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COLLIGITE NE PEREANT (raccoglieteli perché non vadano perduti)

«I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono artefatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano memorie diverse per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario »

Con queste parole ICOM, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, annunciava nel 2017 la volontà di ridefinire il suo statuto approvato nel 2007, che definiva il museo nel seguente modo:

    “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.”

ICOM Italia aveva partecipato assieme a 115 paesi all’appello del MDPP (Standing Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials) proponendo una sua definizione di museo. Ne erano state presentate 269.

    “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità.”

Il finale? Una bufera. La politicizzazione della funzione del museo “per adeguarla al linguaggio del XXI secolo” (Jette Sandhal, direttrice del Museo di Copenhagen e chair del comitato ICOM) non è piaciuta e fra il 70% dei membri ancora non si è trovato un accordo, mentre le dimissioni di molti membri hanno confermato le spaccature interne. Nell’intento di Sandahl e della “sinistra museale” le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».

Leggendo il testo con gli occhi disincantati di chi nei musei ci lavora, sorprende questo tono messianico, saturo di onnIcomprensive enunciazioni di principio che comunque nessun paese autoritario sarebbe capace di accettare senza chiuder tutto. E se invece dell’ICOM il documento l’avesse stilato papa Francesco? Provate a sostituire “museo” con “chiesa” e non vi accorgerete della differenza. Ma se una definizione circoscritta a un specifico ambito scientifico diventa un’inclusiva frase alla moda, allora vuol dire che qualcosa non funziona. Forse si è messa troppa carne al fuoco: per estendere il senso e  la funzione del museo se ne ottunde il carattere specifico, esclusivo, né questo aiuta un direttore di museo nella gestione ordinaria: al momento di chiedere i fondi o far approvare un progetto, egli potrebbe chieder tutto e il contrario di tutto, ma anche vedersi bloccare un progetto elitario e poco inclusivo, perché tutti i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione. Vediamoli.

L’esame linguistico del testo individua una serie di termini pertinenti alla vita politica e sociale: il museo è democratizzante (promuove e ostenta sentimenti democratici), inclusivo (valorizza le differenze e offre a tutti le stesse possibilità di crescita civile) , polifonico (unisce voci diverse per suonare e cantare insieme in modo armonico uno spartito condiviso), dialoga criticamente tra passato e futuro,  riconosce e affronta i conflitti e le sfide del presente (obiezione: il museo per definizione conserva testimonianze del passato, il presente non essendo ancora storicizzato). Custodisce artefatti (oggetti prodotti dall’uomo) ed esemplari (campioni, magari da prendere a modello; non è chiaro l’accostamento dei due termini ) “nella fiducia della società” (virgolette mie: il testo inglese recita in trust for society, il che è più chiaro). Diverse sono le memorie per le generazioni future; son garantiti pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutti, in linea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. I musei poi sono partecipativi e trasparenti, quindi gestiti mediante la partecipazione e in modo trasparente (magari! ndr.) e infatti lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità (il pensiero per il diverso è ossessivo). Il termine collaborazione attiva traduce l’inglese active partnership, ma nei documenti UE non ha una traduzione univoca: partenariato attivo, collaborazione attiva, partnership attiva, sinergie attive, compartecipazione estesa (fonte: eur-lex.europa.eu). Il capoverso finale è prolisso: raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo (e perché non piuttosto la storia di una cultura, di una civiltà, di una nazione?) con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Premettendo che molti standard ormai erano già realtà (accessibilità, finalità sociale, abbattimento delle barriere architettoniche, funzione didattica), potremmo dire lo stesso parlando di una scuola, di un centro di ricerca sui cambiamenti climatici, della Casa del Popolo, di GreenPeace o di un orfanatrofio femminile in Somalia.  E’ un  problema di semantica: se i termini usati non sono esclusivi della realtà museale, ma comuni ad altri ambiti o istituzioni, dove risiede dunque lo specifico del museo? Per i Greci, era l’istituzione protetta dalle Muse e per questo esclusiva e sacra, mentre la definizione attuale sembra una fuga in avanti verso funzioni alle quali il museo può concorrere, ma snaturando la sua funzione originaria: conservare per valorizzare e trasmettere. Non a caso, a opporsi a questa nuova definizione sono stati soprattutto i musei europei ritenendola troppo ideologica, mentre quelli africani e sudamericani- chehanno poco da conservare ma molto da dimostrarel’hanno promossa, in modo analogo alla Teologia della Liberazione.Purtroppo la definizione proposta non risponde nella forma ai criteri minimi di una definizione circoscritta chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati. Una nuova definizione deve ribadire la necessità della conservazione della molteplicità delle esperienze dell’umanità ma al contempo indicare una direzione di sviluppo non tanto “sostenibile”, quanto praticabile.

