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SALVIAMO L’AZZURRO SCIPIONI

 “ Il cinema, il mio cinema che tanto amo, fatto di immagini e di mistero è ormai in esilio da più di mezzo secolo, oltre i confini dell’industria e della mediocrità. Lo andremo a riprendere prima o poi con tutti gli onori e allora gli schermi torneranno vivi” (Silvano Agosti)

L’Azzurro Scipioni chiude, come chiuderanno tante altre sale cinematografiche, visto che i decreti del Governo considerano cinema, teatri e musei pericolosi luoghi di contagio. Chi li frequentava sa benissimo che cineclub,  teatri sperimentali, filodrammatiche e musei fuori circuito turistico, tutto sono meno che luoghi di pestilenza, anzi garantiscono da soli un’adeguata distanza fra le persone; ma questo Governo sembra sordo alla cultura. Quello che è peggio, mentre il cinema commerciale può estendersi sulle piattaforme digitali, il teatro dal vivo e il cinema indipendente non usciranno vivi da questo periodo, né si riprenderanno più: già erano cambiate alcune abitudini sociali (se il film non ha effetti speciali, basta vedere l’età media degli spettatori davanti al cinema) e lo stesso Azzurro Scipioni ormai programmava i film quattro giorni su sette. Anche se gestito in famiglia, un esercizio commerciale ha bisogno di clienti e il cinema non è solo arte: già uno dei film dei fratelli Lumière mostra gli operai che escono felici… dal loro stabilimento di produzione.

Ora, parlare del Cinema Azzurro Scipioni e del suo fondatore, animatore e padrone Silvano Agosti per me è come raccontare una parte della mia vita. Non mi dilungherò quindi a descrivere la sua produzione letteraria e cinematografica, con frequenti trasferimenti dalla carta alla pellicola: potete trovarla completa in rete; meglio parlare della mia lunga frequentazione di quella che prima erano i Quiriti,  una vecchia sala parrocchiale trovatasi un bel giorno prossima a una fermata della metro e di fronte alla casa di un geniale artigiano del cinema dall’insolito accento, d’estate curiosamente circondato da pigre mosche svolazzanti e capace di farti inaspettate domande personali. Per chi non fosse mai entrato in quel piccolo paradiso del cinema che è l’Azzurro Scipioni, da fuori sembra una bottega artigiana e di fatto lo è: alla cassa è facile trovare lui, il regista / scrittore/ editore / produttore / sceneggiatore / esercente. Dopo aver letto Marx, Silvano aveva capito l’importanza di controllare per intero tutto il ciclo produttivo di un film e si era ingegnato di conseguenza. Né si perdeva mai l’occasione di proporti un suo libro (quanti ne ha scritti?) o di programmare uno dei suoi tanti film, che alla fine non ti perdevi mai e amavi rivedere. Comodissime le sue poltrone (che ora mette in vendita a 5 euro l’una), recuperate a Fiumicino da un aereo Alitalia in disarmo, quasi un anticipo della saga della nostra compagnia di bandiera. Suggestivi i vecchi proiettori esposti nel vestibolo, che amavo per essere stato io stesso un proiezionista. Non ho mai seguito i suoi corsi di cinema (economici al massimo) ma devo riconoscere che i suoi allievi non sono mai stati affetti da precoce commercializzazione. Questo vuol dire che Silvano ha sempre avuto un’etica, al punto di aver sempre restituito fino all’ultima lira i soldi dell’articolo 28, quel dettato di legge che attraverso il credito cinematografico finanziava il cinema d’autore, ma che fin troppo spesso è stato concesso a chi non manteneva le promesse o era meglio si dedicasse ad altre forme d’arte. Silvano era il primo a dire che i contributi statali non migliorano la qualità dell’arte, e che i film si possono fare con pochi soldi, cosa vera soprattutto da quando la pellicola è stata sostituita dal video e dal digitale.

Sul cinema di Silvano si può scrivere molto, visto che copre già oltre cinquant’anni di lavoro, iniziato con i cinegiornali del ’68 e continuato sia con film di impegno civile (Il giardino delle delizie, D’amore si vive, L’addio a Giovanni Berlinguer, Matti da slegare, etc.) che puramente personali e poetici (L’uomo proiettile, Uova di Garofano, La ragion pura, Quartiere). Si va dal documentario (quasi una ventina) al cortometraggio e al lungometraggio a soggetto, uno dei quali – Uova di garofano – fu presentato nel 1992 alla Mostra del cinema di Venezia; naturalmente l’ultimo giorno, quando i critici sono ormai sfiancati e i giornalisti ripartiti: ricordo ancora il successivo incontro con attori/parenti, di cui poco capivo la parlata bresciana. Ora va di moda l’aggettivo “inclusivo”, ma il cinema di Silvano lo è sempre stato, accogliendo umanamente degenti psichiatrici, trans, disabili, barboni e quant’altro. Dico accogliendo e non “descrivendo”, visto che Silvano ha dato a tutti la dignità di personaggio e il diritto di esprimersi e godere dei diritti civili. “Proclamare l’essere umano patrimonio dell’Umanità” è una frase sua.

