Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Terry a Campo

“Poi devo sentire Terry”. Io e Giulia ci vediamo una o due volte a settimana per buttar giù la sceneggiatura di un film. Siamo proprio all’inizio degli anni ’80, quando tutti volevano fare cinema e in genere ci si riusciva pure: era ancora l’epoca d’oro del Superotto, dei cineclub, dei teatri sperimentali, quindi potevi anche fare il colpaccio e passare al 35mm o almeno al 16mm, oppure semplicemente avere la soddisfazione di aver creato qualcosa con i tuoi amici o col tuo collettivo e poterlo condividere con gli altri. Ma nel profondo, tutti volevamo sfondare; da qui lunghe riunioni in pizzeria, scambi di idee, bozze scritte a mano, ricerca di attori e attrici disposti a recitar gratis. Ingenuamente pensavamo che una volta comprata la pellicola – la spesa più grande – tutto filasse liscio tra prove in bianco o in video. Poca attenzione alle luci e alla qualità del sonoro, anche perché magari qualcuno aveva seguito pure un corso di sceneggiatura, ma non aveva mai usato una cinepresa neanche per girare un filmetto di prima comunione. Io invece ero pratico di proiettori per aver fatto il proiezionista nei cineforum, ma qui poco me ne facevo. Ben confezionati o sgangherati che fossero, di quei filmetti se ne producevano tanti e li proiettavi nei vari cineclub o dove capitava. Una cosa poi ci univa tutti nel profondo: di film ne vedevamo tanti, in sala, in pellicola e per intero. Oggi questo non esiste più.

Nel caso nostro la divisione del lavoro stavolta era buffa: regista e sceneggiatrice del Campo (Campo de’ Fiori), attori e attrici da Trastevere, come se il Tevere marcasse anche la differenza dei ruoli. Semplicemente, a Trastevere c’erano teatri e teatrini e quindi tanti attori; in più  ci viveva all’epoca anche una vivace comunità straniera, complice anche il cambio favorevole di dollaro e marco.

Con Giulia lavoravo bene, o almeno così mi sembrava: lei aveva in attivo una regia teatrale e ci vedevamo due volte a settimana per stendere giù la sceneggiatura, i dialoghi e quant’altro. A casa mia lo spazio era poco, ma c’era comunque un lungo tavolo dove non mancava niente: bozze, penne, tazze di tè, libri, una macchina da scrivere. Già, perché la videoscrittura non era normale come adesso, quindi i tempi per forza si dilatavano. Ormai era da due mesi che io e Giulia lavoravamo sul soggetto iniziale, ma ora la novità: aveva due attori per le mani, uno era anche regista, l’altra era una sua amica oltre che attrice professionista. Era inglese, quindi adatta per certe parti. Già, quindi la sceneggiatura non dico che andava scritta da capo, ma almeno modificata, visto che il soggetto non prevedeva donne inglesi. Ma infilare un personaggio in più non era un grosso problema, mentre calibrare i tempi lo era; da qui lunghe discussioni fino a sera, ma questo era normale.

