Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Musei Militari da valorizzare

Pochi mesi fa, il 14 luglio, il Ministero della Difesa aveva rinnovato insieme al Ministero della Cultura la firma del protocollo d’intesa (la prima risale al 6 luglio 2016) per una eventuale concessione della gestione economica dei Musei storici militari italiani (1). L’accordo era stato ampliamente pubblicizzato: interessava 15 musei militari in 8 città italiane e prevedeva che la valorizzazione del patrimonio museale e la gestione economica si realizzasse “promuovendo una gestione economica efficiente ed efficace, anche mediante l’affidamento a terzi” (2). I musei qui indicati erano quelli della Fanteria, Granatieri, Motorizzazione, Genio – tutti a Roma – e della Marina a La Spezia. Ma proprio l’affidamento dei musei ai privati per renderne economicamente vantaggiosa la gestione ha trovato la ferma e convinta ostilità delle Associazioni d’Arma, che hanno espresso tramite Assoarma le loro riserve (3) così riassumibili: i musei militari sono permeati di valori ben diversi da finalità strettamente economiche e dunque non trasferibili ad ambienti culturalmente e ideologicamente estranei. Posizioni ribadite e amplificate nella pubblicistica di settore (4), dove si insiste sulla valenza di “Sacrario” dei musei militari. Di fatto le ditte invitate non hanno mostrato interesse alcuno, ma nonostante il parere delle Associazioni si era deciso di prorogare il bando, ora ritirato per mancanza di adesioni. E’ chiaro che i privati si sono fatti i conti in tasca, per quanto vantaggiosa sembrasse l’offerta e sottovalutando a mio parere le potenzialità dei musei e anche dei loro spazi esterni. Ma è proprio la stampa di settore a indicare senza volerlo i limiti dei nostri musei militari: proprio perché sacrari e raccolte di cimeli essi si pongono al di fuori della moderna gestione museale. Chi voglia aggiornarsi sull’argomento si guardi p.es. il sito del National Army Museum britannico, il museo dell’Esercito britannico (5). E’ un capolavoro di accoglienza: le ampie collezioni sono contestualizzate, la parte didattica è molto curata e una serie di esposizioni temporanee spazia letteralmente su più fronti. Inoltre ci sono una biblioteca e un archivio consultabili, quindi il museo è anche luogo di ricerca storica, né è esclusa la parte commerciale: nel negozio interno si vendono libri e gadgets. Passando invece a casa nostra, se alcuni musei sono ben organizzati, come quello dell’Aeronautica sul lago di Bracciano, la maggior parte di essi sconta non solo la mancanza di investimenti adeguati, ma anche alcune criticità strutturali, prima fra tutte la mancanza di una formazione specifica per i direttori, in genere scelti fra ufficiali d’arma in fine carriera; una selezione che non garantisce da sola competenza e progettualità. L’ideale sarebbe sottoporre i futuri direttori di museo militare almeno a un corso di formazione gestito dal Ministero della Cultura, il quale dovrebbe anche formare il personale addetto alla catalogazione e alla conservazione del materiale affidato. Per anni i reperti sono stati schedati senza seguire le linee guida della catalogazione museale fissati dall’attuale Ministero della Cultura, e troppe volte il materiale non esposto e conservato in magazzino – spesso donazioni private – è stato accantonato senza una catalogazione scientifica, col rischio reale di una sostituzione o sottrazione di cimeli a favore dei collezionisti. Un’altra carenza di gestione riguarda l’accoglienza. Si può anche spendere per l’immagine, ma se il museo è aperto solo la mattina e il personale militare lavora solo fino al mezzogiorno del venerdì, al museo non ci va nessuno se non le scolaresche e qualche appassionato, mentre i musei civici hanno da tempo modulato i propri orari di apertura sulle esigenze dei visitatori. In questo campo le Associazioni d’Arma, se hanno volontari disponibili, potrebbero contribuire alla gestione dei musei militari, sia nella sorveglianza dei gruppi di visitatori che nella gestione delle visite guidate, oltre che nei servizi di biblioteca e di archivio, lasciando ad eventuali ditte private la gestione della ristorazione o la promozione delle mostre temporanee e dell’ufficio stampa.

