Hoc ter noviens cantare iubet, terram tangere, despuere, ieiunum cantare. Multa, inquam, item alia miracula apud Sasernas invenies, quae omnia sunt diversa ab agri cultura et ideo repudianda. Quasi vero, inquit, non apud ceteros quoque scriptores talia reperiantur.
“Prescrive di cantare nove volte per tre volte, toccar terra, sputare, cantare a digiuno. Di questi ‘miracoli’ ne troverai molti altri se segui i Saserna, cosa ben diversa dall’agricolura e per questo da non accettare. Quasi sicuramente questa roba non la troveresti in altri scrittori”.
Varrone scrisse duemila anni fa un buon manuale di agricoltura (il De re rustica, appunto), sulle orme di un analogo trattato di Catone il vecchio, mentre i Saserna (padre e figlio) ne avevano scritto un altro (perduto, ma citato anche da Columella, altro agrario) dove, da buoni etruschi, davano ampio spazio anche a pratiche magiche che il razionalista Varrone rimanda al mittente. Ed ora, dopo duemila anni, al Senato c’è voluta l’opposizione della senatrice a vita Elena Cattaneo per aprire gli occhi sulla differenza tra agricoltura biologica e agricoltura biodinamica, allegramente omologate da una maggioranza assoluta di senatori non è chiaro se ingenui o disinformati. Equiparare i due metodi è poco scientifico, semplicemente perché l’agricoltura biodinamica si basa su presupposti scientificamente non misurabili con il metodo sperimentale di Galileo. Non solo: fermo restando il presupposto che numerosi prodotti biodinamici siano anche biologici, oggi questo prerequisito è venuto a mancare nel momento in cui operano nuove ditte oltre quella storica, la centenaria germanica Demeter, la quale finora ha garantito la qualità dei suoi prodotti. Quello che è da notare è che siccome alla Demeter sono affiliati alcuni produttori sudtirolesi, nella stampa locale è attiva una sorta di lobby a difesa di un prodotto culturalmente germanico (1). In effetti Rudolf Steiner, affascinante quanto bizzarra figura di filosofo, mistico, scrittore, pedagogista nonché fondatore anche dell’agricoltura biodinamica, è sicuramente più popolare nei paesi di cultura tedesca, e le sue scuole “Metodo Waldorf” da noi sono frequentate solo da un’élite benestante. Sia chiaro che uno è libero di credere in quello che vuole; al massimo si svilupperanno pratiche inutili ai fini della produttività agricola, come seguire influenze astrali o affidarsi a pratiche esoteriche. Altro è però chiedere i contributi allo Stato e l’inserimento della biodinamica nelle cattedre di agraria, e qui la Scienza deve dire la sua. Questo è invece il testo che è stato approvato al Senato nel Ddl:
“Ai fini della presente legge, i metodi di produzione basati su preparati e specifici disciplinari applicati nel rispetto delle disposizioni dei regolamenti dell’Unione europea e delle norme nazionali in materia di agricoltura biologica sono equiparati al metodo di agricoltura biologica. Sono a tal fine equiparati il metodo dell’agricoltura biodinamica ed i metodi che, avendone fatta richiesta secondo le procedure fissate dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali con apposito decreto, prevedano il rispetto delle disposizioni di cui al primo periodo”.
Notare che il metodo agricolo biologico è riconosciuto da circa trent’anni ed è regolato secondo rigide norme dell’UE, mentre il metodo biodinamico non è altrettanto regolamentato. A questo punto, visto che il Ddl deve ripassare alla Camera per l’approvazione, basterebbe scorporare i due termini invece di omologarli. Vedremo se Galileo conta ancora qualcosa e se il pensiero scientifico italiano riesce ancora a farsi capire dalla gente. Col Covid-19 si è visto di tutto, quindi stiamo in guardia!