 Anche se poi non ho mai fatto l’alba con le sue maratone cinematografiche di Capodanno, devo sempre a Silvano la possibilità di aver potuto partecipare a eventi unici, come un incontro con Helmut Berger. Ma ho anche presentato a Silvano un regista armeno di cui neanche ricordo il nome, il quale sotto braccio aveva le pizze di un suo film girato nel Nagorno-Karabach, zona che per me era familiare quanto la Jakuzia di Risiko o la Kirghisia… di Silvano Agosti. Quel regista sarebbe poi espatriato dai parenti in Francia, ma per fortuna Silvano parlava russo correntemente, forse da giovane aveva studiato cinema al Goskino. In quel caso era stato un ottimo studente di un’ottima scuola, attualmente frequentata dalla figlia di un mio amico finlandese.

Un’amica mi dice ora che suo nipote era rimasto affascinato dal film Hugo Cabret proiettato all’Azzurro Scipioni. Glielo aveva fatto vedere per fargli capire chi era George Meliès e alla fine il nipote ci ha addirittura scritto la tesi di laurea. Ma sulla magia del cinema ricordo proprio la figura dell’ebreo con la lampada magica o il proiettore che inizia un bambino alla magia del cinema in Uova di Garofano, più tutte le volte che ho visto Nel corso del tempo di Wim Wenders. Sempre di Wenders è lì che ho visto Pina Bausch e Il Sale della terra. Ma è senza conto l’elenco dei film visti e rivisti nelle due sale Chaplin e Lumière. Chi veniva per la prima volta aveva diritto al rimborso del biglietto qualora il film non gli fosse piaciuto, ma penso che pochi abbiano mai richiesto indietro i soldi.

Proprio l’esempio della mia amica che ha portato il nipote all’Azzurro Scipioni la dice lunga sul rapporto tra i giovani e la sala cinematografica. Se vedi i film ti viene voglia di farli, di capire come si scrivono e si producono. Personalmente non amo vedere i film in tv e su DVD, a meno che me li sia persi o debba studiarci sopra. Ma quanti ragazzi sono mai entrati in una sala cinematografica che non proietti film di avventura pieni di effetti speciali (che non disdegno, sia chiaro: l’importante è non trasformare in discorso un film per ragazzi). Il cinema vive, ma non c’è stato ricambio in sala, è mancata la trasmissione fra generazioni, complice anche il costo dei biglietti e l’offerta stratosferica sulle varie piattaforme digitali. Una volta attenuata l’attuale pandemia, mi piace pensare che l’Azzurro Scipioni possa sopravvivere anche senza l’aiuto del Comune di Roma. Intanto è tutto da vedere, vista la fragile posizione attuale dell’Assessore alla crescita culturale, come si fa chiamare Luca Bergamo. E poi il cinema esiste finche ci sono i film e gli spettatori.