Per concludere, si pongono almeno due ordini di problemi: l’applicabilità della definizione di museo quale ora definita e la sua stessa base ideologica. Un museo non solo va caratterizzato rispetto ad altri istituti culturali, ma va anche gestito, per cui si deve anche valutare il ruolo che la definizione assume nel momento in cui entra nelle legislazioni nazionali e conduce a conseguenze non sottovalutabili anche dal punto di vista operativo. Il museo è già di suo una macchina di produzione ideologica, e politicizzarlo ulteriormente ne complica solo la gestione. E qui entriamo nel secondo problema: davvero un museo è quell’istituzione inclusiva che contribuisce alla dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario? Un museo intanto è selettivo per sua natura e deve aver sottesa un’ideologia capace di dare un valore agli oggetti conservati. Questo valore non è univoco: l’ISIS ha distrutto tante opere d’arte in quanto esse per loro erano idoli pagani. Dietro ogni museo c’è uno stato o una nazione, i cui confini sono spesso arbitrari o frutto di guerre. Il destino storico di un popolo è solo un mito politico del nazionalismo di turno: ogni stato nazionale crea artificialmente una propria mitologia delle origini (per noi italiani la Romanità esaltata dal Duce, Alessandro Magno per l’attuale Macedonia del Nord ) valorizzando alcuni episodi, scartandone o rimuovendone altri e negando l’identità delle minoranze. Lo stesso avvenimento storico ha valenze diverse secondo la comunità di riferimento (andate a Vienna al Museo di storia militare: Custoza e Caporetto sono vittorie austriache), niente è scelto a caso: i musei aiutano a costruire l’identità collettiva e quindi non possono essere neutrali. Specialmente i musei di storia moderna sono condizionati dalla politica e quelli di arte antica – spesso frutto di spoliazioni coloniali – danno per scontata la superiorità di un modello culturale sugli altri e il relativismo culturale sposta solo i confini del problema e moltiplica i centri di potere. C’è sempre un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà, e alla fine c’è sempre chi decide per gli altri, quindi nessuno si illuda che il Museo possa essere un’inclusiva macchina per contribuire al benessere planetario. E’ semplicemente uno strumento a cui non deve essere chiesto di cambiare il mondo, ma di trasmetterne la cultura accettandone i compromessi.


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI
http://www.motodellamente.eu/arte/beni-culturali-un-faro-con-tanti-filtri/

TRIESTE di nuovo porto della Mitteleuropa

Trieste è una città che ha pagato cara la sua annessione all’Italia nel 1919: da porto dell’Impero asburgico è diventato un porto decentrato e in più è stata testimone di tutti gli attriti di frontiera possibili. Occupata da Tito nel 1943, fu restituita all’Italia nel 1954 e fino a tempi recenti non è più riuscita a riprendere la sua funzione originaria di porto dell’Europa centrale: nel primo dopoguerra la frammentazione degli stati nazionali ne ha distrutto il monopolio, mentre nel secondo il mondo comunista come sistema economico chiuso ha persino militarizzato le frontiere, col risultato di un’anemia portuale bilanciata anche tra le due guerre da un forte investimento statale nella cantieristica e nei servizi. Il discutibile Trattato di Osimo (1975) prevedeva accanto a Trieste una zona industriale con manodopera slava residente, sorta di “Novi Trst”, mentre i fondi per il rilancio del porto furono dirottati da Tito al potenziamento di quello di Capodistria. La successiva dissoluzione della Jugoslavia riaprì le frontiere ma frammentò di nuovo i flussi commerciali. In più, i collegamenti ferroviari erano rimasti praticamente quelli imperial-regi: chi scrive ricorda che ancora negli anni Settanta i lunghi treni merci scorrevano la sera da Trieste Centrale verso il porto industriale passando davanti a piazza Unità, fin quando nel 1983 non fu ultimata una galleria che dal porto nuovo si ricollega al tronco della vecchia Ferrovia Meridionale e quindi ad Austria e Germania. Mentre l’Ungheria ha comprato un molo, nel frattempo i Tedeschi attraverso un loro colosso della logistica portuale, il porto di Amburgo (Hamburger Hafen und Logistik, o HHLA) hanno acquisito una quota maggioritaria pari a 50,01% del terminal multifunzione del porto di Trieste (Piattaforma Logistica Trieste, o PLT). Si ricorda qui che i Cinesi volevano comprare il porto anche loro, ma le pressioni americane sotto la presidenza Trump hanno condizionato le nostre scelte di governo e di fatto bloccato (per ora) lo sviluppo della Nuova Via della Seta (BRI) e delle sue implicazioni strategiche, peraltro sottovalutate dal nostro governo. L’ingresso del capitale tedesco mette a nudo la mancanza di una solida logistica italiana, ma è coordinato con l’Unione Europea ed entra in competizione con un rivale sistemico, la Cina. Trieste ha comunque recuperato la sua centralità, ma è difficile spiegare questo sviluppo se non si tiene conto da un lato della migliorata logistica ferroviaria del porto e delle linee di collegamento intermodale a impatto zero con Austria e Germania (i c.d. corridoi TEN-T EU), ma soprattutto dell’evoluzione del flusso merci mondiale, che finora previlegiava la rotta Asia – Sudafrica – Amburgo/Rotterdam per poi distribuire le merci per le comode vie d’acqua (fiumi e canali navigabili) dell’Europa continentale. Oggi invece  la crescita dei paesi dell’Est Europa e la migliore logistica ferroviaria stanno dirottando parte delle navi attraverso la rotta Asia – Suez – Pireo – Trieste. A questo punto l’integrazione con la Germania e il suo blocco economico (comprendente l’Austria, i Paesi dell’Europa orientale, il Benelux e, attraverso i legami con l’industria manifatturiera italiana, il Nord del nostro Paese) è parsa anche alle autorità portuali di Trieste la strada più funzionale per restituire alla città giuliana il ruolo strategico di crocevia dei commerci assunto per secoli durante la dominazione austriaca. La Germania ha trovato in pochi mesi a Trieste quel ruolo strategico che a lungo i governi italiani hanno paventato ma mai, in fin dei conti, costruito a livello sistemico. Da un lato tardiamo a fare sistema, dall’altro siamo in ritardo non tanto nei porti, ma nel collegamento tra i porti e le vie di comunicazione.