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Note:

  1. htpps://www.difesa.it/PrimoPiano/Firmato_protocollo_per_la_valorizzazione_dei_musei_militari.aspx
  2. htpps://www.difesaservizi.it/musei . Difesa Servizi S.p.A. è una società per azioni di cui è unico titolare il Ministero.
  3. Assoarma, verbale n. 04/21 riunione n. 171 del 1.07.2021, § 3: Punto di situazione sull’eventuale concessione della gestione economica dei Musei Storici Militari Italiani.
  4. Il Granatiere, n.3 /2021. Editoriale a firma del presidente nazionale ANGS gen. Garassino.
  5. https://www.nam.ac.uk/

Galileo Galivoi (o del politically correct)

Diverse people

Sul politically correct e la cancel culture è difficile non accorgersi dello iato tra le ossessioni anglofone e un generalizzato scetticismo “latino”, forse perché noi cattolici siamo per formazione meno intolleranti e rigorosi. Diciamolo: alla voce Union of Equality il manualetto della Commissione europea per la compilazione dei documenti ufficiali non convince: evitare di nominare il Natale, ladies & gentlemen, colonizzazione, Maria e Giovanni e gli anziani per sostituire questi termini poco inclusivi (?) con un lessico piatto e apparentemente neutrale, in modo che i buddisti, i disabili, le minoranze (?) etniche e i Lgbtq+ non si sentano discriminati – o peggio – si possano offendere, alla fine suona come una discriminazione alla rovescia dove, per evitare gli attriti, chi ha un’identità maggioritaria (ma in realtà in declino) può essere accettato da una minoranza organizzata solo se rinuncia alla propria identità e si autoesclude dal confronto democratico. Anche se alle parole corrispondono le cose (Wittgenstein), ho già scritto che è improbabile che una regola linguistica possa essere decisa dall’alto degli scranni dei burocrati di Bruxelles o dall’èlite di un campus universitario americano, a meno che queste leggi non ratifichino reali cambiamenti nella società, stabilizzati nel tempo e permeati nelle varie classi sociali. E non si venga a dire che sono regole interne d’ufficio: chi le impone pensa in grande e vuole imporle anche agli altri. Noi italiani ci siamo già passati quando il Duce aveva imposto il divieto di usare parole francesi e inglesi, con risultati grotteschi quanto certi eccessi del politically correct.  Questo non significa che una lingua non possa cambiare e che il suo uso non ratifichi o crei gerarchie, differenze e quant’altro: la lingua è lo specchio della società che ne fa uso per comunicare al suo interno e nelle relazioni con l’esterno, quindi è anche e sempre strumento di potere. Ma quando una cultura o una religione cercano di sopravvivere negandosi o facendo pubblica e sincera (?) confessione dei propri peccati, non è questa la soluzione. Ho citato le grandi religioni perché sono un classico esempio di organizzazioni mentali nate in altri tempi: laddove un’economia di sussistenza doveva mantenere costante una forza lavoro di pastori, agricoltori e guerrieri non c’era posto per aborto, omosessualità e libertà della donna, per cui trovo patetici gli sforzi di alcuni teologi di dimostrare – Bibbia o Corano alla mano – che Dio in fondo ama i gay e che Sodoma è stata distrutta da un meteorite (forse è vero, ndr.). Ma in una società moderna e secolarizzata un’istituzione antica ha solo due scelte: sopravvivere o aggiornarsi allo spirito dei tempi, allo Zeit Geist. Ma quanto può cambiare senza negare se stessa e sparire comunque per mancanza di identità? La questione è aperta e non riguarda solo la sfera religiosa, ma anche quella delle istituzioni civili: scuola, esercito, matrimonio, magistratura…

