In Canada si bruciano i libri (1). Quasi cinquemila volumi sono stati ritirati dalle scuole di un istituto nell’Ontario e una trentina sono stati bruciati nel 2019 per un rito contro il razzismo. Tutto questo per una campagna di rivendicazione dei nativi americani che rasenta il delirio. Il rogo dei libri dell’istituto scolastico cattolico Providence, che raccoglie circa una trentina di scuole francofone nel sud dell’Ontario, in Canada, è soltanto l’ennesimo episodio di cancel culture , ma in Europa risveglia ben altre memorie. Ma dal Canada ci rassicurano: le ceneri dei libri bruciati sono state raccolte e poi seppellite ritualmente o usate come concime per nuovi alberi piantati in loco (2): “Sono le ceneri del razzismo, della discriminazione e degli stereotipi. La speranza è che cresciamo in un paese inclusivo in cui tutti possano vivere in sicurezza e prosperità”. Inclusivo e sostenibile, siamo alle solite. In dettaglio, si sono espunte tutte le pubblicazioni – fumetti inclusi – dove i nativi americani (una volta chiamati indiani o pellirosse) sono rappresentati secondo stereotipi coloniali o paternalistici. Ne fanno le spese anche Tintin nelle Americhe, La Conquista dell’Ovest di Lucky Luke, Asterix e gli Indiani. Ma quel punto si salva forse solo qualche testo di antropologia. “Le persone si spaventano di fronte ai libri bruciati, ma qui si parla di milioni di opere che danno un’immagine negativa degli autoctoni, perpetuano stereotipi terribili e dannosi”, spiega Suzy Kies, autodefinitasi “guardiana del sapere autoctono”, consulente della scuola e a capo del Comitato dei popoli autoctoni del partito liberale canadese. Nel frattempo la Kies, che per giunta si era inventata false origini autoctone, in seguito alle polemiche (nel frattempo si era in campagna elettorale) ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di co-presidente della Commissione dei popoli autoctoni del Partito Liberale di Justin Trudeau. Si è anche detto che l’iniziativa doveva partire dai nativi e non da chi se ne fa interprete. Qualcosa di simile a quanto avviene da noi con i Rom: chi li difende o li rappresenta raramente è un Rom.
Detto questo, come bibliotecario lo scrivo a chiare lettere: non vedo differenze con i roghi dei libri (Bücherverbrennungen) organizzati dai Nazisti nel 1933. Anche loro erano convinti di essere dalla parte della Storia e hanno per questo eliminato dalle biblioteche i libri non in linea con le loro idee. Immagino anche che i talebani si stiano dando da fare per purificare le biblioteche pubbliche e universitarie afghane.
La soluzione? Quella seguita da alcune biblioteche pubbliche e scolastiche: storicizzare quanto diventa superato dalla tecnica e dalla politica e collocarlo in sezioni specializzate e chiaramente identificabili. Un istituto tecnico romano (il Leonardo da Vinci) ha separato i testi aggiornati da quelli superati, creando una biblioteca di storia dell’insegnamento tecnico e collocando nell’altra sezione tutto quanto è invece utile agli studenti. Un’altra biblioteca (la Lorenzo Lodi, anch’essa romana) ha una sezione dedicata al Fascismo storico. Come dire: quei testi dai titoli roboanti e autocelebrativi ormai non vanno presi sul serio, ma sono lo specchio di un’epoca e per questo vanno studiati in modo critico, distaccato. Vanno conservati come documenti storici, ma fornendo ai giovani gli strumenti per decodificarli col dovuto distacco razionale. La carta IFLA che stabilisce gli standard internazionali per le biblioteche pubbliche parla chiaro: nessun testo deve essere discriminato, nessun lettore escluso (3). Ma è triste pensare che misure pensate per prevenire abusi in paesi poco democratici debbano essere fermamente ribadite anche nella nostra cultura.