DECIFRARE LE SCRITTURE ANTICHE

E’ ufficiale: la scrittura lineare Elamita è stata parzialmente decifrata. A farlo è stato un archeologo professionista francese e i risultati sono stati presentati ufficialmente all’Università degli studi di Padova, in attesa di essere discussi sulle riviste scientifiche specializzate. Lo scrivo perché troppe volte avventurieri dell’archeologia si sono svegliati una mattina con la chiave per decifrare lingue e scritture antiche, fosse l’etrusco o il disco di Festo. L’archeologo francese François Desset è invece uno specialista ancora giovane (38 anni), ha un incarico all’Università di Lione; il problema lo studiava dal 2008, ed è il primo a dire che ci vorranno almeno altri quattro anni per decifrare in parte la quarantina di iscrizioni “elamite” (il nome è convenzionale) a noi rimaste. Si tratta di una civiltà della penisola iranica parallela al mondo assiro-babilonese ma linguisticamente ed etnicamente diversa e isolata, fiorita 3-4000 anni fa. Le iscrizioni studiate risalgono al 1950 a.C. circa e hanno l’insolita caratteristica di essere stilate in una scrittura completamente fonetica: a ogni segno grafico cioè corrisponde un suono (meglio: un fonema) e i segni sono un centinaio, quindi molti sono sillabici (come nell’alfabeto etiope). Una stranezza, visto che le scritture antiche, come il geroglifico egiziano e il cuneiforme assiro, sono inizialmente logografiche (ai segni corrisponde un oggetto o un concetto) e solo più tardi si evolvono in senso fonetico. Tanto per fare un esempio, il disegno di una nave significa appunto “nave”, ma più tardi può indicare il fonema “na” o la lettera “n”. Quanto al sistema pensato da Desset, è analogo a quello usato a suo tempo da da Champollion – un altro francese – per decifrare i geroglifici egiziani al tempo di Napoleone: identificare il nome del Re. Lo stesso fece il tedesco Grotefend,  il  quale identificò  i  nomi  degli  imperatori  persiani  Dario  I  e Serse nelle iscrizioni cuneiformi di Persepoli e Bisitun. Solo che nell’elamitico questi nomi non erano racchiusi in un cartiglio come nella Pietra di Rosetta, quindi l’operazione ha richiesto più tempo. Ma una volta raggiunto questo primo obiettivo, è stato più facile decifrare il resto, tenendo presente che nei documenti antichi la scrittura era destinata alle operazioni amministrative (come nella Lineare B cretese, su cui torneremo) o alle dediche formali. In questo caso le frasi ricorrenti sono del tipo “io XY, figlio del re XZ..”, “questo tempio è stato dedicato da…” “offerta in onore del dio YZ…”, quindi alla fine sono anche ripetitive, come certe iscrizioni funerarie etrusche che alla fine dicono sempre le stesse cose. Solo più tardi viene messa per iscritto la letteratura, ma dopo secoli di trasmissione orale; esempio classico: i poemi omerici.

Decifrare le scritture antiche è sicuramente una sfida appassionante, ma richiede metodo scientifico. La Lineare B cretese fu decifrata da Michael Ventris insieme a John Chadwick. nel 1952 e ancora c’è chi pensa trattarsi di due archeologi dilettanti, complice una certa stampa divulgativa. In realtà Chadwick era un glottologo e Ventris un giovane matematico e crittografo. Quindi non un dilettante, ma un geniale professionista prestato all’archeologia. E anche in questo caso c’erano anni di studio sistematico della documentazione, in questo caso composta da centinaia di tavolette di terracotta incise, contenenti atti amministrativi del potere miceneo. La lingua fu dimostrata essere un greco arcaico, una lingua cinquecento anni più antica di quella di Omero e spesso trascritta in forma abbreviata, ma comprensibile. Resta però ancora da decifrare la Lineare A, più antica, scritta in una lingua diversa ma con segni talvolta simili. Ma sicuramente anche qui si tratta di documenti amministrativi.

Una volta stabilito il verso della scrittura e sempre che un testo sia leggibile (non solo lo stato di conservazione spesso è un problema, ma troppe volte le parole sono scritte una attaccate all’altra), un problema è costituito dal numero e lunghezza dei testi: più i testi sono numerosi e lunghi, più facile è affrontarli. L’etrusco p.es. ci ha lasciato tanti testi leggibili (l’alfabeto è noto) ma quasi sempre brevi e ripetitivi, essendo dediche funerarie. L’analisi linguistica è basata in sostanza su due parametri: l’occorrenza statistica di alcuni segni o gruppi di segni (che identifica parole o anche formule fisse) e la posizione di questi blocchi all’interno della serie di segni, ovvero quello che in linguistica si chiama sintassi. Nel primo caso possiamo anche andare oltre: se un blocco ricorrente ABC si lega spesso a suffissi o prefissi DF o GH, possiamo suggerire che queste particelle aggiungano senso alla parola centrale: potrebbero marcare aggettivi (p.es., matre-ma, “mia madre” in siciliano) o flessione (come nelle declinazioni latine: matri-bus, “alle madri”). La sintassi si occupa invece della distribuzione degli elementi all’interno del testo. Tenendo presente che tutte le lingue servono per comunicare e quindi sono macchine logiche, è altrettanto logico che stabiliscano il rapporto tra chi parla e il mondo esterno. Quindi, avremo un Soggetto che compie l’azione, un Oggetto con cui entrare in relazione e un verbo (magari sottinteso) che specifica che tipo di azione intendo fare: esprimere un possesso (verbo avere), un’identità (verbo essere) o un’azione (p.es., verbo fare, donare, etc.). Le disposizioni sono sempre quelle: Soggetto + Verbo + Oggetto (SVO) o Soggetto + Oggetto + Verbo (SOV). Il resto sono funzioni di valore aggiunto per indicare dove, come, quando. Ma ora c’è il computer.