Questo mi ha portato fra l’altro a leggere un libro quest’anno (2020) ma in realtà aggiornato solo al 2006: L’Italia e il confine orientale, di Marina Cattaruzza, molto utile per capire non solo la situazione attuale, ma anche la debole capacità dello Stato italiano nel gestire e organizzare le risorse e i problemi della Venezia Giulia, un’entità mai ben definita sul piano politico ed etnico, dove le varie comunità locali – a cominciare dalla stessa borghesia triestina – avrebbero preferito collaborare in regime di autonomia piuttosto che subire l’italico centralismo amministrativo. Il Trattato di Rapallo (1920), anche se deluse la nazione e fece coniare a D’Annunzio la nota espressione della Vittoria Mutilata, assegnava comunque all’Italia 200.000 germanofoni tirolesi e 400.000 slavi tra sloveni e croati. Il presidente Wilson passa per campione dell’autodeterminazione delle nazioni, ma in realtà tre milioni di ungheresi furono assegnati alla Romania. L’Italia ottenne anche il Brennero per riconosciuti motivi strategici (ancora nel 1943 entreranno da lì le truppe di occupazione della Wehrmacht), ma l’Austria era un perdente, mentre l’artificiale Regno di Jugoslavia si presentava come potenza giovane, vittoriosa e concorrente con l’irredentismo italiano, nel primo dopoguerra ormai difficilmente scindibile dalla politica di potenza. Da qui l’inevitabile attrito con gli slavi, specie in un’epoca dove nessuno stato europeo tutelava realmente le minoranze. Il Fascismo poi appoggiò l’insufficiente azione dello Stato dando mano libera alle proprie squadre, operazione non solo sbagliata sul piano giuridico, ma indice di scarsa capacità di governo delle proprie zone di confine. E se i confini fisici dell’Italia sono assolutamente definiti – l’arco alpino da Ventimiglia fino a Pola – non sempre sono lo spartiacque perfetto fra diverse nazioni: francesi, tedeschi, slavi.