Tutti hanno scritto qualcosa sulla caduta di Kabul, ma io ho voluto aspettare. Intanto sono andato a rileggermi i libri e gli articoli scritti negli ultimi anni da giornalisti, militari e attivisti di ONG, sia italiani che americani e britannici, presenti comunque sul terreno: li trovo più attendibili di chi ora parla da “esperto”. Il quadro era più o meno coerente e pessimistico: molti progressi nel campo dell’educazione e dei servizi, ma scarso controllo del immenso territorio e seri dubbi sulle reali capacità del governo afghano e del suo esercito di sapersela cavare da soli. Quindi una situazione comunque tarata all’origine; incredibile è stata solo la velocità del collasso non appena ritirate quelle che gli afghani sentivano come truppe di occupazione straniere. La classe dei notabili afghani ha i suoi torti – la corruzione per prima – ma saprà poi adattarsi a chi è più forte. Noi invece abbiamo sprecato risorse e perso una guerra durata vent’anni. Dico “noi” perché dopo la missione Enduring Freedom (gestita da USA e UK) la missione ISAF e la successiva Resolute Support hanno impegnato a rotazione almeno 50.000 militari italiani (1). Dicono che abbiamo fatto un buon lavoro con la gente, ma è ancora presto per capire se i risultati saranno duraturi. Sicuramente la società afghana non è oggi quella di vent’anni fa (almeno nei grandi centri), ma confidare nei “talebani moderati” è perlomeno azzardato (2). Se democrazia significa dare spazio a tutti, un regime autoritario prevede al massimo l’accordo tra capi ed etnie. Se poi la democrazia può essere esportata o imposta, è un altro discorso. Le premesse per una vera democrazia non comprendono solo libere elezioni e candidati credibili, ma anche la divisione costituzionale dei poteri, una coscienza civile e soprattutto l’idea che chi perde non va ammazzato. Inutile poi aggiungere che la modernità è laica e che il diritto romano è stato scritto dagli uomini. Ma a leggere i siti filo-talebani (ora oscurati) trasuda ancora la retorica della “guerra di popolo” e la narrazione della gente che spontaneamente si schiera coi talebani, mentre è noto che nella guerra partigiana il controllo del territorio viene spesso gestito con modi spicci: o sei con noi o contro di noi.
Riavvolgiamo ora il film per capire insieme cosa non ha funzionato. Intanto, qual’era l’obiettivo al momento dell’invasione del 2001? La distruzione dei “santuari” dei terroristi ospitati dal regime dei talebani e la cattura di Bin Laden. Col tempo l’obiettivo è cambiato (vedi cronologia in fondo): la ricostruzione del paese e la creazione di un esercito nazionale afghano, anche se il presidente Biden dà valore solo al primo obiettivo. E qui le cose sono due: o ce ne siamo andati troppo tardi (morto Bin Laden, perché rimanere?) o troppo presto (la ricostruzione è incompleta). Io vedo invece uno schema analogo alla guerra del Vietnam, con le stesse fasi: prima si cerca di distruggere la guerriglia, poi si punta a consolidare la società civile, infine si affida alle forze locali la difesa del proprio destino. Salvo poi scoprire che la guerriglia è difficile da estirpare; che finanziare la ricostruzione richiede un serio controllo sulla gestione degli aiuti; e che addestrare i soldati locali secondo i nostri criteri funziona solo finché ci siamo dietro noi con la nostra superiore tecnologia e logistica. In ogni caso, l’obiettivo deve essere sempre uno solo e chiaro fin dall’inizio, come chiare devono essere le regole d’ingaggio per i nostri soldati. Ma se l’obiettivo non è chiaro o viene cambiato in corso d’opera (come successe in Somalia nel 1992) (3) i risultati possono essere disastrosi.