Quello che non si rivelò normale era l’attore, almeno per i miei gusti: appena presentato, iniziò a parlare di teosofia, di oriente, di ginnastica biodinamica e altre stronzate. Tutto era funzionale al suo personale modo di intendere il teatro, ma non è detto che funzionasse nel cinema. Giulia dal canto suo non era così scema da non leggermi in fronte, ma con quel tipo ci aveva già lavorato e lo avrebbe diretto lei, sapeva come prenderlo. Quanto ne fossi convinto è intuibile: sapevo già che con quello avrei avuto problemi. Quanto a Terry, ancora non la conoscevo e alla fine non l’avrei mai vista. Rimasi sorpreso nel sapere che ormai non era più la ragazza trasgressiva che ricordavo in tutti i film che avevo visto: ormai aveva un figlio (o una figlia?) e non era più la ragazzina perversa che le proponevano di fare, anche se pure nelle foto patinate doveva sempre sembrare un’adolescente. Conoscere in privato una persona simile mi incuriosiva, vederla recitare nel nostro film per amicizia mi sembrava troppo bello per essere vero. E infatti non se ne fece niente, ma per altri motivi: l’attore nel frattempo aveva trovato un ingaggio stagionale e non poteva più starci dietro, mentre Giulia alla fine mi scaricò quando capì che non sapevo gestire una troupe, sia pur ridotta e amatoriale. Qualche mese dopo avrebbe scaricato anche suo marito, ma questi sono affari suoi. Ebbi però il tempo e il modo di vedere una scena di prova girata dall’attore per conto di Giulia: lei e Terry passeggiano mano per mano lungo la banchina del Tevere verso Ponte Sisto e parlano di chissà cosa; lo spezzone è poco più un’inquadratura fissa spacciata per piano-sequenza. Possibile che Terry recitasse così male? Giulia mi spiegò che quando non c’è un regista viene sempre fuori una mezza commedia dell’arte, e che quella scena era solo per provare le inquadrature. Fu l’ultima nostra riunione e Terry non l’avrei mai vista. So da altre fonti che è morta a Milano qualche anno fa.

Il suo nome completo era Therese Ann Savoy.

Torniamo a Galileo

I Longobardi? Per i Leghisti non erano mica barbari, anzi hanno fondato l’Italia e hanno introdotto nuova linfa nella decadente Romanità centralizzata e  hanno pure combattuto i perversi Bizantini. Nel frattempo su FaceBook  discuto con un gruppo di Trentini convinti di essere stati invasi dall’esercito italiano nel 15-18, impresa che evidentemente non era riuscita ai Cacciatori delle Alpi di Garibaldi nel Risorgimento. Oppure leggo le tecniche di ri-creazione della storia della Macedonia del Nord da parte del locale partito di governo, sedicente erede di Alessandro Magno e della civiltà greca intera. Peccato che gli attuali macedoni parlino bulgaro e non greco e che la Macedonia storica neanche coincida con quella attuale (1). Ognuno la storia ormai se la ricuce come crede secondo la propria ideologia ma nessuno risponde a tono, a parte Pascal Bruckner (2), quindi non mi sorprende da parte afroamericana la volontà di obliterare la storia romana e le lingue classiche che ne hanno diffuso la civiltà (o, come direbbero gli inglesi, the cultural heritage). Civiltà fatta però non solo di legioni, conquiste e soprusi, ma anche di Diritto Romano, cultura superiore, architettura e urbanistica, pensiero laico, amministrazione, letteratura. In fondo si accetta di esser governati per secoli dagli altri solo se si ottengono benefici concreti o ideali, e nell’Impero Romano anche un provinciale poteva diventare generale, funzionario o Imperatore. Questo lo scrivo per rimandare al mittente i sensi di colpa dell’uomo bianco ed evitare di coprirsi ancora una volta il capo di cenere davanti a chi pensa di affrontare la storia partendo da premesse morali. Lo storicismo si basa sui documenti, non su una presunta etica, e i documenti devono essere attendibili quanto completi, ma mai censurati da una minoranza, non importa se al potere o all’opposizione, Oggi il paradosso è che a far da sponda alla censura è addirittura la stessa classe dirigente, patologicamente inadeguata a gestire una società complessa, inclusiva a parole ma esclusiva di fatto. E l’esclusione passa anche attraverso la parola, parola negata non alle minoranze, ma alla maggioranza stessa dei parlanti.