L’on. Franceschini, attuale ministro della Cultura, ha decretato la fine della censura cinematografia in Italia. Sì, perché era ancora in vigore, anche se decenni di luci rosse facevano credere nella sua desuetudine. In realtà le commissioni di revisione cinematografica (questo il nome tecnico) si sono spesso accanite sui film d’autore: per l’Italia citiamo Blow-Up di Antonioni (1967), L’urlo di Tinto Brass (1968), L’ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972) e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975), La chiave di Tinto Brass (1983) e i meno noti Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco (1998) e Morituris di Raffaele Picchio (2011). Tra l’altro, se un pretore stabiliva poi il sequestro nella sua zona, il provvedimento era esteso automaticamente a tutto il territorio nazionale, come se il pubblico di Roma o Milano fosse omologo di una remota provincia italica. Benvenga dunque la fine di una istituzione anacronistica e anche inutile, visto che per anni si è accanita sul sesso ma troppo spesso trascurando la violenza. Ma non fatevi troppe illusioni: nel momento in cui viene meno la centralità della sala cinematografica e la visione si sposta sulle grandi piattaforme multimediali per famiglie, saranno le multinazionali dell’audiovisivo a decidere cosa sia lecito vedere e cosa no. E in tempi di politically correct, sarà un bagno di sangue. Chi avrà il coraggio di proiettare La ciociara (1960) senza evitare di offendere i soldati marocchini? Sia chiaro: la censura di mercato è sempre esistita e proprio negli Stati Uniti fu elaborato il Codice Hays, esempio unico ma efficace di censura esterna alle istituzioni governative, in pratica un patto di ferro tra produttori per evitare grane legali e perdere i soldi del pubblico pagante. Lo stesso in fondo avviene ora con le nuove americane regole sulle “quote” di minoranze varie da inserire nelle produzioni cinematografiche (su cui ho già parlato) e le varie regole che evitano di offendere o discriminare donne, afroamericani, lgbtq+ e altro, col risultato di un appiattimento etico e artistico o – al contrario – di scelte estreme. Ho letto p.es. che Cenerentola sarà riscritto dalla sceneggiatrice e regista Kay Cannon, in anteprima esclusiva su Amazon Prime nel settembre 2021: la classica fata madrina sarà interpretata da Billy Porter, attore gay afroamericano. Kay Cannon afferma che Billy Porter si presta benissimo al ruolo che gli è stato affidato; stiamo parlando di un bravissimo attore oltre che splendido trasformista. “Si adatta così bene al ruolo”, ha continuato Cannon. “Per me, Billy è magico”. Questo dice il comunicato ufficiale. Personalmente non mi pronuncio prima di aver visto il film: censura significa pregiudizio o semplicemente non saper vedere in profondità. Ricordo quel bel film di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House (1982): il disegnatore Neville si illude di aver compreso i meccanismi della storia, ma sarà solo una illusione. Come commenta lo stesso regista “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”. Esattamente lo stesso meccanismo mentale del censore.
