Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Mali d’Africa

Illustrazione Gianleonardo Latini

I Francesi sono stati estromessi dal Mali; persino l’ambasciatore è stato cacciato e d’ora in poi la lingua ufficiale del Mali sarà soltanto il Bambara, parlata da circa due milioni e mezzo di abitanti ma facilmente compresa da altri tre. Non sappiamo se sarà anche abolita la valuta CFA (Franco centro-africano), diffuso nell’Africa francofona:  vale un decimo del Franco francese ma è ancorato alla Banca di Francia. In ogni caso il posto dei soldati francesi sarà occupato da almeno 500 miliziani del Gruppo Wagner, quella specie di Legione Straniera russa già presente in Libia e forse ora anche in Ucraina. Quale sia il loro reale valore sul campo piuttosto che come pretoriani di regime è tutto da verificare, ma per la Francia di Macron è uno smacco: il Mali, come il Burkina Faso, era parte delle colonie africane e come tale manteneva forti legami politici e commerciali con la sua antica potenza di riferimento. Nel contratto di assistenza al locale governo era prevista la protezione militare contro attacchi esterni, in questo caso i guerriglieri Jahidisti che premono dal nord del paese. Per chi non conoscesse il Mali consiglio di dare un’occhiata alla carta geografica: è il classico stato africano disegnato con squadra e compasso in maniera assolutamente irrazionale: la parte a sud dei fiumi Niger e Senegal gravita sulla savana ed è la più popolata e coltivata, mentre la parte nord è un’enorme parte del Sahara sagomata geometricamente; è abitata da nomadi Tuareg ed è ricca di risorse minerarie. Ma difficile parlare di confini, di frontiere difendibili: il Mali è per molti versi un’astrazione geografica, come anche altri stati africani derivati dalla decolonizzazione. E come tanti stati africani, non riesce ad avere una dirigenza adeguata alla situazione. Quella attuale, capeggiata da Assimi Goïta, non fa eccezione.

Ora, sono stati fatti facili confronti fra  la disfatta statunitense in Afghanistan e quella francese in Mali, ma la realtà è diversa: l’esercito francese, coadiuvato dalla ben nota Legione Straniera, conosceva da oltre un secolo il terreno e nel corso del tempo aveva ottenuto anche reali successi militari, pur penalizzati dalla vastità del territorio e soprattutto da problemi politici nel rapporto con il governo del Mali. In regime coloniale la potenza occupante gestisce direttamente tutto, laddove ora può solo garantire assistenza alle fragili strutture statuali e ai deboli eserciti delle sue ex-colonie. Di fronte a una minaccia strutturale dovuta essenzialmente a una scarsa coesione sociale e statuale, addestrare le truppe locali non basta e in più un’eccessiva ingerenza esterna da parte di una ex-potenza coloniale viene malvista dalla gente. Esattamente quello che è successo in Mali.