Scompartimento numero 6: Sfuggenti, casuali viaggiatori

Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice finlandese Rosa Liksom, nota in Italia anche per altri suoi libri (1). Chi li ha letti ha imparato ad amare i suoi personaggi usciti dal nulla, poco comunicativi, spesso in viaggio e frequentatori dei non-luoghi tipici del road movie. Qui siamo immersi piuttosto in un “rail movie”: i protagonisti viaggiano nello stesso scompartimento ferroviario e sono fin troppo diversi: una giovane, taciturna ricercatrice finlandese di archeologia e un giovane operaio russo, bullo e mezzo delinquente. Il libro è ambientato nell’Unione Sovietica di fine anni ’80 – ma davvero la Russia è cambiata una volta usciti dalle grandi città? – e si dipana per la Transiberiana. Qui però il film per esigenze narrative si concentra sul tratto San Pietroburgo – Mosca per poi puntare a nord verso Murmansk (mare Artico). La ragazza deve vedere alcune pitture rupestri, lui è stato assunto come operaio da una compagnia mineraria. Ogni volta che scendono dal treno di decente c’è solo la vodka, ma la vita a bordo non è facile: spazi stretti, convivenza difficile e lunghe soste in stazioni inospitali di città chiuse (2). Lui è brusco, ma si rivela generoso: ospita lei da una ciarliera vecchietta mezza parente, le rimedia una macchina (rubata?) e l’aiuta a cavarsela con russi disposti a tutto purché pagati: d’inverno il luogo dove si trova la zona archeologica è impraticabile e il meteo è proibitivo. Lei ha alle spalle una dolorosa storia d’amore (sembra; in realtà il suo malessere è più profondo) e in fondo si affeziona a questo simpatico mascalzone (diciamolo: è un classico) sfuggente quanto lei, ma più onesto di quanto sembra, mentre è proprio un connazionale della ragazza a rubarle la videocamera dove c’è anche il suo archivio personale. Ma è in fondo quando perde la memoria (digitale) che la ragazza si concentra su questo scontroso e solitario giovane russo, fin troppo caratterizzato (robusto, testa rasata, una cicatrice in fronte e l’aria spavalda; sembra uscito di peso da Educazione siberiana). Lo spazio claustrofobico dello scompartimento – a una stazione sale pure una famiglia con bambini – si alterna al lusso del vagone ristorante, dove a fine viaggio però servono solo panini (3). Inospitale è invece l’esterno: quando arriveremo a Murmansk e infine all’isolotto dove si trova questa famosa zona archeologica, ci ritroviamo in capo al mondo fra relitti di navi e inquinamento industriale. Lei vorrebbe in fondo legarsi a quest’uomo, ma lui non si fa mai prendere. Alla fine inevitabilmente si separano, ma ormai sono tutti e due cambiati interiormente e la convivenza in fondo non è stata così drammatica come si pensava all’inizio. Merito del film è infatti una ripresa fatta esclusivamente con camera a mano (molto realistica) e una sceneggiatura che riesce sempre a tenere sospesa l’attenzione dello spettatore. L’idea della convivenza forzata di caratteri diversi e di incontri improbabili durante un viaggio in un piccolo spazio chiuso non è nuova: è introdotta per la prima volta in un racconto di Balzac, Palla di sego (4) e ripresa da decine di film, persino in Ombre Rosse di John Ford. Qui il regista finlandese Juho Kuosmanen sfrutta al massimo le differenze culturali e caratteriali dei due protagonisti, con effetti anche divertenti. Il film è stato presentato al Festival di Cannes quest’anno e ha conquistato il Premio Grand Prix Speciale della Giuria.


Note:

  1. Stazioni di transito (1985, ed. it. 2012) e Memorie perdute (1986, ed. it. 2003) sono raccolte di racconti, mentre sono romanzi La moglie del colonnello (2019, ed. it. 2020) e Scompartimento n. 6 (2011, ed. it. 2014). La traduttrice è Delfina Sessa.
  2. Alcune città russe sono chiuse agli stranieri o a chi non ci lavora. Vi sono concentrate le industrie militari o comunque strategiche e sono del tutto prive di interesse per un turista. Vedi: https://www.iltascabile.com/societa/citta-chiuse/
  3. In Transiberiana , di Marco Pellegrino (1992) testimonia che in molte stazioni sovietiche cuochi e i ferrovieri si rivendevano i viveri pregiati, traffico che avveniva alla luce del sole.
  4. https://www.salernoeditrice.it/prodotto/palla-di-sego/