La seconda Guerra Mondiale avrebbe visto una dura guerra nei Balcani e nel 1943 il collasso dell’Italia e del suo esercito, mentre le formazioni partigiane di Tito occupavano per sempre Istria e Dalmazia e completavano un processo storico che nel lungo periodo avrebbe comunque visto la slavizzazione di zone una volta italofone e in gran parte costiere. Trieste fu restituita all’Italia nel 1954 dopo un periodo di occupazione alleata e per anni è sopravvissuta grazie al commercio frontaliero e a forti commesse di Stato, essendo i confini sigillati e militarizzati. Nel libro purtroppo non si parla mai del dispositivo militare italiano che dipendeva dal V Corpo di Armata e presidiava il confine e l’entroterra per tutta la Guerra Fredda, mentre sarebbe interessante capire il costo dell’impresa. Un tentativo di chiudere una volta per tutte la partita fu il Trattato di Osimo (1975), negoziato da Aldo Moro ma sicuramente influenzato dai colloqui tra Berlinguer e Tito svolti qualche mese prima. Con quel trattato firmato di nascosto in una villa privata in un paesino delle Marche e firmato dal capo del Governo (Aldo Moro) invece che dal ministro degli Esteri (Mariano Rumor) si chiudeva il lungo contenzioso, ma soprattutto si dava sponda a Tito cercando di attirarlo nell’area occidentale e garantendo ossigeno alla sua Jugoslavia. Era l’anno del Trattato di Helsinki, si parlava solo di distensione e sicuramente il governo americano fece pressioni sul nostro, che cercò goffamente di presentare il trattato come una vittoria della diplomazia italiana. Si temeva tra l’altro che dopo Tito la Jugoslavia sarebbe stata invasa o divisa dall’Unione Sovietica, ma nessuno poteva sapere che le due entità statali sarebbero sparite dalla faccia della Terra praticamente insieme. Fortemente voluta da Germania, Austria e Ungheria (e Vaticano) fu invece l’indipendenza di Slovenia e Croazia dalla morente Federazione Jugoslava, riconosciuta solo dopo poche ore dall’inizio del conflitto che doveva distruggere quello che Tito aveva pazientemente creato. Anche qui il nostro margine di manovra fu minimo, col risultato di ratificare con “Slo & Cro” il trattato di Osimo, mentre qualcosa avremmo anche potuto ottenere dai nuovi vicini. Come si vede, la storia di Trieste è indissolubilmente legata all’asse geostrategico e commerciale mitteleuropeo e, pur essendo Trieste una città italiana, i veri padroni del porto alla fine non sono gli italiani, ma i destinatari finali delle merci ivi sbarcate e smistate.


L’ Italia e il confine orientale
Marina Cattaruzza

Editore: Il Mulino, 2007, pp. 392

Prezzo: € 15,00

EAN: 9788815121660

L’Europa a piedi

In Italia manca una letteratura di viaggio: esploratori in passato, siamo oggi sedentari, mentre invece gli inglesi si qualificano come grandi viaggiatori. Ho letto i libri di Bruce Chatwin; mi sono appassionato alle imprese di sir Ranulph Fiennes (vedi articolo), ma ignoravo le imprese di Patrick Leigh Fermor, di cui il giovane Nick Hunt ripercorre le tappe. Si direbbe un hobby nordico: Geert Mak segue a distanza di cinquant’anni i viaggi americani di Steinbeck, Dick North ripercorre in Alaska e Canada le orme di Jack London a ottant’anni dalla corsa all’oro. “Paddy” Fermor aveva viaggiato attraverso l’Europa tra il dicembre del 1933 e il gennaio del 1935, rielaborando in seguito la sua esperienza in tre libri: A time of Gifts (1977), Between the Woods and the Water (1986), e The Broken Road: Travels from Bulgaria to Mount Athos (postumo nel 2013) (1). La trilogia, grazie alla vasta e poliedrica cultura dell’autore, risulta arricchita da digressioni storiche, artistiche, antropologiche e politiche. Il nostro giovane seguace non ha di queste pretese e quindi Camminando fra i boschi e l’acqua non è una Guide du Routard aggiornata al 2011, anno del viaggio che da Rotterdam l’ha portato fino a Istambul. L’autore, all’epoca trentenne, è nipote dell’alpinista John Hunt (Everest, 1953) e ha per Fermor una sorta di sacra riverenza, al punto di non avergli mai scritto una lettera. Fermor viveva in Grecia e muore proprio nel 2011, senza sapere che un suo lettore ne stava ripercorrendo i passi. L’Europa di Fermor è quella degli anni Trenta: industriale e insieme agricola, urbana e rurale, ma con una rete stradale ancora embrionale se paragonata a oggi. Molte comunità erano di fatto isolate e autonome, né la tv aveva omologato culture e stili di vita. Fermor però in Germania si scontra presto con la brutale volgarità dei nazisti, non ancora al potere ma ben affermati a Monaco e in provincia. Fermor pochi anni dopo combatterà i nazisti a Creta come incursore di Sua Maestà, arrivando persino a rapire un generale tedesco e consegnarlo ai partigiani greci, ma nel 1933 ancora non può immaginare di cosa saranno capaci le SS. Quando poi seguendo il Danubio passa in Mitteleuropa, da buon inglese è quasi sempre ospitato dalla piccola nobiltà di campagna, classe sociale già in crisi dopo la prima guerra mondiale ma spazzata via dalla seconda grazie ai sovietici, che provvederanno anche a distruggere il carattere multietnico e multiculturale delle grandi città. Per il resto, il paesaggio rurale ungherese e romeno descritto da Fermor sembra ancora quello del secolo prima: contadini e pastori vestiti come nei quadri di genere, strade piene di buche e carri trainati da cavalli, anche se nel fondo possiamo indovinare il gusto inglese per il pittoresco.