Vedo anche che nelle università americane e inglesi stanno riducendo il numero di cattedre destinate agli studi umanistici e alle lingue e letterature classiche. Questo non è però sempre dovuto alle critiche delle minoranze radicali organizzate, ma anche al costo di un corso universitario di livello: 30.000 euro circa all’anno. Onestamente, se avessi un figlio da mandare all’università, oggi non spenderei una cifra simile se non fossi sicuro di vederla ben investita, sperando cioè in una posizione sociale adeguata alla spesa sostenuta. Dopo aver fatto il classico mi iscrissi a Lettere laureandomi in filologia romanza, ma parliamo del 1975 e già le cattedre scolastiche e universitarie non garantivano i livelli di occupazione di una laurea in economia aziendale, per cui il declino delle facoltà umanistiche si deve essenzialmente alla loro scarsa capacità di assicurare posizioni qualificate e ben pagate, specie in una società dove la cultura non conta molto se non nelle sovraintendenze e nelle carriere universitarie. Insegnanti, storici dell’arte, bibliotecari, giornalisti, lavoratori dell’editoria e funzionari di museo sono mal pagati e non hanno il prestigio sociale che meritano, quindi non trovo tanto strano che chi vuol metter su famiglia o fare i soldi scelga una facoltà di economia. Che poi le aziende americane preferiscano gli analisti informatici dotati anche di cultura umanistica fa  piacere, ma questo non toglie che chi aveva studiato latino e greco e letteratura ha dovuto in quel caso completare la sua formazione scientifica con robusti studi di matematica e informatica. Personalmente difendo il greco e il latino e soprattutto quello che descrivono: una civiltà che si è sviluppata nel tempo e nello spazio, un’esperienza completa e come tale piena di luci e ombre, ma da cui è nata comunque la nostra identità. Questa identità è inutile negarla, è più onesto accettarla nella sua complessità. E soprattutto senza facili schemi di tipo morale: l’etica è una cosa, il moralismo è ben altro. Piuttosto, dividere studi classici e studi scientifici è il retaggio di un’impostazione novecentesca forse ancora funzionale, ma che deve tener conto da un lato dell’estensione di scienza e tecnologia negli ultimi cinquant’anni (ma questo vale anche per gli studi storici, a scuola fermi alla guerra del 15-18), ma anche del nuovo rapporto fra umanesimo e scienza, che passa inevitabilmente per la filosofia. Ridefinire di continuo l’Universo in base alle nuove scoperte scientifiche (come Galileo) o accettare l’idea dell’esistenza di Infiniti Mondi (come Giordano Bruno) sono processi mentali che presuppongono un’ampiezza di vedute che va ben oltre la pura esperienza fisica, sia pur basata sul metodo sperimentale galileiano. Galileo è inoltre uno stupendo divulgatore scientifico e la sua prosa si differenzia molto dal barocco egemone ai suoi tempi.


NOTE

  1. In più, neanche è chiara la parentela fra il greco classico e l’antico macedone.
  • Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc, 2020. ora tradotto in italiano dall’editore Guanda: Un colpevole quasi perfetto. La costruzione del capro espiatorio bianco.

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Santa Maria della Pietà

Sono tornato nel comprensorio di Santa Maria della Pietà dopo anni, ma solo per ottenere la carta d’identità elettronica (CIE) presso l’ufficio del Municipio. Abito in realtà dall’altro capo di Roma, ma la prenotazione meno dilazionata era lì, quindi ho preso il treno urbano come una volta e sono sceso alla stazione di Monte Mario. Ho infatti lavorato per dieci anni nella locale biblioteca circoscrizionale e quel treno era la mia salvezza: era il classico treno dei pendolari, ma da casa impiegavo una mezz’ora, evitando chilometri di traffico dal centro fino alla via Trionfale. All’epoca il Manicomio era stato ufficialmente chiuso grazie alla legge 180 (o legge Basaglia), da poco approvata (13 maggio 1978), mentre io iniziai a lavorare qualche mese più tardi. Per anni la nostra biblioteca lavorò in stretto contatto con gli operatori sanitari e psichiatrici per inserire gli ex-degenti psichiatrici nelle nostre attività: ricordo un memorabile laboratorio di poesia che fu infine sviluppato in un libro stampato coi fondi comunali per la cultura. Ma ricordo anche il quartiere popolato per anni da alcuni degenti sbandati. La legge Basaglia non ha mai detto che la follia non esiste, né prescriveva l’abbandono criminale degli ex-degenti psichiatrici. Diciamo che è stata applicata la prima parte del discorso, ma non la seconda, ma non certo per colpa di Basaglia. Le strutture di sostegno agli ex-degenti alternative alla reclusione non sono mai andate a regime, eppure sono passati più di quarant’anni dalla  legge 180, che comunque finora non è stata adottata da nessuno Stato oltre l’Italia.