Ma andiamo per ordine: dopo il colpo di stato del 2012 di soldati ammutinati guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo e la sospensione della Costituzione, dall’aprile 2012 all’agosto 2013 è presidente ad interim Dioncounda Traoré, designato dalla giunta militare, e Cheick Modibo Diarra Primo Ministro ad interim il 17 aprile 2012 per aiutare il processo democratico fino alle elezioni del dicembre 2013. Nel frattempo riprende la guerra civile che ha portato l’etnia Tuareg (laica) del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, ad allearsi con alcune frazioni fondamentaliste, (gli Ansar Dine) che aderiscono al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, alias al-Qa’ida nel Maghreb islamico, e a prendere il controllo della regione settentrionale del Paese, l’Azawad, regione che comunque nulla ha che spartire con la parte del Mali a sud dei grandi fiumi. Il 10 gennaio 2013 il presidente Dioncounda Traoré‚ in un discorso alla nazione, comunica di aver chiesto e ottenuto un intervento aereo della Francia, in accordo con l’Ecowas, la comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale, contro i ribelli dell’Azawad (il nord del Paese). L’intervento francese in effetti libera i centri abitati dell’’Azawad cadute in mano ai fondamentalisti islamici, dove le truppe sono accolte con esultanza dalla popolazione. Nei quasi dieci anni successivi la guerriglia continua e i francesi contano alla fine 53 perdite, quante noi italiani in dieci anni in Afghanistan. Senonché il 18 agosto 2020 il presidente Ibrahim Boubacar Keïta assieme al primo ministro vengono tratti in arresto mediante colpo di Stato di una giunta militare. Prende il potere il Comitato nazionale per la salvezza del popolo che nomina il triumvirato Assimi Goïta, Malick Diaw e Sadio Camara fino a nuove elezioni politiche. Goita ha studiato a Mosca, parla russo e sobilla l’ostilità verso i francesi, i quali comunque da giugno di quest’anno avevano deciso di ridurre il loro impegno militare per il costo rispetto ai benefici, portando il proprio contingente da 5000 a 2000 uomini. A meno di non ricolonizzare l’Africa da capo, questo è un problema che assilla tutti gli eserciti occidentali. Ma soprattutto rimane il problema registrato in Afghanistan: non si può gestire una strategia di lungo termine con le risorse locali e i chiari di luna dei colpi di Stato e dei gruppi dirigenti locali, i quali alla fine sono capaci di venire a patti col nemico pur di salvare almeno parte del potere e del territorio. Solo negli ultimi dieci anni l’Africa ha visto una dozzina di colpi di Stato. In più gli eserciti europei alla fine se ne vanno, mentre il nemico è endemico e abita nel paese tuo, quindi meglio parlarci. Quanto a Russi e Cinesi, chiedono la licenza di estrazione delle risorse minerali, ma sono disposti ad aiutarti senza chiederti quelle noiosissime clausole che comprendono un parlamento eletto, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e il rispetto dei diritti umani. Ma alla fine per gli africani significa passare solo da una potenza post-coloniale all’altra.

La vita al tempo del Barocco

Questa scorrevole opera di Ottavia Niccoli ci riporta nella Bologna e contado nel ‘600, ma potrebbe descrivere allo stesso modo la vita di una grande città italiana del Barocco, Roma compresa. La memoria mi riporta infatti a un’opera del 1990, Carriere e clientele nella Roma barocca, scritta da Renata Ago per i tipi di Laterza. Anche la Ago ricostruiva la vita sociale del tempo attraverso atti giudiziari (lei tra l’altro proveniva da una famiglia di giuristi), ma sinceramente trovo il libro della Niccoli ben più leggibile e intrigante. Attraverso i verbali dei processi non conosciamo tanto i “buoni” , ma piuttosto chi non rispetta le regole: padroni che mettono incinte le domestiche, preti che cantano e suonano la chitarra, altri preti che hanno il vizietto, agricoltori che sparano al bestiame del vicino se rovina i campi, povere donne che delinquono per miseria, vagabondi, orfani e ragazzi di strada sfuggiti alla pubblica assistenza o maltrattati in orfanatrofio. Ne viene fuori un affresco che è coerente con l’arte figurativa del tempo, penso ai Bamboccianti, alle scene di genere, ma anche alle nature morte, il cui vero significato è esibire abbondanza alimentare in una società dove, per vari motivi frequenti erano le carestie. Ci sorprende la vita di Sabbatina, vedova di un contadino che aveva già perso due mogli e la metà dei figli, addetta a una serie di lavori agricoli anche nei giorni festivi. Siamo infatti in piena Controriforma e la Chiesa cerca intanto di metter ordine nel clero secolare e in certi suoi stili di vita ormai intollerabili (vino, amanti, musica secolare) ma legati in fondo agli usi e costumi della comunità. Ma l’operazione si estende anche a regolare la vita dei fedeli secondo le nuove indicazioni del Concilio Tridentino, formalizzando p.es. il matrimonio come sacramento, mettendo il naso nel privato attraverso l’istituto della confessione, ma anche disponendo una sistematica anagrafe parrocchiale. Era comunque un mondo già cristiano di suo: il tempo si scandiva da sempre secondo le ore liturgiche, le feste comandate e i rituali della vita sociale (battesimo, matrimonio) e la gente certe volte neanche conosceva bene i nomi dei mesi né aveva orologi, tanto c’erano campane e campanili. Vengono poi descritti arti e mestieri, rapporti sociali e immagini di vita quotidiana, legate all’onore, al rango, alle differenze sociali, a preoccupazioni per noi ignote: la rivoluzione industriale ci ha affrancato dalla necessità e troviamo tutto in negozio, ma per una ragazza da marito non saper cucire sarebbe stato grave, e infatti le scuole per ragazze (povere o meno) insegnavano di fatto i lavori domestici e le piccole attività (allevamento del baco da seta, p.es.), mentre i lavori maschili erano legati a corporazioni, gilde e confraternite fortemente strutturate. Il libro è corredato da molte illustrazioni puntualmente riferite a quanto orchestrato nel libro.