L’idea alla base è quella di individuare le relazioni tra le parole mappando una lingua specifica. Serve un database di testo che permette al software di calcolare, per esempio, per ogni parola, quanto spesso essa si ripete accanto a determinati termini. Lo studio statistico di ogni singola parola permette di creare uno spazio multidimensionale con dei parametri che descrivono la sintassi della lingua in base a quel termine specifico. Il sistema non capisce il significato, per lui ogni frase è solo un insieme di vettori nello spazio che occupano gli stessi punti e ripetono il loro comportamento. Sovrapponendo le mappe “spaziali” di una lingua rispetto a una sconosciuta si possono individuare “pattern” simili e quindi tentare una traduzione.

Con i computer dunque ora è tutto più facile: anche i geroglifici sono stati codificati in codici alfanumerici per poter essere letti dalle macchine, e sono stati sviluppati algoritmi, usati ora nelle perizie di tribunali, capaci di scartare il testo di un contratto falso se divergente nella distribuzione di alcuni elementi o persino nella ricorrenza di gruppi ternari di lettere. Da notare che l’archeologia ormai si vale di tecnologie pensate per altri fini: l’analisi dei metalli era stata sviluppata per le perizie balistiche, ma ora anche l’archeologo per stabilire l’autenticità di un monile si appoggia ai laboratori della Polizia Scientifica.

I casi impossibili? Documenti scarsi di numero, brevi e scritti nell’alfabeto sconosciuto di una lingua sconosciuta. Stiamo parlando di una serie di iscrizioni e sigilli del’antica valle dell’Indo, miste pittografiche; del Meroitico (alta Nubia al confine col Sudan); di alcuni linguaggi precolombiani che sopravvivono nei dialetti locali; alcune iscrizioni c.d. “Rongo-Rongo” dell’Isola di Pasqua, affini per lingua alla locale parlata Rapanui. E in più un reperto che appassiona da anni studiosi e dilettanti: il Disco di Festo (o Festos), nell’isola di Creta. Su questo reperto esprimo i miei dubbi: è un documento unico, isolato e inciso su terracotta con punzoni metallici. Ufficialmente ha precorso i tempi di Gutemberg, ma trovo più logico che il falsario (l’archeologo Luigi Pernier?) abbia ingenuamente proiettato nei tempi arcaici la propria mentalità. E poi, se i punzoni servivano per produrre documenti in serie, dove sono finiti tutti gli altri? Sarebbe ora di rileggersi con cura il giornale di scavo della Missione italiana a Creta nel 1908 e cogliere le incongruenze del caso. Il falso non ha storia, esce sempre dalla nebbia e mescola allegramente elementi presi da altri modelli; ebbene, qui non manca niente per rientrare nella categoria, visto che molti simboli sembrano presi da altre culture e documenti. Ma passiamo al dettaglio di questo strano documento isolato: è una sorta di DVD di argilla cotta, fin troppo pulito e intonso, inciso su due lati con 241 simboli, spesso assiepati o mal allineati. I punzoni erano 45, probabilmente metallici. La distribuzione dei simboli fra le due facce è molto diseguale e solo questo mi fa pensare a un grossolano falso: tale divario non è coerente con la normalità di un testo. Se sono in sequenza, due pagine di un libro di preghiera o di un testo amministrativo non possono essere troppo diverse: è normale aspettarsi la continuità testuale e stilistica del testo unico.

E qui mi voglio divertire esponendo alcuni tentativi di decifrazione del disco di Festo, opera sia di noti archeologi che di fantasiosi dilettanti. Chi ha interpretato i segni come geroglifici, chi ha dato loro un valore fonetico sillabico, ma l’insieme è un autentico delirio:

  1. “Alla grande signora dei Keftiti, alla grande Atena dominatrice degli animali, sbaragliatrice egli Irafioti, Ronte, figlio di Danao asperse, Ronte nel tempio dei Keftiti, Ronte, figlio di Danao, asperse l’albero. Menafite, l’esperto sommo sacerdote, eliminò gli animali infetti e il giusto Radamante rese grazie alla dea Era”.
  2. “E’ stato decodificato di recente il disco di Festo,un disco di pietra di origine Atlantidea risalente al 1700 A.C in cui vi sono scolpiti in entrambi i lati dei simboli che fino ad oggi non si sapeva cosa significassero e si è scoperto che indicano la causa delle malattie genetiche per prevenirle e curarle. La decodifica è stata possibile con un antico testo etiope”.
  3. “Sei parole parlano di luce ed altri sei di luce del tramonto; tre parole parlano della Dea incinta mentre altre dieci attribuiscono vari epiteti alla Dea”.
  4. “Altri credono che contenga una storia di narrativa o d’avventura, oppure che si tratti di un gioco da tavolo o di un teorema geometrico”.
  5. “Fu  fatto  realizzare,  per  suo  uso  esclusivo,  da  una  sacerdotessa  cretese,  dedita  ai  rituali  sessuali,  appartenente   alla   comunità   sacerdotale   di   Malia. Il  Disco  veniva  utilizzato  una  volta  all’anno  insieme  alla  Pietra  di  Kernos,  oggetto  circolare  di  circa  90  cm  di  diametro,  con  34  vaschette  lungo  il  perimetro:  trentatrè  della  medesima  dimensione  e  una  più  grande.  Oggi  si  trova  all’interno  del  sito  archeologico  di  Malia,  ovvero  dove  venne  realizzata nel 2560 a.C. – Non di semi venivano riempiti gli incavi della Pietra di Kernos, ma di sperma: lo sperma di 34 giovani uomini appartenenti alla sopraccitata comunità di Malia”.
  6. “Partendo proprio dalla margherita al centro di una faccia del disco (…) è facile tradurre il disco di Festo che racconta una bellissima storia d’amore che si svolge sulle sponde del Mar Nero e lungo il percorso del fiume Istros, oggi Danubio. Un giovane principe del popolo dei Traci si innamora di una principessa lontana, la nobile Pellicana figlia del re dei Pelagi. Ad aiutarlo nell’intento di impalmare la giovane e bellissima principessa è lo stesso padre del principe. Con l’aiuto del nobile genitore e delle tribù dei Daci, raffigurati nel disco col simbolo dei lupi, e degli Apuli raffigurati col simbolo delle api, il giovane principe dopo varie peripezie riesce a sposare l’innamorata. Dalla coppia regale nasce un bellissimo figlio che dona letizia a tutta la nazione.
  7. “Analizzandone  il  testo,  prende forma la consapevolezza che il cerchio voglia esprimere, rappresentare in maniera immediata e simbolica, conoscenze geo-matematiche che attengono alla figura. l Disco di Festo altro non è che un “normalissimo” calendario-diario ad uso e consumo, forse, dei  giovani”
  8. “Beata dea del labirinto. Beata  Isonoia,  dea del destino e custode della casa che protegge il passaggio (all’al di là). La Creontide Daphne vi consacra a te – la Creontide, nell’inaccessibile del labirinto – la Creontide Daphne vi consacra a te la mummia di Maniaporte, esperta delle leggi e delle consuetudini  nazionali dei popoli. Ti è stato massacrato dai reparti di Tideo, perciò è stato sposato alla forte Deione il celebrato Radamanto”.

Che dire? Il mondo è bello perché vario.

COVID- ECONOMY

Avevo immaginato un racconto in cui una giovane coppia di disoccupati reclusi come tutti noi altri per tre mesi nel loro appartamento, per campare s’inventano una videochat erotica a pagamento, vincendo le proprie inibizioni pur di poter fare la spesa guadagnando la percentuale sulle loro prodezze sessuali. Mi accorgo invece di esser arrivato tardi: in una simpatica intervista su Youtube una giovane coppia siciliana che vive però a Tenerife (Canarie) spiega come fa da mesi a guadagnare un sacco di soldi in rete rivendendo ai fan e agli abbonati il loro “recitar scopando”. Mamma all’inizio non era d’accordo, ma ora ha capito… l’intervista è un capolavoro di ottimismo, morale liquida e spontaneità: a sentir loro, è un lavoro molto creativo, proficuo e naturale, e i video più visti non sono quelli più “penetranti”, ma quelli dove la coppia esprime amore e passione. Romantico! Visti i tempi che corrono, manca solo la benedizione di papa Francesco per sdoganare questo modo di vivere candido, sincero e naturale. Quei due sono arrivati a mettere su Pornhub (una piattaforma specializzata in linea) anche 14 video al mese, il che non è poco, visto che la postproduzione include sfraso, editing e montaggio. Non solo: all’impresa si sono associate altre coppie, unite dall’utile e il dilettevole. Certo, se diventa un lavoro non è sempre un divertimento, visto i limiti fisiologici maschili, ma evidentemente il lavoro di gruppo ridistribuisce meglio le energie e le risorse. E devono saperci proprio fare, visto che sono censiti fra i primi venti “performer” o “model” più gettonati in rete, ora che la disintermediazione del web ha distrutto quello che prima era un mondo chiuso, ovvero il porno industriale. Se andate a curiosare in certi siti o piattaforme, vi accorgerete che basta una telecamera HD, un buon collegamento di rete, uno spazio privato da usare come set e quel tanto di fantasia e faccia tosta che ti permettono di esibirti davanti agli altri, magari dopo un buon bicchiere di cognac. Per i pagamenti si ricorre a carte di credito o trasferimenti di valuta simili a Western Union, basati all’estero e al di fuori delle leggi nazionali che regolano certi ambiti: vendersi pur virtualmente, in Italia rientra nel reato di sfruttamento della prostituzione. Ma ora la pacchia è finita: i grandi circuiti come Mastercard hanno bloccato i pagamenti verso Pornhub e altre piattaforme simili, in seguito a una serie di denunce penali. Il problema è il solito: in rete nessuno controlla i contenuti e i provider si ritengono esenti dal farlo, anche se è impossibile passare al setaccio milioni di documenti. E’ successo con Youtube,  Facebook e Istagram, e in genere a propugnare azioni legali sono i detentori di copyright più che le associazioni civiche. Nel porno però la questione è delicata: dalle denunce penali dei privati si evince che non sempre attori e attrici sono consenzienti e maggiorenni e che la documentazione allegata è spesso falsa. In effetti, almeno a scorrere i filmati postati gratis (su quelli riservati a chi paga non posso pronunciarmi) qualche sospetto può anche affiorare: a parte l’età degli attori e delle modelle, non sono rare scene di sesso violento, né è inverosimile l’uso di droghe. In più, le modalità di certi gruppi porno colombiani e venezuelani, vere e proprie paranze del sesso, suggeriscono una certa prossimità con ambienti criminali. Fatto sta che Pornhub ha eliminato di corsa centinaia di video non certificati, ma non per questo ha evitato il blocco dei pagamenti deciso dai grandi circuiti delle carte di credito. Questo ha dimezzato in poche ore i proventi dei “sex workers”, come gli americani chiamano pragmaticamente tutti quelli che usano per ferro del mestiere i loro organi sessuali. Crisi del settore? Disoccupazione per migliaia di lavoratori e lavoratrici, oneste o meno? Scioperi? Quello che era  finora visibile era solo la punta dell’iceberg.