Passiamo all’altro problema: cosa sapevamo realmente dell’Afghanistan, un paese immenso, lontano, gestito da etnie diverse, privo di strade, difficilmente governabile dal centro, socialmente diverso, culturalmente arretrato e in più islamico? Questo non significa che militari, funzionari civili e volontari delle ONG non fossero onesti. Il problema è farsi capire dalla gente. In Afghanistan i Sovietici (1979-1989) crearono lo scontento con la collettivizzazione delle terre dei latifondisti, ma costruirono scuole, ospedali, strade, uffici e impianti sportivi. E soprattutto, tutto fu gestito direttamente. Sotto gestione americana invece la ricostruzione è stata affidata al Provincial Reconstruction Team (PRT)(4) gestito soprattutto da istituzioni e aziende private, magari non tutte serie e ideologicamente solide come Emergency del compianto Gino Strada, per non parlare delle intermediazioni parassitarie dei notabili locali e dei funzionari governativi. Frequente la lamentela della popolazione locale: tanti progetti, nessun attore, pochi cambiamenti nella condizione sociale ed economica della gente (5). Giusto ieri Emma Bonino ribadiva la priorità di una gestione pubblica e coordinata (europea) per gli aiuti umanitari e l’assistenza ai profughi. Altri progetti non sono partiti per la mancanza di sicurezza. Ma allora il problema era posto male: la priorità era la parte militare; nessuna impresa civile rischia uomini e capitali se non vengono garantite le ordinarie misure di sicurezza. E ora le immense risorse minerarie scoperte nel 2010 saranno sfruttate da altri, sempre che i talebani garantiscano la sicurezza: si tratta di gestire enormi investimenti per un arco di decenni, vista la mancanza di strutture e di infrastrutture. In fondo basta l’oppio. Sono stati spesi miliardi per convincere i contadini a coltivare qualcosa di diverso e non ha funzionato. Non sono poi stati distrutti i campi d’oppio per mantenere il consenso dei contadini ed evitare che andassero coi talebani. E non ha funzionato neanche quello. Colpa nostra: l’oppio lo esportano, ma i clienti siamo noi.
Altro errore: voler costruire un esercito nazionale afghano modellato su quello americano, con tutta la tecnologia e l’appoggio di fuoco che hanno solo loro. Quasi 90 miliardi di dollari buttati, più tutte le armi e i mezzi regalati ora ai talebani. I comunicati ufficiali anche italiani (6) sono sempre stati ottimisti, anche se si doveva ammettere che le reclute afghane erano analfabete e poco motivate e che frequenti erano i malintesi dovuti a differenze culturali. Gli afghani sono guerrieri duri e coraggiosi, ma solo finché si battono alla maniera loro, cioè con la guerriglia e per bande tribali. Arruolare reggimenti di linea formati da analfabeti e dotarli di armi moderne significa creare una totale dipendenza da specialisti stranieri e dall’appoggio dell’aviazione. In più – per ovvi motivi – gli eserciti NATO dovevano avere meno perdite possibili, quindi la prima linea toccava a loro, agli afghani. In fondo dovevano difendere casa loro o no? Ma anche con tutto l’appoggio di fuoco possibile, quella che si è rivelata debole è la motivazione dei soldati afghani, vista anche la corruzione dei comandanti, fino a giungere a una sorta di 8 settembre in salsa afghana. Un aspetto sottovalutato è che la guerriglia non si può separare dalla politica: le poche vittorie reali (come quella degli inglesi in Malesia, 1948-1960) si devono a un’accorta gestione sia militare che politica della situazione, evitando rappresaglie sulla popolazione civile.