Marzo 2020, cosa è successo lo sappiamo tutti e in parte ci stiamo ancora dentro, pur senza le scene surreali dell’altr’anno. Ne è sorta anche una curiosa letteratura “di reclusione”, fatta di diari, teatro da camera (esattamente), romanzi claustrofobici e coppie scoppiate. Qui l’idea è antica e attuale allo stesso tempo: per quattordici giorni nipoti e bisnipoti ascoltano per un’ora al giorno le storie narrate dagli anziani. Solo che non stiamo davanti al caminetto, né un aedo narra le gesta di Odisseo; son tutti chiusi in casa dal Covid e si comunica via Zoom o Skype. Il contatto fisico è precluso, ma la voglia di ascoltare una storia resta e la tecnologia permette la diretta video, quindi tutti puntuali all’appuntamento giornaliero. Una volta pochi viaggiavano, ma i loro diari si vendevano bene; pochi sapevano leggere, ma chi leggeva davanti agli altri aveva un uditorio attento. Occasione è il racconto di un viaggio fatto in altri tempi con un pulmino Wolksvagen; anni 60-70, ma per i nipotini è oltre mezzo secolo, dalla Grecia alla Siria passando per la Turchia. Niente navigatore, quindi ogni tanto ci si perde; difficile spiegarlo ai nipotini 2.0. Ma ogni tappa è occasione per ampliare il discorso narrando un mito greco una volta giunti a Delfi, descrivere gli odori del bazar degli Egiziani a Istanbul, cercare di immaginare la guerra di Troia una volta passati all’altra sponda del Dardanelli, rispondere alle domande dei nipoti ma anche far loro capire che lo street food turco tenuto in bidoni di ferro è ben più gustoso della zuppa servita in Bulgaria e chiamata in slavo “sboba” (!). E poi la sorpresa continua: oggi siamo abituati a sapere tutto dall’internet, ma ricordo anch’io quanto a Istanbul abbiamo navigato dentro la grande cisterna bizantina prima vista solo in 007 dalla Russia con amore, o quando leggevamo i diari dei grandi viaggiatori o immaginavamo Palmira come reinventata da Italo Calvino ne Le città invisibili. Le città descritte nel viaggio (Bursa, Pergamo, Smirne) non erano ancora aggredite dal turismo di massa, quindi si descrive un’ospitalità vecchio stile, dove ancora contano i rapporti personali e una locanda costa quattro soldi come del resto la trattoria. La zia non lo dice, ma è un viaggio low cost con capelli lunghi che il doganiere bulgaro cercherà di tosare ai maschi. Le domande dei nipotini si fanno sempre più insistenti: zia ha fatto sicuramente il classico, loro al massimo hanno visto Troy, ma i miti greci e la descrizione di Pergamo, Smirne e Palmira li tengono sospesi. Ogni sera una tappa, tra una strada sterrata e l’altra, e così per due settimane. Si narra purtroppo anche di quanto non esiste più; in Siria il Krak dei Cavalieri è stato danneggiato (distruggerlo è impossibile), Damasco è stata devastata da dieci anni di guerra civile e Palmira quasi non esiste più: ho qui le foto scattate a suo tempo da un mio amico fotografo pubblicate su una rivista (OZ Journal, maggio 2021), messe a confronto con quelle attuali. Ma nel libro si parla di un’epoca dove genti e religioni diverse convivevano senza scannarsi e dove le donne velate non erano la norma. La zia ha un bel daffare per spiegare ai nipoti quello che nel frattempo è successo. Ma alla fine del libro la sorpresa: finita la Pandemia (novello mito fondatore della post-modernità) la zietta suonerà a casa dei nipoti con generi di conforto e una valigia in mano: si parte tutti insieme e stavolta non solo con la parola.
VIAGGIARE DA FERMI AI TEMPI DEL COVID Serena Luciani Strade Bianche di Stampa alternativa, 2021
Woke è un termine che si riferisce alla consapevolezza di questioni che riguardano la giustizia sociale e la giustizia razziale. A volte è usato nell’espressione inglese vernacolare afroamericana “stay woke”.
Le dure polemiche che stanno scuotendo la cultura universitaria americana e in Europa quella francese, olandese, belga e inglese finora sembrano non toccare le nostre università: da noi ancora si discute sulle guerre del fascismo, come se il dibattito fosse ancora fermo alla linea del 25 aprile (1). Questo ritardo culturale non è strano: in Italia le novità arrivano sempre dall’America o dalla Francia, e può darsi che sia solo questione di tempo: nel ’68 gli effetti del maggio francese smossero i nostri atenei con qualche mese di ritardo. In più, le condizioni della cultura italiana sono diverse: non abbiamo il razzismo come problema endemico; non abbiamo ancora grandi comunità islamiche “assertive”; né abbiamo avuto decolonizzazione perché nel ’43 le colonie le abbiamo perse da un giorno all’altro e da quel momento quella storia non ci riguardava più. Inoltre, le nuove minoranze etniche o le comunità Lgbt ancora non hanno raggiunto una massa critica tale da scalare il potere negli atenei e nei posti chiave dei mass media e dell’editoria. Perché di lotta per il potere si tratta: l’università è il luogo dove bene o male si seleziona la futura classe dirigente e si elabora la cultura del Potere. Come insegna proprio il ’68, nell’arco di due decenni è possibile occupare i posti di potere nel giornalismo, nell’editoria, nei telegiornali e naturalmente nell’università. Alla fine, mutatis mutandis, sono semplicemente i giovani che scalzano i vecchi. Ma chi sono oggi gli studenti? E cosa sono gli atenei?
