchine crittografiche e i corpi di sei marinai, a cui fu data sepoltura con gli onori militari. Sul Kursk invece non c’è molto da dire: nel 2000 i Russi erano meno chiusi e per il recupero chiesero l’aiuto di palombari norvegesi. Verosimilmente era scoppiato un siluro a propellente liquido, ma i ritardi nei soccorsi non salvarono ben 23 uomini che si erano rifugiati in un compartimento stagno. Alcuni avevano scritto un diario che aggiunse molti dettagli alla comprensione del disastro.
Va detto comunque che anche la US Navy perse due sottomarini nucleari: nel 1963 il Tresher (SSN-593) e nel 1968 lo Scorpion (SSN-589) sparirono nell’Atlantico. Il Tresher subì un guasto ad un sistema di tubazioni di acqua salata, che risultarono brasate invece che saldate. Durante l’immersione profonda, una tubatura interna si era rotta ed aveva allagato la sala macchine; lo spegnimento automatico del reattore nucleare aveva tolto l’alimentazione elettrica al battello, impedendone la riemersione. Tra i 129 morti si contano anche i tecnici collaudatori, mentre a bordo dello Scorpion c’era solo l’equipaggio di 99 uomini. Quanto allo Scorpion, le successive indagini e foto da batiscafo fanno pensare a un’esplosione di un siluro, cosa che del resto successe al Kursk nel 2000. Due siluri nucleari giacciono ancora sul fondo, aumentando la già ricca discarica nucleare oceanica. In più ci sono tutte le scorie radioattive della base subpolare di Murmansk, quando negli anni ’90 mancavano i soldi per la manutenzione della flotta. Circolava una battuta sui sommergibilisti della base: di notte si riconoscevano perché brillavano. Quanti di loro sono morti di leucemia nessuno lo saprà mai.


K19
La storia segreta del sottomarino sovietico Condividi

Autore: Peter Huchthausen
Traduttore: Kollektiv Ulyanov
Postfazione di Kathryn Bigelow.
Editore: Odoya, 2021, pp. 208
EAN: 9788862886901
Prezzo: € 16,00