Storie di ogni giorno
in una città del Seicento
Ottavia Niccoli
Officina Libraria, 2021, pp. 310, 77 in b/n
Prezzo: € 22,00
ISBN: 9788833671536


Ucrainazisti: Perché i russi…

Ucrainazisti: Perché i russi…

Putin giustifica l’intervento militare in Ucraina per “denazificarla”. Ora, in guerra la realtà è sempre filtrata attraverso la propaganda, ma in effetti sul campo è attiva una formazione paramilitare neonazista – il Battaglione Azov – alle strette dipendenze dell’esercito regolare ucraino. Formato da volontari ucraini e stranieri con esperienza militare, ha ormai raggiunto l’organico di 3.000 uomini, al punto da cambiar nome in Reggimento operazioni speciali Azov. Dislocato nell’area del Mar nero, ostenta effettivamente simboli nazisti e finora ha dato filo da torcere agli schematici reggimenti russi. Meno numeroso è (o era) invece il 24° Battaglione d’Assalto Separato “Aidar”, che con 400 uomini operava nel Dombass contro i separatisti russi. Difficile avere su questi reparti informazioni attendibili e aggiornate: anche se posti sotto il comando dell’esercito regolare, tendono naturalmente ad essere autonomi, a seguire i loro capi e non sempre rispettano delle leggi di guerra. In più, tendono ad aumentare la loro fama con atteggiamenti esibizionistici a uso dei mass-media. Questo non significa che non sappiano combattere; il problema è che una gestione meno superficiale di queste compagnie di ventura gioverebbe innanzitutto al governo ucraino, il quale appoggia ed esalta reparti da cui dovrebbe invece prendere le distanze.

Andando però indietro negli anni, scopriamo però che c’è qualcosa di già visto. Parlo della 14° Divisione Waffen SS “Galizien”. Reclutata fra gli Ucraini d Galizia (una regione fra Polonia e Ucraina, da non confondere con l’omonima regione iberica) ma anche fra Slovacchi e altre minoranze ostili ai Sovietici e al Comunismo. Da un bacino di 80.000 volontari fu addestrato nel 1943 un contingente di 14.000 uomini, dove gli ufficiali tedeschi mantenevano i gradi più alti. La divisione fu mandata a combattere nel 1944 sul fronte orientale, dove fu pesantemente impegnata nell’area di Brody, distretto di Leopoli, Ucraina occidentale. Dal 19 luglio, dopo feroci battaglie, la divisione, assieme ad alcune unità tedesche, fu accerchiata e sconfitta dall’Armata Rossa. A dispetto della difficoltà del combattimento, la divisione seppe mantenere la disciplina e molti dei suoi membri furono capaci di infrangere l’accerchiamento. Dei 10.400 impegnati in combattimento se ne salvarono 7.000, che ripiegarono in buon ordine. Poco tempo dopo il reparto fu ricostituito attingendo alle riserve. Il 17 marzo 1945 emigrati ucraini crearono il Comitato Ucraino Nazionale per far valere gli interessi ucraini presso la Germania, ottenendo che la Galizien diventasse la 1° Divisione Ucraina. Nel frattempo l’Armata Rossa avanzava e la disfatta era solo questione di tempo. Fu a questo punto che la Divisione si arrese non ai Sovietici, ma agli Anglo-Americani. Fu la salvezza: gli stessi Inglesi che avevano consegnato ai Sovietici la Divisione del generale Vlasov (fanteria di linea ucraina armata dai tedeschi) e i Cosacchi stanziati in Carnia, stavolta non accolse le richieste sovietiche. 8000 prigionieri furono esfiltrati dall’Austria e internati in un campo di prigionia a Bellaria – Igea Marina, vicino Rimini e poi, su interessamento del Vaticano e dei governi Statunitense e Canadese, si favorì la loro emigrazione in Canada e in altri paesi sicuri. Diciamolo pure: gli andò bene. Anche se non furono mai trovate neanche da parte sovietica prove di crimini di guerra di cui si macchiarono altri reparti SS, non fu mai organizzato nessun processo serio sui membri di una formazione militare comunque armata dai Nazisti. Va detto che la Galizien fu impiegata tardi e come reparto militare sul campo, in difesa del territorio piuttosto che come polizia di occupazione, ma è indubbio che per una volta gli Alleati chiusero un occhio e il Vaticano discretamente fece la sua parte. In fondo, anche se peccatori, erano “buoni cattolici e ferventi anticomunisti”. Così li raccomandò il loro vescovo Ivan Buchko.