Infine, mi viene in mente una frase che pronunciò il gen. Franco Angioni in una conferenza sulla Bosnia: non si deve mai negoziare senza un deterrente. Trump invece nei colloqui di Doha con i talebani ha concesso tutto senza condizioni. A parte l’esclusione del governo afghano (come dire…), nessuno degli impegni sottoscritti (ma il testo ufficiale potrebbe avere clausole segrete) era controllabile sul terreno. Anche se i cittadini statunitensi si erano stufati di finanziare una guerra lontana dai propri confini e anche se – a parte Bush jr. – tutti gli altri presidenti (Obama, Trump, Biden) in fondo volevano solo uscire dalla trappola afghana, le modalità accettate da Trump e addirittura affrettate da Biden sono oggettivamente un disastro. Che senso ha – come ha fatto Obama nel 2014 – fissare la data del ritiro? E’ chiaro che il nemico aspetta. Peggio ancora ritirare prima i soldati e poi i civili, salvo dover rimandare i soldati a gestire l’esodo disordinato dei propri collaboratori. Il ponte aereo da Kabul ricorda quello di Berlino del 1948, ma il contesto è diverso: caos completo e il rischio reale di non poter evacuare tutti gli afghani in pericolo: non ci sono proroghe e gli alleati della NATO non sono stati neanche sentiti, come se fossimo solo i vassalli degli americani. Le perdite alleate sono oltre il migliaio, abbiamo anche noi sputato sudore e sangue e alla fine neanche chiedono il nostro parere, dimostrando un atteggiamento diciamo unilaterale. Si auspica da parte della NATO – gli europei e i canadesi, intendo – una minore passività. La NATO era nata per difendere l’Europa, ma poi è diventata una coalizione buona per fare la guerra in mezzo mondo. Peccato che siano tutte guerre perse o a metà.
Infine: in che mani siamo? Stiamo parlando di professionisti della politica, della guerra e delle scienze sociali che hanno studiato nelle più prestigiose scuole e centri di ricerca e una volta in pensione sono assunti dalle industrie o diventano esosi conferenzieri universitari. Suggerisco la lettura di due documenti reperibili in rete. Il primo è uno studio sulla discrasia fra presidenti che non capiscono niente di cose militari (con l’eccezione di Eisenhower, che era un generale) e i militari che sanno gestire la parte tecnica di una guerra ma non ne capiscono le implicazioni politiche e sociali (7). L’altro documento è una lunga intervista al generale Petraeus, probabilmente il miglior comandante americano degli ultimi anni (8). Gli errori sono elencati tutti, e detto da lui possiamo crederci: aveva realmente stabilizzato l’Irak e contribuito al più recente manuale di contro-insurrezione, dove si tiene conto forse per la prima volta della cura per la popolazione civile (9)
Ma i risultati finali li vediamo nelle masse di disperati all’aeroporto di Kabul, più quante ne vedremo nei prossimi mesi. Perché un paradosso delle guerre recenti è che la ricostruzione del paese liberato non è più a carico del vincitore, come all’epoca del piano Marshall, ma di chi ha perso, il quale per sensi di colpa o per escludere i cinesi o pur di non vedersi occupato da mezzo milione di profughi poveri e musulmani è ben disposto a sostenere economicamente il nemico vittorioso.
NOTE
CRONOLOGIA: 7 ottobre 2001 – Parte l’Operazione Enduring Freedom. Stati Uniti e Regno Unito avviano una campagna di bombardamenti aerei contro Al Qaeda e i talebani, mentre sul terreno va avanti l’offensiva dell’Alleanza del Nord. 14 novembre – Kabul cade, i Talebani si ritirano nella roccaforte di Kandahar, che cadrà il 9 novembre, segnando la fine dell’Emirato islamico. 5 dicembre – l’Onu forma l’International Security Assistance Force (ISAF) per mantenere la sicurezza in Afghanistan e assistere il governo di Kabul. Dell’ISAF farà parte anche un contingente italiano, schierato prima Kabul e poi a Herat. Aprile 2002 – George W Bush propone un piano per la ricostruzione dell’Afghanistan. 1 marzo 2003 – Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld dichiara la “fine dei combattimenti”. L’8 agosto la Nato assume la responsabilità della missione ISAF. 14 dicembre 2003 – La Loya Jirga con 502 delegati prepara una nuova costituzione afgana. 9 ottobre 2004 – Hamid Karzai vince le elezioni ed è proclamato presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Nel 2009 Karzai viene confermato per un secondo mandato. 