La situazione dell’università è cambiata nel tempo soprattutto per l’attuale natura dei finanziamenti: a meno che a investire negli atenei non siano le industrie private in funzione della ricerca (a loro funzionale, ovvio), nelle università private i finanziamenti sono strettamente legati alle rette degli studenti, mentre in quelle pubbliche al loro numero. Sono fattori analoghi ma convergono su un punto: gli studenti condizionano la natura dei corsi universitari in maniera molto maggiore che nel secolo scorso. Da qui anche un certo conformismo del corpo accademico: corsi e contratti vengono rinnovati se hanno un numero sufficiente di studenti. Quando mi sono laureato io in Lettere (1976), alcune tesi in archeologia venivano date solo a chi sapeva leggere il tedesco, mentre oggi non è richiesto più neanche l’esame scritto di latino: la facoltà perderebbe studenti, né la scuola secondaria li aveva preparati come una volta. C’è poi talvolta un curioso conformismo dell’anticonformismo: una teoria radicale se non addirittura strampalata può attirare più studenti di un corso “normale”. Anche se qualificato, devi essere “cool”, “fico”. Ricordo ancora la tesi di un accademico straniero, che per anni si è fatto un nome attribuendo il declino e la caduta dell’Impero romano esclusivamente all’uso delle tubature di piombo. Quella che al massimo poteva essere una causa di inquinamento e fonte di malanni vari, per chi gestiva la cattedra era il proprio asso nella manica, riverberato in decine di articoli di riviste accademiche obbligate comunque a discuterne. Morale: se sei originale fino al paradosso, la tua carriera è assicurata. Ma questo avveniva in tempi normali. La novità è nella violenza con cui ora alcune idee vengono veicolate se non imposte, andando persino contro l’idea stessa di Università.
In realtà l’università americana punta di diamante della Cancel Culture è un po’ diversa dalle altre: nella Howard University di Washington si è formata la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e tale ateneo è da molti anni la roccaforte degli afroamericani, una sorta di “Harvard nera”: è stata uno dei simboli della contestazione negli anni ’60 e del movimento per i diritti civili. Fra i suoi studenti più celebri, oltre alla vicepresidente Usa, il giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu Andrew Young, il deputato Elijah Cummings, il Premio Nobel Toni Morrison, l’attore Isaiah Washington. È qui che si formano l’intellighenzia e la classe dirigente afroamericane. Niente di strano che l’ideologia del politically correct e della Cancel Culture prendesse qui una deriva radicale. E a farne le spese ora sono gli studi classici, pur presenti dal 1867: la Howard University ha deciso di dichiarare guerra ai classici della letteratura e della filosofia, che hanno il difetto di essere bianchi e quindi non abbastanza “inclusivi” e al passo coi tempi per le università – soprattutto statunitensi e anglosassoni – diventate la culla del politically correct. Il Dipartimento di studi classici verrà smantellato per creare “priorità diverse” nei piani di studi degli studenti e i professori di ‘classics’ verranno spostati in altri dipartimenti, dove i loro corsi potranno ancora essere insegnati (immaginiamo come). Ma già la Princeton University attraverso Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici, aveva spiegato al New York Times, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così “invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa”. Peralta (aspirante suicida?) va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. “Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore”, ha detto al New York Times, “non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici”. Non va meglio nel regno Unito, dove nelle scorse settimane l’Università di Leicester ha annunciato l’intenzione di accantonare Geoffrey Chaucer – il Boccaccio inglese – a favore di modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere. L’università giustifica tale scelta con l’esigenza di modernizzare i piani di studio rendendoli più adeguati alla sensibilità e alle prospettive degli studenti di letteratura inglese. I quali si suppone provengano ormai da estrazioni sociali ed etniche diverse, altrimenti non si