Negli ultimi anni le insegne della Galizien si sono viste in alcuni cortei in Ucraina, fin quando un tribunale ha ufficialmente stabilito con una sentenza che quei simboli sono nazisti e pertanto sono vietati.

Ucraina tra Sparta e Atene

Tutti mi chiedono che faranno ora i Russi, che nel frattempo hanno ampliato la loro offensiva militare in Ucraina e puntano alle grandi città. Se lo sapessi non starei qui ma al NATO College o consulente ben pagato di qualche istituto di ricerca, anche se va detto che proprio molti analisti di professione hanno sottovalutato la situazione e non certo da ora. Per il resto ho le stesse informazioni che hanno gli altri: frammentarie, parziali e partigiane, mentre i giorni precedenti all’attacco sapevamo tutto sullo schieramento di terra e di mare, ripreso dai satelliti e divulgato in rete. Davamo per scontato che i Russi avrebbero occupato e annesso il Donbass e forse qualcos’altro in Crimea, ma lasciando l’armata ai confini come deterrente e strumento di pressione politica, con reali risultati sul medio e lungo periodo. Ha sconcertato tutti dunque la decisione di scatenare un’invasione su larga scala di un paese che gravita da sempre fra due culture diverse ma che è fondamentalmente europeo. Il problema è culturale: nella nostra mentalità non ritenevamo più praticabile una guerra su larga scala; al massimo era prevedibile l’annessione delle due zone dove la minoranza russa aveva proclamato l’indipendenza dall’Ucraina, superando gli Accordi di Minsk in realtà mai applicati per la resistenza anche proprio del governo ucraino, restio a concedere un’autonomia alle zone del Donbass. Governo che si direbbe difficile da inquadrare in uno schema preciso: per Putin l’Ucraina non esiste, va liberata e denazificata, mentre per noi è un paese sovrano libero di scegliere da che parte stare, anche se non è chiaro quanto abbiano pesato nel 2014 le offerte e le pressioni statunitensi ed europee per quello che ancora oggi viene descritto più come un colpo di stato che un vero processo democratico. Tutto infatti parte da qui: dal momento in cui l’Ucraina non ha firmato l’accordo doganale con la Russia e si è invece orientata verso l’Unione Europea, sganciandosi dunque dalla tradizionale area di influenza russa, ma senza immaginare che gli statunitensi non erano disposti a impegnarsi in profondità. Biden poi come presidente si è visto di che pasta è fatto: Afghanistan docet.