Relazione di Moscovia

In questi giorni drammatici sentiamo il bisogno di capire la vera natura della Russia e del suo sistema di potere. Per curiosità consiglio di leggere la relazione che nel 1565 Raffaello Barberini, rampollo della nota famiglia romana, scrisse dopo aver percorso per un anno le vaste lande di quella che all’epoca era chiamata Moscovia, nazione dai confini indefiniti, più Oriente che Occidente, governata da un sovrano dispotico e imprevedibile e da una classe di antiquati proprietari terrieri. Raffaello parte dal porto di Anversa, il suo è un viaggio di affari, né deve stupirci: in quei paesi remoti si andava per motivi diplomatici o per sviluppare commercio dove abbondavano le materie prime ma non le attività produttive. Le lettere patenti del nostro Raffaello sono firmate dal re d’Inghilterra, il quale sviluppa il commercio navigando sopra la Norvegia ed evita così i pedaggi anseatici sul Baltico. I nomi dei viaggiatori italiani oggi dicono poco: Francesco da Collo (1518-19), Paolo Cantelli Centurione (1520, 1523), Gian Francesco Citus (1525), Giovanni Tedaldi (1550). L’ultimo era un mercante e agrario toscano, il primo era un diplomatico veneto al servizio di Massimiliano I d’Asburgo, con la missione di coalizzare Polacchi e Moscoviti contro la minaccia ottomana. La Moscovia si collocava infatti in una posizione strategica nelle lotta contro la Sublime Porta, ma l’annoso conflitto con la Polonia era ovviamente d’intralcio. In più – da geografo – doveva verificare la veridicità delle affermazioni di Maciejz Miechowa che nel suo Tractatus de duabus Sarmatiis (1517) dava una descrizione dell’Europa Orientale assai diversa da quanto riportava a suo tempo Claudio Tolomeo. Paolo Cantelli centurione era invece un mercante genovese interessato a trovare una via commerciale che aggirasse l’Impero Ottomano: dall’Indo al Mar Caspio, di qui, risalendo il Volga e i suoi affluenti, a Mosca e poi a Riga per giungere definitivamente nei porti dell’Europa settentrionale attraverso il Mar Baltico. Non era un diplomatico, anche se aveva lettere di presentazione firmate da papa Leone X. Gian Francesco da Potenza o Citus era invece un ecclesiastico d’alto rango e riveste un ruolo di primo piano nello scambio diplomatico, che porterà alla missione a Roma del negoziatore russo Dmitri Guérasimov (omonimo del generale di Putin). Le questioni sono complesse: i Polacchi contendono Smolensk ai Russi, ma i Veneziani vedono nel clero ortodosso un alleato nei Balcani, mentre papa Clemente VII appoggia i Polacchi (cattolici, ovvio) di Sigismondo, ma spera in un’alleanza con lo Zar contro i Turchi e nel primato di Roma, ma come sempre la Chiesa russa diffida dei Latini e i Polacchi temono i loro vicini Russi. Tutto poi si complica per le varie pretese dinastiche europee, del tutto estranee al potere assoluto del Gran Principe, sovrano di un paese enorme e dai fluidi confini. Nelle carte geografiche la Moscovia non ha mai contorni precisi e alcune zone in prossimità con Tatari e Mongoli non si capisce bene chi è suddito dell’altro e a chi si devono pagare le tasse. Nella relazione del Barberini – scritta a titolo personale e curata ora da una sua discendente, nota storica dell’arte – viene