2005 – Insurrezione talebana dopo la decisione del Pakistan di collocare 80.000 soldati al confine con l’Afghanistan. Luglio 2006: si moltiplicano gli attacchi suicidi e gli attentati con mine stradali. Maggio 2009 – Il Pentagono nomina capo delle operazioni militari il generale Stanley McChrystal, che teorizza la necessità di ridurre i “danni collaterali”, cioè le vittime civili. Dicembre 2009 – Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama invia altri 33mila soldati statunitensi in Afghanistan. In totale le truppe internazionali sono 150mila. 1 maggio 2011 – In un raid in Pakistan, truppe speciali Usa uccidono Osama bin Laden. Dicembre 2011 – Conferenza di Bonn per avviare il ritiro delle truppe internazionali e la ricostruzione dell’Afghanistan. Giugno 2013 – L’ISAF trasferisce la responsabilità della sicurezza alle forze afgane. Il 21 dicembre 2014 Ashraf Ghani e il rivale Abdullah Abdullah si accordano per dividere i ruoli nell’amministrazione dell’Afghanistan. 28 dicembre 2014 – L’ISAF lascia il posto a Resolute Support, con compiti di assistenza alle forze afgane. Agosto 2017 – Donald Trump rende pubblica l’intenzione di ritirare le truppe il prima possibile. 2018 – Talebani e delegati Usa avviano trattative di pace ad alto livello a Doha, in Qatar; il testo è firmato il 29 febbraio 2020. Finalmente il 30 giugno 2021 i soldati italiani tornano a casa da Herat. Agosto 2021: il finale lo vediamo ogni giorno.
Ennio Flaiano disse una volta: “ma che significa sano erotismo? Come dire una bella dentiera”.
Nel 1992, la grave crisi umanitaria che stava sconvolgendo la Somalia indusse le Nazioni Unite ad un intervento armato nella regione, concretizzatosi con le missioni UNOSOM I (1992), UNITAF (1992-1993) e UNOSOM II (1993-1995). Tuttavia una cattiva gestione delle operazioni vanificò l’intervento. Anche qui gli Stati Uniti crearono non pochi problemi cambiando da un giorno all’altro la natura della missione e mettendo i nostri soldati nei guai.
Non so quanti conoscano l’opera fotografica di Grigori Galitsin. A vederlo, non ha niente del fotografo glamour, sembra più un contadino uscito da un racconto di Tolstoji. Nato nel 1957 in Ucraina (URSS), si è diplomato a Leningrado studiando prima pittura e poi fotografia, iniziando a lavorare nel 1997 con una Leica donata da suo nonno che l’aveva comprata da un ufficiale tedesco. Trasferitosi a Volgograd (già Stalingrado) nel 1996, l’anno successivo vince un premio Kodak e soprattutto inizia a specializzarsi nella fotografia erotica, alimentando i primi siti web del genere: MET-ART e DOMAI e poi gestendone dal 2002 uno tutto suo, Galitsin Archives. Entra in società col suo collega norvegese Petter Hegre (anche lui dedito alla foto erotica) per litigarci nel 2004 e fondare Galitsin News, seguito nel 2006 da Nud-Art. A Volgograd lo studio era nel suo appartamento e la sua attività era ignota ai vicini, al massimo incuriositi dal suo alto tenore di vita. La maggior parte delle foto era scattata nei dintorni di Volgograd o in un albergo di Mosca. I primi guai li ebbe con l’India, dove in un “salone” aveva realizzato un servizio sul massaggio ayurvedico non gradito alle autorità indiane. Il video era stato postato su Galitsin News. Ma il peggio doveva venire: nel 2006 fu arrestato insieme alla moglie Irina (1) dalle autorità russe con l’accusa di aver violato gli articoli 133 e 242.1 del Codice penale russo (coercizione tramite ricatto per commettere atti sessuali; produzione e diffusione di materiale pornografico con minori). Il 26 ottobre Galitsin si appellò direttamente a Putin, ma ancora nel 2007 il processo non si era concluso. Nel 2009 lui e la moglie uscirono di prigione, anche se la vicenda ebbe ancora strascichi giudiziari. Nell’ottobre del 2014 lui, la moglie e i due bambini (ora sono tre) si trasferiscono in una fattoria nel distretto di Volgograd dove i risparmi erano stati investiti in un’azienda modello per l’allevamento di una rara specie di suini pelosi, i “Mangalica”, e facendo foto solo in famiglia (2). Il suo unico fotolibro in circolazione, Galitsin’s Angels, sul mercato del collezionismo viene venduto a non meno di 250 euro (3), Recentemente il nostro fotografo ha timidamente ripreso la sua attività, segno di un atteggiamento diverso del governo russo verso l’erotismo: Galitsin ha una pagina Facebook e soprattutto si finanzia attraverso il sito Patreon, che permette agli abbonati di avere foto esclusive, seguire le prove in studio e corrispondere direttamente con lui. Posso testimoniare che il Maestro risponde anche sulle domande tecniche (luci, obiettivi, etc.), cosa che non tutti i fotografi fanno. Le sue foto sono raffinatissime, ma lui resta un uomo alieno da qualsiasi mondanità.