VIZI PRIVATI E PUBBLICI TABU’

Lo scandalo dell’eurodeputato dell’estrema destra ungherese Jozsef Szajer, coinvolto in un orgia con 25 uomini e uso di cocaina, è solo l’ultimo caso dello storico legame tra perversione e politica. Ma neanche è certo il primo caso di pubblici difensori della famiglia tradizionale che sono insieme peccatori. Certo, se Szajer era stato accusato di omofobia, siamo all’ assurdo: se significa “paura dei gay”, Szajer era invece un temerario. Ma visto che di Ungheria parliamo, mi piace ricordare due stupendi film in argomento, anche se datati: Vizi privati e pubbliche virtù(1975) e Una notte molto morale (1978). Il primo si deve al genio di Miklós Jancsó e declina in modo politico la morte dell’arciduca Rodolfo d’Asburgo (1889), l’erede al trono di Francesco Giuseppe ufficialmente suicidatosi nel castello di caccia di Mayerling assieme alla giovane amante Maria Vetsera. Si parlò di cospirazione internazionale e Jancsó la reinterpreta in modo personale: i due amanti e i loro amici vengono uccisi dalle autorità imperiali per aver complottato di detronizzare l’Imperatore e per la loro sfacciata, degradante immoralità. In realtà l’arciduca è un ribelle e vuole dissacrare l’autorità del padre cominciando da se stesso, e nel film c’è di tutto: orge, incesto, droga, esibizionismo, bisessualità. I funzionari e ufficiali imperiali intervenuti vengono umiliati, finché dopo l’ultima trasgressiva festa quattro ribelli vengono uccisi con la pistola e si spaccia la versione del suicidio. Il film fu denunciato da alcuni critici come “gratuitamente grafico”, ma in realtà è fortemente ideologico: nelle intenzioni del regista, la decadenza e l’ipocrisia dell’impero si riflette nel comportamento perverso e aberrante ma disperato del principe, impersonato da Lajos Balázsovits, mentre Maria Vetsera è Teresa Ann Savoy, che rivedremo in altri film dove sesso e potere s’intrecciano perversamente. Una curiosità: tra le disinibite attrici c’è anche Ilona Staller. Altra curiosità: il titolo originale ungherese è Magánbűnök, közerkölcsök, cioè “vizi privati, pubblici piaceri”.

Una notte molto morale (Egy erkölcsös éjszaka) è un film del 1978 diretto da Károly Makk e per la sceneggiatura si vale anche dello scrittore e commediografo Itsvan Orkeny e del regista Peter Bacso’. La trama è uno spasso: nel migliore bordello cittadino vive ospite uno svogliato studente di medicina, e quando corre voce che la madre verrà a trovare il figlio, i notabili del paese e la tenutaria della “casa” le faranno credere che quello è un prestigioso collegio per ragazze di buona famiglia. Non è detto che la madre (Margit Makay, grande attrice drammatica) ci creda, ma sa mantenere una rassegnata dignità. Ma per una notte tutti mediteranno sulla propria identità, per tornare il giorno dopo alle solite abitudini.