E parliamo della NATO. Una volta caduto il Muro di Berlino (novembre 1989) i paesi prima aderenti al Patto di Varsavia si sono man mano smarcati con la fine dell’Unione Sovietica (1991) e all’inizio del nuovo secolo sono entrati nella NATO. C’era un accordo non scritto per evitare l’espansione a Est di un’alleanza nata proprio per contenere l’URSS, ma questo non è stato rispettato, col risultato di frustrare i Russi e proiettarli nella classica sindrome di accerchiamento. Fino all’ascesa di Putin la Russia e il suo esercito stavano comunque a pezzi e il presidente Eltsin era debole. Da parte statunitense si è quindi fatto l’errore di confondere l’Unione Sovietica con la Russia e non prevedere la futura rinascita di una nazione fortemente coesa, Ora, si dirà: ma un paese che occupa undici meridiani può sentirsi accerchiato solo perché la terra è tonda?  Ebbene, chi ritiene Putin un uomo misterioso e la politica estera russa ambigua, bene farebbe a studiare storia moderna. Dai tempi di Pietro il Grande (regnò dal 1682 al 1725) la strategia russa è sempre la stessa: sbocco al mare (Baltico e Mar Nero), colonizzazione e sfruttamento della Siberia, contenimento dell’Islam (all’epoca incarnato dall’Impero Ottomano) e creazione in Europa di una fascia di sicurezza a spese degli altri (baltici, polacchi, ucraini, tedeschi, etc.). La popolazione russa è concentrata verso l’Europa e la Russia è un paese europeo, invaso ora dagli Svedesi, ora da Napoleone, ora da Hitler. Niente di strano che da sempre venga tenuta frapposta una zona di stati cuscinetto neutrali o vassalli. Esattamente quello che l’espansione della NATO ha Est ha distrutto, creando solo frustrazione. Resta casomai da capire perché una faccenda così importante non sia stata mai messa per iscritto e affidata solo a promesse verbali o a note di ambasciata. Lo stesso Putin, se voleva negoziare o rinegoziare con la NATO, ha avuto vent’anni di tempo, né gli mancavano certo gli strumenti di pressione diplomatica per frenare l’aggressività statunitense da Bush in poi. In fondo, l’autodeterminazione dei popoli non vale solo per il Kosovo e la NATO aveva mantenuto il carattere di un’alleanza esclusiva, concettualmente ferma alla divisione tra Est e Ovest. Integrare la Russia nel sistema economico e politico europeo si è visto che non è facile, vista la sua struttura di potere, ma c’è stato comunque un periodo in cui si poteva fare certamente di più.

Torniamo dunque un passo indietro. Dopo la Caduta del Muro (1989) l’Unione Sovietica si dissolve e al suo posto rinasce la Russia, mentre i paesi legati al Patto di Varsavia si rendono indipendenti dall’alleanza nata nel dopoguerra per contrastare la NATO. Tutto questo avviene negli anni ’90 del secolo scorso, in un momento di particolare debolezza per la Russia e la CSI (Confederazione di Stati Indipendenti) intorno al nucleo centrale. In questo contesto molti paesi dell’Europa Orientale chiedono di aderire sia all’Unione Europea (che a tutt’oggi conta 27 membri) che alla NATO (attualmente 30 membri, di cui 22 nella UE). Ma se la UE è un’unione politica ed economica, la NATO ha funzioni essenzialmente militari e l’articolo 5 prevede l’aiuto reciproco fra paesi membri in caso di attacco anche a uno solo di essi. E’ chiaro a questo punto perché le tre Repubbliche Baltiche o la Polonia hanno aderito alla NATO: non per invadere la Russia, ma per difendersi dai Russi. Neanche strano che Putin non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella NATO: finché ne resta fuori essa deve difendersi da sola, né c’è proporzione tra i due eserciti, come si è visto in queste ultime settimane. La Russia negli ultimi quindici anni ha investito molto sul rinnovamento e lo sviluppo delle sue forze armate, e soprattutto ha reagito nei tempi lunghi alla situazione di inferiorità in cui gli statunitensi l’avevano costretta. Non si può dunque comprendere la situazione attuale senza capire che la graduale estensione della NATO è stata sentita dalla Russia come una minaccia alle proprie frontiere, non più separate dall’Europa occidentale da una zona di stati-cuscinetto, di fatto vassalli. Ma se l’Unione Sovietica era finita, la Russia aveva invece le forze per rinascere, era solo questione di tempo. Sicuramente meglio sarebbe stato garantire una fascia neutrale, inserita nell’UE ma non nella NATO, oppure trasformare la NATO in un’Alleanza per la Sicurezza, inclusiva invece che esclusiva. Questo avrebbe meglio indirizzato gli sforzi, p.es., contro il pericolo islamista, con il quale i Russi devono confrontarsi sul terreno delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.