E parliamo delle foto. Protagonista assoluto è il corpo femminile, ma non straniato come in Helmut Newton o apparentemente freddo come in Petter Hegre, né ancora falsamente verginale come in David Hamilton. L’innocenza si direbbe un optional. Sono donne giovani e spesso diverse una dall’altra (la Russia è un paese immenso), ma sempre profondamente femminili, ora immerse nella natura, ora riprese in scenografie minimaliste, con un attento uso della luce. Grande cura per i dettagli: un cappello, un fiocco, un oggetto di trovarobato. La bellezza è nella semplicità, anche se si capisce che dietro ogni foto c’è uno studio accurato, maniacale, che ora possiamo anche seguire nei video riservati al fan club.
NOTE:
Irina era una sua modella, meglio nota come “Valentina”
Buffi i commenti della stampa locale: “passa dalle modelle ai maiali” . (in calce alla voce “Grigori Galitsin” su Wikipedia, in inglese.
Galitsin’s Angels: From Russia with Love. Munich: Edition Reuss. 2005. ISBN 3-934020-34-8
Michela Murgia vuole cambiare la lingua con lo “schwa” (in italiano anche: scevà). In sostanza: usando un fonema (e grafema) neutro si evita di dover stabilire il sesso del parlante. Gli anglosassoni stanno ricorrendo al “them”, ma in italiano usare “loro” non ha per ora senso. Una mia amica scrive da anni “saluti a tutt*”, ma è linguaggio scritto, mentre lo schwa ha un suono neutro. La stessa cosa propone Alice Orrù (sarda anche lei; coincidenza?), che si definisce “copywriter e traduttrice con il pallino per il linguaggio inclusivo” nel suo sito/blog: https://www.aliceorru.me/come-usare-lo-schwa/
Lo schwa graficamente si presenta come una “e” corsiva rovesciata ed è una mia vecchia conoscenza, gioia e delizia dell’esame di glottologia all’Università di Roma. Foneticamente serve per esprimere una vocale intermedia, presente in molte lingue o dialetti, ma anche per ricostruire forme ipotetiche delle antiche lingue indoeuropee. Per cui mi ha incuriosito molto questo nuovo uso ideologico di quello che per me era materia di filologia e linguistica applicata alle lingue una volta definite “ariane”.