In realtà il decennio che segue il ’68 è uno stupendo elenco di riflessioni sul potere: La Caduta degli Dei diretto da Luchino Visconti del 1969 con Helmut Berger, Il Portiere di notte di Luciana Cavani del 1974 con protagonista Dick Bogarde o ancora Zeta – L’ orgia del potere di Costa Gravas del 1969, con Irene Papas. Nel 1975, poche settimane prima del massacro sul lido di Ostia, Pier Paolo Pasolini conclude le riprese del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, affidando alla raffigurazione orgiastica una potente metafora del potere, attinta all’opera del marchese de Sade. L’anno successivo vede l’uscita di Salon Kitty, di Tinto Brass, metafora invece di Sesso e Nazismo. E qui ritroviamo Teresa Ann Savoy, che rivedremo ancora come Drusilla nel 1979 in Caligola, film che pochi hanno visto nella versione integrale e che vide una serie di disavventure produttive uniche nel suo genere: Gore Vidal (sceneggiatore) fu cacciato via dal produttore (e poi regista non accreditato) Bob Guccione (editore della rivista Penthouse), mentre Tinto Brass levò in seguito la firma dalla regia, per cui quel film neanche è chiaro di chi sia. Il film fu poi sequestrato e tagliato tante di quelle volte da non capirci più niente. Nel film comunque sesso e potere sono legati in modo indissolubile, e Caligola (Malcom McDowell) è un campionario di arbitrio, violenza e perversione sessuale tipici appunto del potere assoluto.

Molti dei film citati ebbero continui guai con la censura, che più che al messaggio politico si attaccò alle scene di sesso esplicito presenti nelle opere, in realtà non fini a se stesse come nell’ordinaria pornografia, ma ideologicamente motivate. Non si capisce a questo punto se l’ossessione censoria fosse il sesso o il messaggio politico. Probabilmente tutt’e due, ma fu facile relegare coraggiose opere d’arte al di fuori delle normali sale cinematografiche, relegandole nei cineclub o addirittura nelle sale a luci rosse, dove non erano affatto gradite dal pubblico sbagliato.

COLLIGITE NE PEREANT (raccoglieteli perché non vadano perduti)

«I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono artefatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano memorie diverse per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario »

Con queste parole ICOM, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, annunciava nel 2017 la volontà di ridefinire il suo statuto approvato nel 2007, che definiva il museo nel seguente modo:

    “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.”

ICOM Italia aveva partecipato assieme a 115 paesi all’appello del MDPP (Standing Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials) proponendo una sua definizione di museo. Ne erano state presentate 269.

    “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità.”

Il finale? Una bufera. La politicizzazione della funzione del museo “per adeguarla al linguaggio del XXI secolo” (Jette Sandhal, direttrice del Museo di Copenhagen e chair del comitato ICOM) non è piaciuta e fra il 70% dei membri ancora non si è trovato un accordo, mentre le dimissioni di molti membri hanno confermato le spaccature interne. Nell’intento di Sandahl e della “sinistra museale” le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».

Leggendo il testo con gli occhi disincantati di chi nei musei ci lavora, sorprende questo tono messianico, saturo di onnIcomprensive enunciazioni di principio che comunque nessun paese autoritario sarebbe capace di accettare senza chiuder tutto. E se invece dell’ICOM il documento l’avesse stilato papa Francesco? Provate a sostituire “museo” con “chiesa” e non vi accorgerete della differenza. Ma se una definizione circoscritta a un specifico ambito scientifico diventa un’inclusiva frase alla moda, allora vuol dire che qualcosa non funziona. Forse si è messa troppa carne al fuoco: per estendere il senso e  la funzione del museo se ne ottunde il carattere specifico, esclusivo, né questo aiuta un direttore di museo nella gestione ordinaria: al momento di chiedere i fondi o far approvare un progetto, egli potrebbe chieder tutto e il contrario di tutto, ma anche vedersi bloccare un progetto elitario e poco inclusivo, perché tutti i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione. Vediamoli.