E passiamo ora all’Ucraina. Negoziati o meno, i Russi stanno distruggendo un paese con cui dovranno comunque convivere, non fosse altro perché metà delle famiglie ucraine ha parenti russi. Sicuramente pensavano di fare una guerra lampo, ma – come scrive Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928) “Non si aspettavano di trovare tanta resistenza”. Sempre la stessa storia: a Budapest (1956) o a Praga (1968) i carri armati russi entrarono da liberatori, salvo accorgersi che buona parte della gente la pensava diversamente. E se vogliono entrare in Kharkiv (già Kharkov: nella seconda GM ci hanno combattuto quattro battaglie!) o in Kiev (o Kjiv?) i soldati sanno che combattere strada per strada in città con uno o due milioni di abitanti è una rogna che può durare mesi e si traduce in una snervante guerriglia urbana. L’esercito ucraino è molto inferiore per qualità e quantità a quello russo, ma l’Ucraina è enorme e capace di resistenza diffusa. Si è anche parlato molto di guerra partigiana, ma su quello esprimo qualche dubbio: organizzarla richiede capacità superiori a quelle di un esercito regolare e infatti ha funzionato dove un forte partito nazionalista o comunista stava già sul terreno, o dove – penso alla Jugoslavia di Tito – una parte della difesa territoriale era stata organizzata per tempo decentrando i depositi di armi e carburante in luoghi meno accessibili e addestrando sistematicamente i riservisti su base locale. Distribuire armi o tenerle nei depositi di caserma da sola non basta se la gente non sa usarle o se i Russi sanno già dove cercarle. E sicuramente agiscono da mesi agenti infiltrati o collaboratori fidati.

Detto questo, un’ultima considerazione. Si può vincere sul piano militare, ma perdere sul piano strategico. Putin non può permettersi una guerra prolungata: la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia e la colonna di mezzi corazzati e logistici lunga 60-65 km che sta puntando su Kiev in tre giorni di autonomia consuma da sola qualcosa come 2 milioni di litri di carburante, più olii lubrificanti, viveri e munizioni. I russi che manifestano per la pace in quaranta città sanno bene che presto dovranno rifare le file per il pane come ai tempi sovietici e anche per questo stanno in piazza. Dico “anche” perché nessun russo percepisce gli ucraini come stranieri, mica sono ceceni o abkhazi. Quindi tutti hanno interesse al negoziato, anche se ci si poteva arrivare con meno spesa, lacrime e sangue. Tutti hanno bisogno di una soluzione onorevole. E se Putin cadrà (magari per la rivolta degli oligarchi), è perché l’Unione Europea ha dimostrato maggiore compattezza e sa diversificare le armi e gli strumenti di pressione. Nessuno se lo aspettava, ma sottovalutare le democrazie è un classico dei regimi monocratici.

Infine, una parola sui profughi. L’Italia è il paese europeo dove vive la più estesa comunità ucraina, in maggioranza lavoratori e lavoratrici di basso rango (le donne sono l’80%). Si spera che saremo capaci di accogliere degnamente le migliaia di profughi che fuggono realmente da una guerra. Finora si è registrata una grande empatia con il popolo ucraino, ora è il momento di passare ai fatti.

Schwa – il giuoco si fa duro

Quella che poteva sembrare l’iniziativa di qualche intellettuale sta stimolando una discussione non priva di “vis polemica” ma interessante: in genere la linguistica non occupa molto spazio nella cultura di massa e nell’informazione generalista. Lo schwa poi fino all’altr’anno lo conosceva solo chi aveva fatto studi universitari di filologia, tant’è vero che alla radio l’ho sentito pronunciare “shoah” per assonanza con qualcosa di meno elitario. Eh, già, perché questo segno grafico ora tanto popolare non è stato promosso dal basso, ma da persone molto istruite. Leggo sulla rivista Domani la risposta di Christian Raimo ai linguisti che – a cominciare da Franco Arcangeli –  hanno firmato una petizione per fermare questa deriva fonetica: si difende la tradizione, non l’italiano. Lo schwa – cito letteralmente – parte dalle “proposte che emergono nei movimenti femministi, transfemministi, nelle assemblee dove da anni discutono insieme studentesse e operai*, docenti e attivist*”. Nel testo l’autore non usa l’asterisco ma lo schwa, solo che la mia tastiera non è ancora inclusiva e sono quindi ricorso all’asterisco, privo però di valore fonetico. “Studentesse” invece se lo poteva risparmiare: studenti è un participio, come docenti e quindi neutro. Nell’articolo si difende la popolarità e la pronunciabilità dello schwa dicendo che in fondo è presente in alcuni dialetti meridionali (campani, molisano-abruzzesi e pugliesi, ndr.). Vero: tutto questo si deve alla metafonesi, un fenomeno linguistico per il quale un forte accento tonico al centro della parola tende a indebolire la vocale finale. Ma se l’italiano è più comprensibile di un dialetto irpino o lucano è proprio perché le vocali in sillaba libera (cioè in fine parola) sono pronunciate in modo chiaro e rendono espliciti i legami morfologici e sintattici con il resto della frase.