Ma torniamo al Comprensorio. All’epoca gli edifici erano conservati in modo uniforme, oggi il restauro e la manutenzione sono lo specchio esatto della parcellizzazione degli spazi. Si poteva programmare un uso civico omogeneo e coerente di questa immensa struttura – magari riunire tutte le cattedre di medicina, psichiatria e psicologia e farne un polo universitario di eccellenza –  e invece gli spazi sono stati divisi per “quote”. Un padiglione al Municipio, un altro a una cooperativa, un altro alla direzione sanitaria dell’ASL, un altro a un’associazione culturale, poi c’è il “Museo della Mente” e poi ancora l’ambulatorio veterinario. Basta entrare nel comprensorio: lo stato di conservazione dei padiglioni (ma quanti sono?) non è omogeneo, la manutenzione dei viali e delle aiuole non si capisce a chi compete ed è ben diversa dal giardino ordinato che ricordavo. Ora sembra tutto un cantiere nella savana e in più la segnaletica è molto carente: fatico non poco per trovare il padiglione giusto, quello dei servizi demografici del Comune (un altro è dedicato al turismo!). E dire che per ben due volte ho fatto il servizio elettorale come presidente di seggio speciale proprio dentro i padiglioni “chiusi”, quelli dove ad esaurimento stavano i degenti gravi non autosufficienti. Esperienza surreale: liste elettorali non aggiornate, elettori dementi. Ma siccome l’incapacità di intendere è giuridica e nessuno si era preso la responsabilità di occuparsene, anche gli psicotici avevano ancora diritto di voto. Ovviamente le operazioni di voto e di scrutinio si svolgevano in modo anomalo. Alcuni degenti li avrei riconosciuti in un film di Silvano Agosti, La seconda ombra (2000), dedicato appunto alla figura di Basaglia. Generosamente, Silvano li scelse per impersonare se stessi come protagonisti. Prima di questa esperienza ero entrato solo un paio di volte nell’area peraltro molto vasta: di progetti per l’ex-manicomio ne furono pensati tanti e ricordo almeno un paio di iniziative teatrali o di animazione. Ricordo anche un laboratorio di danza moderna affidato a un coreografo di origine americana, di cui restavano dopo qualche anno solo le tavole di legno divelte dal pavimento. Molti infissi o suppellettili furono anche saccheggiate dagli operai dei cantieri (le maniglie d’ottone vintage, p.es.), né la successiva presenza di un campo nomadi a pochi metri dal recinto esterno deve aver migliorato la situazione.

Faccio comunque la fila all’esterno del padiglione del Municipio (con il covid, dentro non può stare troppa gente) e devo dire che gli impiegati sono molto gentili. Ma prima di uscire da questo luogo ameno faccio una foto: qualcuno ha fatto un murale con il volto di Alda Merini, e questo era un omaggio doveroso. Peccato che nessuna biblioteca interna sia stata mai dedicata a Dino Campana.

Diventare cam-girl

Tra i nuovi mestieri eccone un altro: la cam-girl. Di cosa si tratta è presto detto: una ragazza da casa chatta in video con sconosciuti disposti a pagare per chiacchierare con lei e chiederle alcune prestazioni sessuali a distanza: spogliarello, provocazioni e ben altro, a tassametro. Occorrente: un buon collegamento di rete, una videocamera HD e l’affiliazione a una delle tante agenzie intermediarie. Non ne cito i nomi per non far loro pubblicità, ma ve ne sono sia di italiane che internazionali. Tutte garantiscono la copertura legale, una percentuale sugli introiti e la tutela della privacy, in più il loro marchio è garanzia di qualità e correttezza verso i clienti. Nessuna ragazza avrebbe infatti piacere di render noti il suo vero nome e telefono, né un cliente sposato vuol far sapere dei suoi vizietti. Per i pagamenti alle ragazze – in genere la metà degli introiti – si ricorre a quelle agenzie di trasferimento di denaro usate anche dagli immigrati. Server e sedi dei siti non sono mai in Italia: anche se a distanza e virtuale, per la legge italiana questa attività è pur sempre prostituzione.