descritta in modo brillante una struttura di potere priva di strutture intermedie: clero a parte, c’è il Gran Principe (in questo caso era Ivan il Terribile) e intorno a lui i Boiari, a metà tra il proprietario terriero e l’alto funzionario di burocrazia. Orientale è il protocollo di corte, umiliante l’anticamera degli ambasciatori stranieri, di fatto segregati dai contatti con l’esterno e costretti a lunghe attese. Assolutamente arbitraria la giustizia, rapida la capacità di mobilitazione della cavalleria (cosacca?), efficienti le comunicazioni di stato tramite corrieri e cavalli e stazioni di posta. Ma se il Palazzo del Cremlino è bello e fortificato (anche con l’aiuto di italiani), le case della gente sono di legno e povere. In più, in occasione di feste, tutti sono ubriachi. Le strade poi non sono praticabili in tutte le stagioni, ma gran parte del traffico e delle comunicazioni avviene lungo i grandi fiumi…. Pur nella lontananza storica, nelle descrizioni di Raffaello Barberini sentiamo ancora qualcosa di familiare: diffidenza verso gli stranieri, potere autocratico, spazi enormi. In più, se al posto di “Boiari” mettiamo “Oligarchi”, cosa cambia?


Relazione di Moscovia scritta da Raffaello Barberini (1565)
di Maria Giulia Barberini
Editore: Sellerio, 1996, pp. 111
Prezzo: 6,00 €

EAN: 2561744009783


Pornobello

Tra le nuove forme di editoria si è affermato con successo il podcast, capace di superare l’istante della trasmissione per poter essere con calma scaricato e fruito quando vogliamo. In questo caso abbiamo – così lo presenta l’editore – un “porncast”, un libro sulla storia della pornografia, narrato in voce a puntate da Melissa Panarello, peraltro non nuova a iniziative trasgressive, sempre che oggi resti qualcosa da trasgredire. E infatti Melissa tira le fila di un fenomeno ormai consolidato: il porno, che esiste da sempre ma assume forme diverse nelle varie epoche, condizionato dalla religione, dalla morale ma anche dai mezzi di produzione e riproduzione dell’immagine. Melissa non perde tempo, come noi all’epoca, a discettare su cosa è pornografico e cosa è solo erotico; in questo la pensa come i giapponesi, i quali non distinguono tra le due categorie. Per lei – riassumo da una delle due prime puntate – l’erotismo è il tentativo di unire l’anima con il corpo, di trovare un equilibrio con il sesso, tipico del segno della Bilancia (il mio, ndr.). Il porno invece va subito al sodo, esprime istinto e fisicità. “Se ami le lenzuola di seta e le manette di velluto questo non è posto per te”, ironizza la nostra amica. Sfugge a Melissa che se il sesso è biologico, erotismo e pornografia sono comunque entrambe elaborazioni culturali, tutte umane, solo che il porno dell’erotismo è il grado zero. E’ la cultura del sesso, declinata ora verso la sublimazione (erotismo), ora verso la pura carnalità (pornazzo). Ed anche una scommessa: significa riempire di elaborate ricette un libro di cucina avendo due soli ingredienti, arricchiti di salse nell’erotismo, ma serviti quasi crudi nel porno. Perché Melissa chiama le cose col loro nome, inutile che tutti giochiamo a fare gli intellettuali quando poi siamo drammaticamente legati alla fisicità del nostro corpo e ai nostri istinti primordiali.