Su Micromega invece Vera Gheno (sociolinguista dell’Università di Firenze) riconosce allo schwa il carattere di esperimento, e sperimentare con la lingua non è vietato, anzi ne arricchisce le potenzialità. Verissimo: nessuno ha mai impedito a D’Annunzio e a Marinetti di sperimentare, anche se pochi oggi si esprimerebbero come loro. Ricordo benissimo Gianni Toti, “videasta poetronico” come si definiva lui stesso, e ricordo le sue inesauribili re-invenzioni linguistiche con cui animava la cultura romana negli anni ‘70. Ma una cosa è sperimentare, altro imporre agli altri le proprie scelte. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Ma può un singolo ufficio statale inserire in un documento ufficiale una nuova regola grammaticale e darle quindi valore normativo? E’ quello che si chiede il linguista Massimo Arcangeli nella sua petizione lanciata su Change.org, firmata da 22.000 italiani e non solo filologi e linguisti universitari.  In mezzo a questa discussione l’Accademia della Crusca ha dimostrato una grande onestà intellettuale, facendo capire che il suo compito non è imporre il cambiamento linguistico, ma di registrarlo e di renderlo norma solo nel momento in cui esso si è esteso e stabilizzato nella maggioranza dei parlanti. Ogni lingua è un organismo vivo e quindi si adatta di continuo alle nuove esigenze. Personalmente trovo stupenda la capacità della lingua angloamericana nel trovare un termine esatto e aggiornato per qualsiasi novità tecnica e culturale del momento, segno di una società ben più dinamica della nostra, la quale è come ingessata e timorosa del Cambiamento inteso come qualsiasi cambiamento.

Due parole però sulle minoranze organizzate. Alla fine sono loro che fanno da apripista alle riforme, alle novità culturali, alle leggi che estendono agli altri i diritti prima previlegio di un’aristocrazia, di un’élite. Ma spesso sono loro stessi un’élite (in italiano: “eran l’eletta e il fior d’ogni gagliardo”, così Ariosto nell’Orlando Furioso). Tutto bene? No: sorvolando sui no-vax, ho scoperto su Facebook alcuni gruppi trentini separatisti e persino un gruppo “Istria e Dalmazia né Italia né Croazia: Serbia”.  In quest’ultimo sono raccolti documenti, foro e dati statistici per dimostrare la presenza di comunità serbe in quelle zone dove  italiani e croati hanno versato fiumi di inchiostro e di sangue. Se è per questo, più di 10.000 serbi vivono a Trieste, dove c’è anche il bellissimo Tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. Ma ricordandomi che dopo la dissoluzione della Jugoslavia l’obiettivo di Milosevic’ era quello di riconnettere tutte le comunità serbe alla Grande Serbia attraverso operazioni militari, mi permetto di essere un po’ diffidente. Del resto nella provincia ucraina del Dombass la minoranza (?) russofona vorrebbe riunirsi alla Russia e i c.d. Accordi di Minsk stanno al palo. Dovevano sancire il cessate il fuoco, l’autonomia della regione e l’indissolubilità dell’Ucraina, ma per ora è un dialogo tra sordi.  Nella vecchia Europa occidentale abbiamo da tempo imparato a convivere con le minoranze, ma in quella orientale c’è ancora molto da fare.