I siti sono di due tipi: si paga per entrare, poi si pagano successivamente le ragazze e le loro prestazioni. Oppure – altro tipo – si entra gratis in una specie di teatrino e si pagano mance alle ragazze scelte se si vogliono prestazioni  particolari. C’è di tutto, anche casalinghe non proprio avvenenti, più una miriade di ragazze e donne giovani o meno giovani. La maggior parte si dichiarano studentesse, ma molte si direbbero ripetenti. In ogni caso puoi intrattenerti con loro e chiedere anche colloqui privati. La probabilità di incontrarle fisicamente sono nulle, ma c’è tanta solitudine in giro e paura del confronto con una donna vera, quindi è un mercato che prospera. Quante sono in Italia? Chi scrive 50.000, chi 80.000. Difficile dirlo, perché molte lo fanno saltuariamente; per altre è diventato un lavoro vero e proprio, che richiede una media di sei ore al giorno per mantenere il ritmo e portarsi a casa anche 2000 euro al mese. A sentire le interviste neanche tanto rare, si comincia per arrotondare o per pagare le bollette, magari dopo trenta curricula mandati a vuoto o tre mesi di turni come cameriera di un pub della movida. Più facile iniziare se vivi da sola – la classica studente fuorisede – e se nessuno ti conosce. Sì, perché la vera paura è di essere riconosciute al paese o nel proprio ambiente. Alcune sono addirittura laureate in psicologia o in scienza delle comunicazioni; si direbbe che fanno un uso poco etico di quanto hanno imparato, visto che degli altri conoscono e sfruttano i punti deboli. E per chi non sapesse bene da dove cominciare e come tenere sulla corda e fidelizzare i propri clienti maschi, da ogni sito – italiano o americano non importa – si può scaricare e studiare un tutorial dove si danno consigli pratici anche sul come vestirsi (e spogliarsi), cosa concedere, come e fino a che punto… Tutte insieme, queste istruzioni si possono riunire in un corposo Manuale delle giovani mignotte.

Già, ma i clienti cosa chiedono? Qualcuno vuole solo parlare e resta con l’illusione di un rapporto personale (in realtà è a tassametro). Altri chiedono prestazioni di ogni tipo, ora soft, ora decisamente spinte. E qui la ragazza può aiutarsi con quei giocattoli sessuali una volta in vendita nei sex-shop (ora è tutto online) e con le arti della seduzione. L’importante avere più affezionati possibile, vista la concorrenza. In più si guadagnano extra rivendendo le proprie immagini, dvd, biancheria intima e altro. E’ evidente che molte sono professioniste, visto che vendere dvd con le immagini del proprio corpo aumenta le possibilità di essere riconosciute anche dopo anni. Anche se a sentire le interviste sono spesso ragazze normali in cerca del denaro facile, non è detto che quello che dicono loro sia sempre attendibile. Su un punto però sono tutte concordi: per mantenere una vita normale sdoppiano necessariamente la loro personalità. Aggiungo io: è il cliente che sfrutta la ragazza facendole fare quello che lui desidera, o è la ragazza a dominarlo alzando ogni volta la posta per soddisfarlo? E’ il cliente a proiettarsi nella ricerca di desideri impossibili nella sua vita reale o è la ragazza che davanti a un catalizzatore maschio scopre e vive in una vita parallela la sua natura profonda e repressa? Un bravo drammaturgo forse saprebbe sfruttare una situazione del genere molto meglio di quello che anni fa si vedeva in Sesso bugie e videotape.