capirebbe questo senso di estraneità verso una cultura superiore, tale da rasentare il delirio e il fascismo mascherato. Quando poi veniamo a sapere che la curatrice del museo della scrittrice Jane Austen deve preoccuparsi di giustificare l’uso del tè e di altri generi ”coloniali” da parte di una scrittrice vissuta due secoli fa, allora chiediamoci piuttosto se la raccolta dei pomodori nel Cilento non sia un esempio di neoschiavismo. Sicuramente gli antichi Romani erano imperialisti: la parola stessa “Imperium” è latina. Ma il “cultural heritage” comprende anche il Diritto Romano. E poi, davvero Russia e Cina non perseguono dopo duemila anni obiettivi simili a quelli dei Romani e con mezzi altrettanto discutibili sul piano morale? Per fortuna, da noi l’espulsione della cultura e delle lingue classiche dall’istruzione superiore sancirà al massimo il consolidamento definitivo del Liceo Statale Semplificato (LSS), obiettivo perseguito per anni da certa pedagogia. Ma bisogna comunque tenere gli occhi ben aperti: imitare costa meno che creare e noi italiani sappiamo sempre adattarci.
Quello che piuttosto sorprende è la timida risposta a questo modo di vedere il mondo. Pur di non perdere il posto per motivi da noi ancora considerati illegali, troppi giornalisti e accademici hanno fatto un auto-da-fé che ricorda le confessioni spontanee dei tempi di Stalin. Noam Chomsky – ormai un vegliardo ma pur sempre combattivo e soprattutto grande analista del Potere e del suo linguaggio – ha invece risposto a tono: il movimento nato per fare i conti col passato si è avvitato in se stesso diventando motivo di divisione tra generazioni (3). La lettera aperta è stata firmata da altri 150 intellettuali americani, tutti comunque di una certa età. Ma c’è anche chi semplicemente si è adeguato allo Zeitgeist, lo spirito del tempo: alcune ditte inglesi curano a pagamento i profili dei clienti di fascia alta che vogliono ripulire il proprio curriculum o profilo Facebook con Spic&Span (2). Chi paga fino a 13.000 sterline vuole dunque difendersi in anticipo da qualsiasi accusa che possa distruggere da un giorno all’altro la sua carriera, il che mostra i nervi scoperti di una società spiazzata e insicura, ma anche troppo legata alla costruzione della propria immagine pubblica. Mi viene in mente la frase tipica della serie televisiva Perry Mason: “Ricordi che ogni parola che dice potrà essere usata contro di lei”.
Siamo a largo dei Librari, con le spalle all’oratorio restaurato. E’ un pomeriggio di settembre ma il Filettaro apre la sera. E mentre chiacchieriamo seduti ai tavolini del caffè, due bangladesi schizzano via lungo via dei Giubbonari con la mercanzia, evidentemente inseguiti dai vigili. E’ il gioco delle parti, la solita scenetta messa in onda quando Roma Capitale decide di fare sul serio per far contento il Messaggero o evitare i tweet di Salvini contro Virginia Raggi. La coppia che mi sta davanti si direbbe male assortita: lei è una stupenda brunetta, lui ricorda un po’ Morgan o Anonymous ed è l’archetipo del simpatico bel mascalzone. Lei infatti è sposata ed è allo stesso tempo sinceramente innamorata di questo divorziato con figli. Come finirà la storia? Non lo sanno nemmeno loro, questo lo ammettono mentre lentamente girano il cucchiaino nella tazzina del caffè. I tratti di lei sono dolci, è una siciliana elegante e sensuale e ha sempre il sorriso sulle labbra. Nel frattempo la partita a guardie e ladri continua: una robusta vigilessa sta facendo il giro della piazzetta, lasciando comunque un intervallo sufficiente a far scappare il “bangla” lungo l’altro lato della piazza. Lentamente sentiamo avvicinarsi anche una macchina che scandaglia via dei Giubbonari. Anche qui è un’operazione di facciata: se vuoi rastrellare sul serio una strada devi chiuderne entrambi gli accessi. Mi ero comunque distratto e la donna che ho davanti aspetta la risposta a chissà quale domanda. Chiedo di ripeterla e prendo tempo: mi chiede che voglio fare io. Risposta: nulla. Non provo emozioni, o almeno col tempo ho imparato a controllarle. E poi è da lei che aspetto una risposta, visto che sono suo marito ed è lei che vuole mettersi con un altro. Ho chiesto io di vederci a tre per fare due chiacchiere: devo sapere cosa vogliono fare, come e quando.