Scompartimento n.6
(Hytti nro 6)
Regista: Juho Kuosmanen
Con: Seidi Haarla e Yuriy Borisov
Genere: Drammatico
Anno: 2021
Paese: Finlandia, Russia, Estonia, Germania
Durata: 107 min
Data di uscita: 02 dicembre 2021
Distribuzione: BIM Distribuzione


QUANDO L’ARTE VA A RUBA

Esattamente. Fabio Isman, noto giornalista, non è nuovo all’rgomento (1) e qui fa un’impietosa storia dei furti d’arte nei secoli e attuali. E’ un libro pieno di immagini e si legge come un poliziesco: la repressione del traffico di opere d’arte e il recupero richiedono specialisti e noi abbiamo il Nucleo patrimonio artistico dei Carabinieri. Il problema è che l’Italia ha un patrimonio artistico e archeologico immenso, distribuito in tutto il territorio nazionale fra musei, collezioni private, chiese, aree archeologiche e quant’altro. L’autore però fa una doverosa distinzione tra saccheggio e furto: le opere d’arte di una cultura superiore sono spesso state distrutte da un invasore meno colto, oppure saccheggiate per arricchire le collezioni nazionali. Conservo il catalogo del Museo di Mosul, le cui statue sono state distrutte dall’ISIS o rivendute sul mercato nero via Siria o Libano. Ma già Cicerone difese i siciliani nel processo contro Verre, un rapace governatore che aveva spogliato la ricca provincia da tutte le opere d’arte – statue e altro, in quello pari a Napoleone o al gerarca nazista Hermann Goering. Non che i Romani non riportassero dalla Grecia statue di marmo e di bronzo: le tante copie nei nostri musei suggeriscono una grande disponibilità di opere originali. Ma c’è differenza tra l’uso pubblico del maltolto, che va ad arricchire musei e opere pubbliche stranieri, e invece l’arricchimento personale, spesso maniacale. In più un mercato alla ricerca continua di opere d’arte su cui speculare sviluppa da sempre l’ingegno e l’abilità dei falsari, alcuni dei quali si sono dimostrati veri artisti. Come è oggi più difficile aggirare i sistemi di allarme di un grande museo, è ancora più difficile spacciare un falso: la tecnologia fornisce strumenti che prima non esistevano (raggi X, termoluminescenza, microscopio a scansione). Eppure qualcuno ci casca sempre, complice l’avidità, la segretezza delle trattative e l’intermediario consapevole dell’ignoranza del cliente. E parliamo anche di grandi musei!