Il problema è che il cambiamento linguistico non è mai frutto di un’iniziativa personale, ma riflette la comunità dei parlanti e la sua vita sociale. Ricordo anni fa che l’editore Bompiani nel Dizionario di letteratura abolì le “h” che in italiano servono solo per marcare alcuni omofoni (anno/hanno, a/ha, o/ho), accentando invece le vocali (ànno, à, ò), ma rimase un’iniziativa isolata. Del resto neanche l’Accademia riesce a imporre dall’alto scelte magari corrette o comunque logiche se manca il consenso collettivo dei parlanti, come è evidente nell’abuso degli anglicismi o nella dichiarativa espressa con il “come”. Persino dove il controllo accademico è più forte, come in Francia, certe imposizioni linguistiche non sono rispettate fuori degli uffici pubblici. La lingua è un codice frutto di una convenzione sociale, ma proprio per questo deve esistere l’accordo fra le parti, che non sempre è a favore dei parlanti. Inglesi e francesi accettano l’idea che pronuncia e forma scritta siano assurdamente divergenti, invece di obbligare l’Accademia a una doverosa riforma ortografica, anche se gli americani fanno a modo loro: lite invece di light, u invece di you, per non parlare dei fumetti, che sembrano scritti realmente in un’altra lingua. Facciamo comunque alla Murgia e alla Orrù tanti auguri inclusivi e sostenibili.
Mi è stato segnalato un wargame elettronico che ci riguarda da vicino. Le case di produzione M2H e Blackmill Games, ben note nel settore dei videogame di guerra a livello internazionale, hanno rivelato la prossima uscita del nuovo titolo lavorando con una visione condivisa: come leggiamo su multiplayer.it, hanno iniziato a collaborare per Verdun, il capostipite della serie WW1. Verdun ha dato il via agli scontri ravvicinati con la guerra di trincea, Tannenberg (fronte orientale) ha poi ampliato l’esperienza con la guerra di manovra in Russia. Adesso arriva Isonzo e ci ritroviamo a combattere sia in alta quota sulle Alpi che lungo la valle dell’Isonzo, sulle pietraie del Carso e per le strade di Gorizia. Per ora è disponibile il trailer (1). Sull’Isonzo sono state combattute 12 battaglie (contando Caporetto) una più sanguinosa dell’altra e i libri scritti in argomento ormai riempiono lo scaffale di una biblioteca. Da parte mia tre anni fa ho voluto ripercorrere tutta la valle dell’Isonzo, vedere Caporetto e uscire da Gorizia: volevo vedere sul terreno quanto avevo studiato sulla carta. Mio nonno aveva combattuto anche da quelle parti come artigliere e sulla base dei suoi diari di guerra sono riuscito anche a identificare i luoghi dove stavano in batteria i suoi cannoni. Mio nonno mi raccontava sempre le sue storie e trovava in me un ascoltatore attento.
Proprio per questo mi lascia perplesso l’Isonzo ridotto a videogame. Almeno guardando il trailer, le ricostruzioni sono accurate e quasi tutte attendibili: armi, uniformi, ambientazioni storiche, luoghi delle battaglie. Dico quasi perché, p.es., i fanti che nel 1917 attaccano il ponte di Solcano (oggi Solkan, in Slovenia) non hanno l’elmetto (come fossimo ancora nel 1915) e in più il numero di reggimento (82° “Torino”) è sballato: quel reparto stava ad Asiago e comunque in Trentino. Lo so, sono finezze, ma per me hanno un senso. Come pure posso discutere sull’aspetto atletico di tutti i soldati, sia italiani che austro-ungarici, mentre basta vedere le foto dell’epoca per leggere nel corpo e negli occhi del soldato quelli del contadino mandato al fronte. Qui invece sembrano tutti Marines, e del resto i movimenti sul terreno, gli agguati, le tattiche sono più o meno in linea con Ghost Recon. Se poi qualche insegnante volesse proporre “Isonzo” a scuola per far capire agli studenti la realtà della prima Guerra Mondiale, sappia che è come insegnare il sesso proiettando un film porno: avrai della realtà un’immagine stereotipata e incompleta. Mio nonno non raccontava tanto dei combattimenti, ma delle lunghe e snervanti attese – giorni, settimane – aspettando che qualcuno attaccasse o desse ordini chiari. Parlava dei commilitoni con cui divideva alloggio, rancio e vita spartana. Retorica a parte, la guerra non può essere ridotta a una serie di combattimenti, altrimenti potrebbe persino risultare attraente.
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Isonzo (Follow-Up to WW1: Verdun) – Official Announcement Trailer
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