Quando l’Occidente fallisce

Dopo vent’anni ce ne andiamo dall’Afghanistan senza aver pacificato il paese. Il nostro contingente era in realtà parte di un dispositivo militare più grande, gestito dagli Stati Uniti, il quale alla fine ha concluso alla meno peggio un conflitto iniziato per l’appunto vent’anni prima, quando dopo l’attentato alle Torri Gemelle si sentì l’esigenza di distruggere i “santuari” del terrorismo islamista in Afghanistan, dove i Talebani avevano preso il potere e imposto un radicale regime islamista. In tanti anni si sono alternati migliaia di soldati, tutti hanno avuto perdite (noi 54 militari) ma non è stato conseguito l’obiettivo principale: sconfiggere la guerriglia islamista e ricostruire uno Stato e un tessuto sociale distrutti da anni di guerra. Questo libro cerca di spiegare i motivi di un fallimento, ma non è certo l’unico. Ne cito uno per tutti:

Anatomy of Failure: Why America Loses Every War It Starts / Harlan Ullman. Annapolis, MD: Naval Institute Press, 2017, Kindle version.

Alla fine le conclusioni sono simili: l’Afghanistan intanto è un paese enorme e poco coeso per la sua stessa conformazione orografica, rendendo difficile una struttura politica e amministrativa centralizzata. In più è un paese comunque arretrato e devastato dalle guerre precedenti. Il controllo del territorio non è possibile senza una presenza capillare sul terreno, ma nessuno stato democratico può mandare i propri soldati a morire in un paese strategicamente povero e lontano senza fare i conti con gli elettori che pagano le tasse. Forse una vittoria sul campo era possibile nel 2001, ma nel 2003 il governo degli Stati Uniti ha dirottato tutto sull’invasione dell’Iraq, perdendo così il vantaggio acquisito. Quanto alla ricostruzione dell’esercito nazionale afghano, diciamolo: nonostante gli sforzi anche nostri, non ha funzionato; mal pagati e poco motivati, i soldati dell’esercito nazionale non sono mai stati all’altezza della situazione. Quello che è peggio, spesso sono stati abituati a combattere “all’americana”, cioè con il massimo appoggio di fuoco e logistico, ora impossibile da gestire senza gli alleati in casa. Alleati con cui non sono mancati attriti, dovuti più che altro a differenze culturali, sottovalutate dagli Americani e non certo da adesso: ai tempi della guerra del Vietnam uno scrittore francese (René Guignon, in Americani e Vietcong) notava che essi sapevano gestire grandi quantità di mezzi ma erano incapaci di capire un’ideologia. Dal Vietnam sono passati cinquant’anni, ma ancora c’è molto da imparare.

Altro handicap: alle differenze culturali e religiose si sono sommate l’endemica corruzione e la struttura clanico-mafiosa del potere politico. Sono stati versati milioni di dollari e di euro per la ricostruzione del paese, ma troppi fondi sono finiti nelle tasche sbagliate e gli afghani non sono poi tanto stupidi: si accetta la presenza di un esercito straniero o di un potere politico diverso solo se le condizioni di vita migliorano. E se poi di notte il nemico controlla quello che i nostri soldati proteggono solo di giorno e una volta a settimana, magari sbagliando pure la mira, la gente ha paura. Ormai la guerra partigiana viene vista in modo meno romantico: il controllo del territorio viene esercitato anche con mezzi coercitivi e la paura di una rappresaglia è più forte della protezione offerta da un esercito incapace di controllare un paese enorme e privo di strade. In guerra la tecnologia non basta: la fanteria deve occupare e tenere il terreno, ma in Afghanistan non basterebbe mezzo milione di soldati. Ma ne vale la pena? Le operazioni in zone lontane sono costosissime, ma senza un risultato tangibile non possono essere popolari. Ma se quello che non ha funzionato ormai lo sappiamo, in vent’anni potevamo fare di meglio? Sicuramente gli obiettivi dovevano essere meglio definiti fin dall’inizio, ma era davvero possibile riformare una società tradizionale e appoggiare governanti migliori di quelli disponibili senza che fossero considerati estranei? Purtroppo a farne le spese saranno gli afghani e soprattutto le donne. L’unica speranza è che, siccome gli attori sono tanti e quindi non solo i Talebani, si arrivi a una situazione di compromesso e non a un crollo improvviso di quanto è stato comunque costruito in vent’anni. Speriamo bene.

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Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan
Gastone Breccia
Editore: Il Mulino, 2020, pp. 176
Prezzo: € 15,00

EAN: 9788815285850

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