Detto questo, i capitoli si dipanano secondo temi emblematici: il senatore giamaicano e le copie del marmista, le conquiste militari e l’antico, i feticci: la Gioconda e Caravaggio, all’estero: da Oslo a Dresda, il diario di un tombarolo… ogni pagina narra di ruberie, alcune facili – le opere nelle chiese, le necropoli etrusche – e altre dovute a chi doveva invece proteggere il patrimonio affidato. E qui basta citare la Biblioteca dei Gerolimini a Napoli, il più sfacciato dei furti di libri antichi. Ma spesso la motivazione non è economica: l’italiano che rubò la Gioconda (ne fecero anche un film) lo fece per riportarla in Italia, ignorando persino che Leonardo stesso la portò con sé in Francia. C’è verso alcuni autori un vero e proprio feticismo di massa (pensiamo a Picasso o a Bansky) e naturalmente salgono quotazioni, falsi e furti. Alcuni mercanti d’arte sono se non ricettatori, perlomeno ambigui: penso a Hildebrand e Cornelius Gurlitt (padre e figlio), i quali comprarono in svendita sia opere di ricchi ebrei “spariti” che opere di “arte degenerata”, come veniva definita dai Nazisti l’Avanguardia (2), forse anche per rivenderle all’estero per conto di Goering. Il gran finale? La collezione di Gurlitt figlio (morto nel 2014) fu scoperta quasi per caso – 1700 opere, alcune inedite – e il proprietario alla sua morte le ha donate al museo di Berna, con la clausola di restituire le opere ai legittimi proprietari o discendenti, sempre che ve ne fossero ancora. E qui va eretto un monumento a tutti quelli che – storici dell’arte, direttori di museo, collezionisti onesti, Carabinieri e Finanzieri – silenziosamente fanno ogni giorno indagini e mantengono discreti contatti con intermediari, mercanti d’arte e polizie locali, pronti pazientemente a chiudere le maglie delle loro reti al momento opportuno. Purtroppo ci vuole invece un esercito di funzionari e avvocati per farsi restituire le opere di provenienza non registrata presenti p.es. nel Museo Getty, anche se abbiamo avuto funzionari del calibro di Rodolfo Siviero e del colonnello Conforti. Purtroppo per anni le leggi di Svizzera e Regno Unito erano molto generose con il traffico di opere d’arte (da noi il principio della tutela risale al 1939) e le vie del contrabbando sono infinite, senza parlare dello strano interesse delle mafie per alcuni capolavori (un Caravaggio rubato in Sicilia potrebbe non aver mai lasciato l’isola). Quadri ritrovati magari in Ucraina, dove erano stati spediti per posta (!) prima di essere acquistati dai mafiosi russi. Si scopre magari che i ladri non erano professionisti, come sicuramente non erano quelli che rubarono anni fa il Bambinello dalla basilica romana dell’Ara Coeli; un vero peccato, perché per paura l’hanno sicuramente distrutto. Ma se si pensa alla facilità di uno scavo clandestino e alla mancanza di buoni allarmi fino a pochi decenni fa, si capisce che spesso non serviva grande professionalità criminale. Alcuni musei (Oslo, p.es.) sono stati depredati a mano armata, tecnica insolita nel mondo dell’arte. In più abbiamo le new entries: i cinesi sembrano interessati a riprendersi (illegalmente) le opere d’arte che appartengono alla loro cultura; lo suggerisce l’aumento di furti di arte orientale in tutta Europa. Ma il vero problema è che molte opere sono immesse nel mercato nero prima di essere registrate, o perché frutto di scavi clandestini (sui tombaroli c’è un intero capitolo), come la Triade Capitolina, o perché molti musei hanno nei depositi molto materiale (magari frutto di donazioni private) non ancora catalogato, quindi più facile da rivendere. E se un quadro viene schedato in modo sommario come “Madonna con bambino” , il rischio aumenta. Ricordiamocelo: in Italia vengono rubate ogni giorno opere d’arte, un’emorragia continua. Il libro di Fabio Isman – ripeto – si legge d’un fiato come un libro di investigazione. Ma purtroppo è tutto vero.

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Note:

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Fabio_Isman , vedi Opere

Quando l’arte va a ruba.
Furti e saccheggi, nel mondo e nei secoli
Fabio Isman
Editore:Giunti, 2021, pp. 224 p.

EAN: 9788809958746

Prezzo: € 29,00


La propaganda dei nuovi Ottomani, l’Islam e l’Europa

E’ sempre interessante vedere come gli altri vedono e presentano se stessi. Prendiamo la Turchia di Erdogan. A Istanbul dire Yeşilçam sokak è come qui dire Cinecittà e anche in Occidente c’è grande consumo di serie televisive turche (loro le chiamano dizi, cioè serie). Si tratta di prodotti commerciali con bei panorami sul Bosforo, ambienti di lusso e sofferte storie d’amore: Daydreamer – Le ali del sogno, Cherry Season – La stagione del cuore, Bittersweet – Ingredienti d’amore (1). Nulla a che vedere con quanto viene invece diffuso sul mercato turcomanno e musulmano, dove invece predomina la narrazione non solo di tensioni familiari e contrasti tra classi sociali differenti (ispirate al canone mediorientale tradizionale), ma sono frequenti anche i complotti diplomatici. E soprattutto viene esportata l’immagine dell’Impero Ottomano come supremo regolatore dei conflitti tribali e delle divisioni etniche, portatore di pace e benessere e di un’amministrazione rispettosa delle autonomie e delle culture locali. Il che è storicamente attendibile, ma questo tipo di sceneggiati ha preso piede solo da quando Erdogan ha smesso di cercare un’improbabile integrazione europea e si è orientato verso un nuovo imperialismo neo-ottomano, con forti conseguenze anche sul clima culturale del paese. I produttori locali smettono allora di inseguire modelli e format di Hollywood, ripartendo dalla messa in scena di epici sceneggiati basati sui grandi romanzi turchi del secolo precedente o su personaggi storici del periodo imperiale, seguendo una precisa ideologia. Da lì a passare all’esaltazione dell’Impero Ottomano il passo è breve.