 Tutto bene? No, si gioca come al solito sul corpo della donna, che deve mostrarsi attraente ma pudica, disponibile ma casta, davanti a un uomo sempre potente e dominante; ma questo è un vecchio discorso. Quello che è interessante è vedere il passaggio “democratico” della pornografia (termine in teoria greco, ma adottato nel ‘700 dalla letteratura francese) da forme sacre, colte e aristocratiche (come nel Rinascimento o nel Settecento) che poi permeano tutta la cultura e scendono fino agli strati più umili della società, fino a diventare, come oggi, un amorale fenomeno di massa, continuamente capace di adeguarsi al momento e a sfruttare la tecnologia più avanzata, come dimostra oggi l’esplosione del porno in rete, e prima di questo il cinema, il VHS.  E’ una storia avventurosa ed è anche divertente ascoltarla dalla voce di Melissa, garbatamente siciliana, la quale è ironica e curiosa di scoprire cosa si sono inventati uomini e donne nel corso del tempo per rendere piacevole la vita in comune; si parte addirittura dalle caverne, dove nell’inevitabile promiscuità qualcuno guarda la coppia che fa l’amore e così inventa il porno (citare Freud e la scena primaria forse è troppo). Si continua con il mondo classico, poi per sciagura arriva il Cristianesimo, e così via. Le fonti documentarie a cui Melissa attinge sono di ogni tipo, qualche volta anche scontate; non mancano banali luoghi comuni, ma in fondo è una simpatica trasmissione radio a puntate. Ancora non siamo arrivati alla Golden Age of Porn americana (gli anni ’70 del secolo scorso), chissà poi se si parlerà di Lasse Braun detto l’Alieno, quello che sdoganò il porno come forma di liberazione ma non capì che sull’affare (esattamente) ci si sarebbero buttati a capofitto avventurieri e delinquenti: “Gola profonda” fu finanziato dalla mafia italo-americana. La vitale gioia del pornazzo nasconde anche angosce di castrazione o almeno disagio e frustrazione in chi guarda (Hitchcock insegna, penso a Psyco o a La finestra sul cortile), mentre il backstage produttivo è intriso di sfruttamento, droga e quant’altro. Resta poi un problema irrisolto: le donne si ritrovano ancora una volta – cito – “incastrate fra due modelli altrettanto inaccettabili di femminilità. Il primo è il modello tradizionale che, persino oggi, è difficile contestare, il quale condanna al disprezzo e all’ostracismo le donne promiscue; inoltre le donne sanno per esperienza che lo stereotipo tradizionale della femminilità è profondamente legato alla sessualità e le costringe a trasformarsi in spettacolo continuo di seduzione ma devono al tempo stesso rimanere modeste e non lasciar mai capire che si stanno esibendo. Il secondo è l’altro modello, ancora vago e inquietante, proposto dalla pornografia, imperniato sulle acrobazie sessuali e sulla soddisfazione completa di tutti i capricci, un terreno che sembra più familiare agli uomini, che affermano di esservi più a loro agio.” (da Bernard Arcand, Il giaguaro e il formichiere). Eppure ci sono ancora donne che vedono nel porno una sorta di sdoganamento della sessualità, basta scorrere il serioso sito Academia.edu.