L’esame linguistico del testo individua una serie di termini pertinenti alla vita politica e sociale: il museo è democratizzante (promuove e ostenta sentimenti democratici), inclusivo (valorizza le differenze e offre a tutti le stesse possibilità di crescita civile) , polifonico (unisce voci diverse per suonare e cantare insieme in modo armonico uno spartito condiviso), dialoga criticamente tra passato e futuro,  riconosce e affronta i conflitti e le sfide del presente (obiezione: il museo per definizione conserva testimonianze del passato, il presente non essendo ancora storicizzato). Custodisce artefatti (oggetti prodotti dall’uomo) ed esemplari (campioni, magari da prendere a modello; non è chiaro l’accostamento dei due termini ) “nella fiducia della società” (virgolette mie: il testo inglese recita in trust for society, il che è più chiaro). Diverse sono le memorie per le generazioni future; son garantiti pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutti, in linea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. I musei poi sono partecipativi e trasparenti, quindi gestiti mediante la partecipazione e in modo trasparente (magari! ndr.) e infatti lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità (il pensiero per il diverso è ossessivo). Il termine collaborazione attiva traduce l’inglese active partnership, ma nei documenti UE non ha una traduzione univoca: partenariato attivo, collaborazione attiva, partnership attiva, sinergie attive, compartecipazione estesa (fonte: eur-lex.europa.eu). Il capoverso finale è prolisso: raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo (e perché non piuttosto la storia di una cultura, di una civiltà, di una nazione?) con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Premettendo che molti standard ormai erano già realtà (accessibilità, finalità sociale, abbattimento delle barriere architettoniche, funzione didattica), potremmo dire lo stesso parlando di una scuola, di un centro di ricerca sui cambiamenti climatici, della Casa del Popolo, di GreenPeace o di un orfanatrofio femminile in Somalia.  E’ un  problema di semantica: se i termini usati non sono esclusivi della realtà museale, ma comuni ad altri ambiti o istituzioni, dove risiede dunque lo specifico del museo? Per i Greci, era l’istituzione protetta dalle Muse e per questo esclusiva e sacra, mentre la definizione attuale sembra una fuga in avanti verso funzioni alle quali il museo può concorrere, ma snaturando la sua funzione originaria: conservare per valorizzare e trasmettere. Non a caso, a opporsi a questa nuova definizione sono stati soprattutto i musei europei ritenendola troppo ideologica, mentre quelli africani e sudamericani- chehanno poco da conservare ma molto da dimostrarel’hanno promossa, in modo analogo alla Teologia della Liberazione.Purtroppo la definizione proposta non risponde nella forma ai criteri minimi di una definizione circoscritta chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati. Una nuova definizione deve ribadire la necessità della conservazione della molteplicità delle esperienze dell’umanità ma al contempo indicare una direzione di sviluppo non tanto “sostenibile”, quanto praticabile.

Per concludere, si pongono almeno due ordini di problemi: l’applicabilità della definizione di museo quale ora definita e la sua stessa base ideologica. Un museo non solo va caratterizzato rispetto ad altri istituti culturali, ma va anche gestito, per cui si deve anche valutare il ruolo che la definizione assume nel momento in cui entra nelle legislazioni nazionali e conduce a conseguenze non sottovalutabili anche dal punto di vista operativo. Il museo è già di suo una macchina di produzione ideologica, e politicizzarlo ulteriormente ne complica solo la gestione. E qui entriamo nel secondo problema: davvero un museo è quell’istituzione inclusiva che contribuisce alla dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario? Un museo intanto è selettivo per sua natura e deve aver sottesa un’ideologia capace di dare un valore agli oggetti conservati. Questo valore non è univoco: l’ISIS ha distrutto tante opere d’arte in quanto esse per loro erano idoli pagani. Dietro ogni museo c’è uno stato o una nazione, i cui confini sono spesso arbitrari o frutto di guerre. Il destino storico di un popolo è solo un mito politico del nazionalismo di turno: ogni stato nazionale crea artificialmente una propria mitologia delle origini (per noi italiani la Romanità esaltata dal Duce, Alessandro Magno per l’attuale Macedonia del Nord ) valorizzando alcuni episodi, scartandone o rimuovendone altri e negando l’identità delle minoranze. Lo stesso avvenimento storico ha valenze diverse secondo la comunità di riferimento (andate a Vienna al Museo di storia militare: Custoza e Caporetto sono vittorie austriache), niente è scelto a caso: i musei aiutano a costruire l’identità collettiva e quindi non possono essere neutrali. Specialmente i musei di storia moderna sono condizionati dalla politica e quelli di arte antica – spesso frutto di spoliazioni coloniali – danno per scontata la superiorità di un modello culturale sugli altri e il relativismo culturale sposta solo i confini del problema e moltiplica i centri di potere. C’è sempre un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà, e alla fine c’è sempre chi decide per gli altri, quindi nessuno si illuda che il Museo possa essere un’inclusiva macchina per contribuire al benessere planetario. E’ semplicemente uno strumento a cui non deve essere chiesto di cambiare il mondo, ma di trasmetterne la cultura accettandone i compromessi.


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI
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