Impero che ha salvato… gli Ungheresi. Non è uno scherzo: ho qui sottomano un articolo in inglese: Ottomans saved Hungarian PM Orban’s Ancestors; now he says Islam never part of Europe (2). Autore ne è Juan Cole, un accademico americano specializzato nello studio del Medio Oriente ma spesso accusato di imparzialità (3). La sua tesi è che l’Europa è una costruzione ideologica e che gli antenati degli Ungheresi sono venuti dopo gli Arabi in Spagna e che in fondo  tutti hanno invaso l’Europa, anche i Cristiani (!), che Juan Cole considera respinti fino al tempo di Costantino. Morale: dunque l’espansione turca è legittima e l’Islam fa parte della civiltà europea, visto che gli unici indigeni sono i Baschi. Il che è falso: venivano dall’Africa via Gibilterra, quindi erano invasori pure loro. Sempre poi che esista il diritto di invasione e che i Lituani debbano ringraziare i Sovietici perché li hanno salvati dai Polacchi.

Che l’Europa sia una costruzione ideologica che trascende la sua realtà fisica e geografica è vero: non si parla di Europa prima del medioevo e su questo ho anche scritto in questa sede. Concordo con Juan Cole anche su un altro concetto: nella sua essenza l’Europa non è una realtà immutabile, ma dinamica: è il punto terminale delle migrazioni afroasiatiche e il processo è tuttora attuale. Chiamatele invasioni, ma la sostanza non cambia: provenendo dall’esterno, ogni nazione prima o poi si è imposta con la forza sovrapponendosi alle ondate precedenti e integrandosi con la popolazione locale. In questo modo tutte le ondate che hanno invaso l’Europa hanno poi contribuito a creare la massa critica che poi ha permesso l’espansione della civiltà europea in tutto il mondo, anche se ora certa storiografia americana ne parla come fosse un romanzo criminale. Il punto debole dell’analisi di Cole è non realizzare che tutte quelle ondate si sono poi espanse fuori Europa, tutte tranne una: quella islamica, storicamente espulsa sia dalla Spagna che dalla Sicilia e dai Balcani fino ai Carpazi, perlomeno nella misura in cui è stato militarmente possibile (l’ultimo, antistorico tentativo risale alla recente guerra civile jugoslava). L’islam è comunque rimasto nella fascia balcanica albanese, bosniaca, kossovara, macedone e forse anche montenegrina, sia a livello religioso e culturale che nel DNA e nei caratteri somatici delle varie popolazioni: è normale che persino i tentativi più radicali di espulsione sociale non penetrino mai in profondità. Un progetto politico e religioso deve sempre fare i conti con la realtà e ha successo dove un fattore esterno non è ancora penetrato in profondità ma resta superficiale. Il problema è che l’Islam è uno dei tanti apporti esterni alla cultura europea, ma non è mai riuscito a diventare Europa almeno per come l’abbiamo intesa fino a poco tempo fa. E non possiamo capire gli atteggiamenti dei governi slovacco e ungherese, polacco, greco e serbo facendo finta di non sapere che l’Europa orientale è stata soggetta per secoli alla dominazione ottomana, peraltro tollerante delle culture locali come qualsiasi grande impero (è una necessità funzionale) ma che non ha mai portato a un vero sviluppo moderno dell’area, mantenendo strutture sicuramente più adatte alle società mediorientali e ritardando l’ingresso di quelle nazioni nella rivoluzione industriale.

Note:

  1. https://www.iltascabile.com/societa/telenovelas-turche/
  2. https://www.juancole.com/2015/10/hungarian-ancestors-protected.html
  3. https://en.wikipedia.org/wiki/Juan_Cole (la versione in italiano è scarna)

Europa: identità per esclusione

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