Quello che è assodato è che il porno si aggiorna e si trasforma di continuo, oggi si adatta alla rete e al fai-da-te, domani chi lo sa, ma richiede comunque grandi investimenti e ancora produce grandi guadagni, concentrati in poche grandi produzioni e siti aggregatori. Ma vedremo come si svilupperanno le prossime puntate di quello che si profila come una piacevole scorribanda nelle nostre umane debolezze.

Russia 2.0

Stavo consultando una tesi di dottorato: Pluralismo tra democrazia e autoritarismo: il caso russo, di Laura Petrone. Liberamente scaricabile dalla rete (1), risale al 2010 ma resta attuale per capire quello che in questi giorni di guerra ci chiediamo tutti: come mai la Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica non si è evoluta come tutti avremmo sperato, cioè sviluppando istituzioni democratiche che non fossero formali ma garantissero uno sviluppo ideologico ed economico adeguato alla modernità? Lo scrivo in un momento in cui ci chiediamo, esterrefatti e inorriditi, come mai c’è ancora in Europa chi è convinto che obiettivi politici di egemonia non possano essere conquistati con pressioni politiche, diplomatiche e strategie economiche piuttosto che con la guerra, visto che nei conflitti moderni il costo è maggiore dei risultati e che pratiche forse normali nelle guerre antiche sono ormai inaccettabili?
Sicuramente c’è stata da parte del “pensiero occidentale” la convinzione che i regimi totalitari prima o poi crollino per evolversi verso una democrazia, con traiettorie abbastanza ordinate e prevedibili verso regimi democratici nati da elezioni libere e regolari. Determinismo peraltro simmetrico del pensiero totalitario, che ritiene la democrazia un disordinato contrattempo prima dell’affermazione di una struttura di potere non condizionata dall’equilibrio obbligato dalle dinamiche sociali ed elettorali. E qui mi andrei a rileggere Miseria dello storicismo di Karl Popper: l’evoluzione politica non segue mai strade obbligate: “nessuna società può predire scientificamente il proprio futuro livello di conoscenza”.
Ma torniamo alla Russia. In sostanza, ai tempi dell’Unione Sovietica, Stato e Partito (PCUS) facevano tutt’uno e Michail Gorbačëv (amato più da noi che dai Russi) cercò a suo tempo di riformarne le strutture, dando più importanza a quelle economiche che a quelle democratiche, indebolendo di fatto lo Stato. Lo scioglimento del PCUS imposto nel 1991 da Boris Eltsin spezzò questo binomio, col risultato di far indebolire le strutture statali a vantaggio di una classe di capitalisti che nelle privatizzazioni dei grandi enti di Stato trovarono la miniera d’oro, creando in un paese socialista una distopica sperequazione di ricchezza fra oligarchi e gente comune, resa possibile dall’indebolimento delle strutture statali e da connivenze criminali, fino all’ascesa di Vladimir Putin, il quale ha perseguito un fine solo: la restaurazione dello Stato come supremo organizzatore della vita civile, dell’economia e della politica. In sostanza è comunque lo Stato il garante che permette lo sviluppo di un regime democratico, e non per niente le democrazie occidentali si sono sviluppate quando lo Stato moderno ha definito e consolidato le sue funzioni (economiche, fiscali, militari, assistenziali, etc.) e dalla lotta politica si è creato un equilibrio fra i soggetti sociali rappresentati in un Parlamento. Non per niente i paesi ex-socialisti che hanno saputo creare una democrazia parlamentare (Polonia, Ungheria, i Paesi Baltici, Cechia) si basavano su esperienze storiche consolidate, mentre la Russia e le repubbliche sovietiche asiatiche (Kazakistan, Tagikistan) ne mancavano totalmente. Ma in Russia, dopo la debolezza dell’esecutivo a fronte dei poteri costituzionali e l’intreccio tra la sfera pubblica e la sfera privata tipica del tempo di Eltsin, Putin si è posto come priorità la ricostruzione dello Stato, dando più potere al centro attraverso una serie di riforme federali, riallineando con le buone o le cattive maniere gli oligarchi alla politica presidenziale, e di fatto burocratizzando l’élite politica. Il livello di obbedienza all’interno dell’apparato statale è tuttora alto, in più c’è l’ autosufficienza economica e finanziaria, ovvero il controllo statale sui proventi garantiti dalla vendita di risorse naturali come il petrolio e il gas, come ben sappiamo. Burocrazia qui va intesa in senso lato, come logica dell’organizzazione politica su larga scala. Questo recupero della centralità dello Stato non ha però incoraggiato né lo sviluppo di quelli che chiamiamo corpi intermedi (classe media, partiti politici rappresentativi) né il pluralismo. E’ un regime che di fatto unisce caratteristiche sia democratiche che autoritarie e propone un proprio modello di sviluppo politico-istituzionale alternativo a quello delle democrazie liberali. Al suo interno i valori democratici non costituiscono una priorità, in quanto subordinati all’imperativo di uno Stato forte e centralizzato. In questa logica si collocano provvedimenti quali la limitazione dell’autonomia dei poteri regionali, l’eliminazione dei governatori eletti dal Consiglio Federale, l’allontanamento dalla politica dei partiti non legati al Cremlino e alcuni interventi tesi a preordinare e regolamentare i confini della c.d. “società civile” attraverso un controllo delle principali fonti della contestazione politica. Anziché imporre un unico sistema filosofico-spirituale alla società nel suo insieme, lo Stato mette a disposizione un ventaglio di orientamenti accettabili, tra i quali la popolazione è libera di scegliere. Nella prassi si nota però il ricorso a forme di controllo autoritario non coercitivo, che vanno dalla frode elettorale all’intimidazione (o peggio) e cooptazione dei principali avversari politici come base del consenso sociale e del proprio potere. Diversamente dalle forme classiche di autoritarismo, l’apparato ideologico è scarno, lo vediamo in questi giorni, basato su un forte richiamo all’identità nazionale e sulla mancanza di alternative credibili, alle quali però non è stata data ancora occasione di crescere.
In questa prospettiva, il quesito più urgente non è perché la Russia non è democratica e cosa debba fare per esserlo, ma un altro: in quanto autocrazia, può essa affrontare le sfide dello sviluppo economico e della modernizzazione? Può vincere una guerra più lunga del previsto senza sfaldare la base del consenso popolare, per non parlare dell’economia, visto che il PIL russo è inferiore a quello italiano?