Dietro di me continua il passeggio domenicale, mentre un distinto venditore ambulante deve discutere con le guardie: lui non è scappato, ma è italiano e pensa di evitare la sanzione. Ben altro panorama la mattina dei giorni feriali verso le 8, quando c’è scuola: il vicino liceo statale Vittoria Colonna pullula di belle ragazze e ai tavolini c’è di tutto: ormai non esistono più ragazze brutte o poco curate, e forse per questo miss Italia non va più di moda: ormai basta uscir per strada e sembrano tutte finaliste.
Ritorno sui miei pensieri: mi preoccupa l’aspetto economico di una eventuale separazione. Già lei mi ha chiesto a chi resterà la macchina, e questa non gliela perdono. Lui poi non ha un posto fisso e chi chiede i soldi una volta, li chiederà anche dopo. Passi per il letto, ma i soldi no. Qui manco a farlo apposta siamo vicino al Monte, dove i traffici di oggetti e denaro avvengono da sempre e certe facce le conosciamo tutti da anni. Proprio al Monte comprai una macchina da scrivere usata, quando ancora non c’era la videoscrittura. Ma qui troppe cose sono cambiate da quando ero giovane, inutile fare l’amarcord. Devo infatti concentrarmi su quello che ho davanti, ma non è facile: quei due se non sono ancora andati a letto ci andranno presto e anche senza dirmelo lo capirò lo stesso. Nel frattempo mia madre sta lentamente spegnendosi in un lontano ospedale e quella casa dove una volta abitavamo in cinque ora è malmessa, enorme e vuota. Ieri insieme alla badante – una robusta contadina romena – abbiamo dato una riordinata alle stanze e soprattutto le abbiamo pulite da tutta la robaccia accumulata nel tempo: scarpe, indumenti in disuso, pentole in alluminio, certificati elettorali, bollette d’epoca, carte da regalo, riviste, decoder e cavi elettrici, verbali di condominio, fatture saldate mezzo secolo prima. Se la lasciassi sola, quella donna brava quanto ignorante butterebbe tutto, ma insisto per esaminare prima qualsiasi cosa trovi in armadi, madie e cassettiere. Decido io cosa va conservato e cosa va mandato in discarica, altrimenti andrebbero perduti anche i libri antichi di mio padre o le mie collezioni che non ho avuto il tempo né lo spazio per portare con me dopo il matrimonio, di cui tra pochi giorni ricorre l’anniversario. Mi viene da ridere: quest’anno non riesco a immaginarmi una cenetta a lume di candela, né è sicuro che, una volta sloggiato da casa di mia moglie, io possa abitare casa di mia madre: i fratelli la vogliono vendere e non avrei certo i soldi per riscattare le loro parti. Certo l’idea di non dover guidare più ogni giorno nel traffico o di poter entrare al cinema Farnese quando voglio resta un bel sogno: con lo stipendio che mi danno posso solo scegliere un’altra periferia. Magari con un teatro o un cinema di quartiere.
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