Note

  1. file:///C:/Users/Utente/Documents/Documenti%20scaricati/Geopolitica/Petrone_Laura_Tesi_dottorato(1).pdf .
    Bologna, Facoltà di scienze politiche, 2010.

Ma in fondo…

Nel noto film Boehemian Rhapsody, quando Freddie Marcury dice alla moglie “sono gay ma in fondo ti amo”, lei reagisce con violenza: “Ma che vuol dire in fondo?”. Me lo stavo chiedendo in questi giorni di guerra: in fondo la NATO si è allargata troppo a Est, in fondo i crimini di guerra li compiono tutti gli eserciti; in fondo rifornire di armi l’Ucraina non significa essere belligeranti; in fondo possiamo essere equidistanti perché vogliamo la pace; in fondo il battaglione Azov è formato da nazisti; in fondo il patriarca Kyrill si oppone all’Occidente decadente… e così via; come si vede, ce n’è per tutti. E’ il regno del Relativismo dal quale invano il cardinale (e poi papa) Ratzinger metteva in guardia l’umanità. Ma se il relativismo religioso o morale possono anche diventare un comodo alibi di massa, la Guerra invece ti costringe a decidere da quale parte stare, visto che è in gioco la tua sopravvivenza e quella dei tuoi figli. Sia chiaro che siamo rimasti tutti spiazzati dall’invasione russa dell’Ucraina, ma dopo due mesi di guerra chiunque ha il dovere morale di informarsi da più fonti, di riflettere e prendersi le proprie responsabilità. Sia chiaro: anche se dovessimo combattere, per noi la Guerra non è più un valore. Siamo stati educati a non legittimare la guerra come mezzo di risoluzione delle questioni politiche e abbiamo sinceramente creduto che la  diplomazia, la pressione economica, la deterrenza militare, la libera informazione e tante altri mezzi di azione politica potessero risolvere i problemi internazionali. In fondo la Guerra Fredda ha visto per anni eserciti contrapposti ma fermi ai confini delle alleanze di riferimento, e questo ha funzionato. Ora sappiamo che aver smontato tutto non avrebbe garantito “la fine della storia”, ma a maggior ragione lo storico del futuro (se ce ne sarà uno) dovrà chiedersi perché questioni così importanti come l’espansione della NATO o l’autonomia delle regioni di confine e la tutela delle minoranze non siano stati negli ultimi vent’anni – da quando si è affermato Putin – oggetto di negoziati seri e serrati, magari anche duri, ma evitando il ricorso alle armi, intervento che la Grande Russia ha considerato persino necessario. Che poi abbia fatto male i conti è un’altra storia.

Interessante è a questo punto leggersi cosa ha elaborato quella che per semplicità chiamo l’Accademia. Non parlo degli ideologi di Putin (troppo sfacciati), ma di quel mondo legato alle università e ai centri di ricerca. Sono idee elitarie ma che possono lentamente permeare la società intera, come dimostra la Cancel Culture americana, su cui nessuna persona istruita e intelligente avrebbe mai scommesso una lira. Sfoglio p.es. l’Antidiplomatico e leggo Come l’occidente distrusse la seconda Roma e come oggi cerca di fare lo stesso con la terza, di Cesare Corda. Allude al contrasto anche violento tra i Latini e Costantinopoli al tempo delle Crociate e prima. La terza Roma è invece la Madre Russia erede della cristianità e dell’Impero romano d’Oriente, un’ideologia molto popolare e non da ieri. È vero che per la storiografia di scuola germanica l’Impero Romano d’Oriente vale meno del Sacro Romano Impero, anche se il primo è durato mille anni. Ma resta il pregiudizio speculare: fin dai tempi di Carlo Magno noi europei occidentali siamo invece i Latini rozzi e violenti che vogliono distruggere un’antica civiltà superiore e non vogliono saperne di un impero orientale. Ma a questo punto mi leggo sul sito literary hub ( https://lithub.com/)  un lungo studio: On the West’s Demonization of Ancient Persia, a cura di Lloyd Llewellyn-Jones (gallese, suppongo), ordinario di storia antica all’Università di Cardiff. La sua teoria è che fin dai tempi dell’antica Grecia la Persia è stata sottovalutata e trattata come un invasore imperialista, mentre invece era portatrice di una civiltà ben superiore alla cultura classica di cui noi siamo gli eredi. Anche qui l’impostazione è viziata dall’ideologia: sicuramente la storiografia occidentale è eurocentrica e chi difende l’Europa per noi è sempre un eroe, si chiami Leonida o Alessandro Magno o Traiano. Ma non per questo vale di più il contrario, che cioè un dispotico impero orientale invada l’Europa in base a un’idea di superiorità o per motivi economici. Immagino la replica. “ma in fondo non erano poi così dispotici e decadenti”.  Ho voluto citare questi due esempi accademici per dimostrare che se un’indagine storica è viziata alla base dall’ideologia, i risultati non saranno mai definitivi, anche se ridiscutere tesi tradizionalmente accettate è comunque indice di vitalità culturale. Ma era molto più avanti Hendrik van Loon nella sua Storia dell’Umanità, pubblicato nel 1921 da Bompiani e ancora ristampato nel 2015: narrava lo sviluppo delle civiltà partendo da un’idea di policentrismo e di alternanze fra potenze, senza credere nella “missione storica” di nessuno. In fondo era onesto.