E passiamo al nostro Nick Hunt; nel 2011 non può più farsi ospitare da improbabili signorotti di campagna, ma ricorre a una rete internet di ospitalità temporanea o si arrangia come può. Parte d’inverno da Rotterdam per risalire il Reno e poi seguire il corso del Danubio, arrivando in primavera a Vienna e continuando per l’Ungheria, che sente come un’isola separata dall’Europa, per continuare in Romania dopo le Porte di Ferro, il punto dove il Danubio si apre a forza un varco tra le montagne e irrompe in Romania. Nel libro ci sono alcune scarne cartine, ma chi abbia un minimo di conoscenze geografiche non ha difficoltà a seguire un percorso, che grosso modo coincide con il Limes dell’Impero romano. E infatti appena lo varca si accorge di quanto l’Europa orientale sia diversa in tutto e quanto superficialmente sia stata annessa all’Unione Europea. Ma andiamo per ordine: risalendo il Reno con la bussola e il libro di Fermor in mano, Hunt ritrova ogni tanto le vecchie osterie e chiese di provincia descritte nel libro, ma il tessuto connettivo è ora scandito dalle autostrade, dai centri commerciali, dalle industrie e dalle dighe, e marciare a piedi non è previsto dall’urbanistica, a meno di non andar per boschi e paludi dove ancora esistono. Le aree golenali ancora intatte sono parchi naturali, altrimenti ci sono sbarramenti ovunque e le periferie delle grandi città si somiglian tutte. Diverso il paesaggio da Bratislava in poi: sembra la descrizione di un dopoguerra, dove gran parte di quello che ha costruito il Socialismo sembra ora aver l’aspetto di un rottame arrugginito e dove le varie etnie prima unificate dall’internazionalismo proletario oggi hanno in comune solo l’odio verso gli zingari, i musulmani e l’Europa. Hunt a Budapest segue anche un comizio di Orbàn e ne rimane scosso, pur senza capire – ovvio – una parola di ungherese. Il viaggio poi continua con ampie escursioni in Transilvania, prima di riprendere la rotta verso sud. Ma non entro nei dettagli e invito invece a leggere il libro e magari anche quello di Fermor (di cui Hunt riporta comunque ampie citazioni), ma non prima di dire qual è il vero pregio di entrambe le opere: la sorpresa dell’incontro. I luoghi possono esser descritti da una Guide Bleu Michelin, da un Baedeker o dal Touring Club, mentre le persone con cui i nostri autori entrano in contatto sono un patrimonio esclusivo del viaggiatore, ma condiviso con i lettori. Chi ospita il viaggiatore vuol sempre ascoltare una storia e ne racconta di sue fino a notte fonda. Esperienza unica: uomini e donne incontrati lungo il percorso sono un campionario anche bizzarro di dialetti, usi e costumi e stramberie di ogni genere, anche divertenti, tutte annotate dal nostro viandante curioso. Quando invece si parla di politica, salta invece fuori quell’educato disinteresse di chi nulla capisce dei problemi nazionali o locali altrui. Ampie sono le digressioni su pranzi, cene e serate in birreria, tipiche di chi viaggia a piedi e ha sempre una fame da lupi. Lunghe descrizioni di dolori fisiologici: stranamente, Hunt non si è allenato alla marcia nei mesi prima e quindi soffre di stiramenti ai tendini, dolori muscolari e quant’altro. Costretto ogni tanto al riposo assoluto, ne approfitta però per scrivere…

NOTE

  1. Traduzioni italiane: Tempo di regali : a piedi fino a Costantinopoli : da Hoek Van Holland al medio Danubio (2009) ; Fra i boschi e l’acqua : a piedi fino a Costantinopoli : dal medio Danubio alle Porte di Ferro (2013) ; La strada interrotta : dalle Porte di Ferro al Monte Athos (2015).

Camminando fra i boschi e l’acqua.
Da Hoek van Holland al Corno d’Oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermar
di Nick Hunt
Traduttore: Laura Prandino
Editore: Neri Pozza, 2020, pp. 365
Prezzo : € 19,00

EAN: 9788854519022

EPUB con DRM
9,99 €


Beni culturali: UN FARO CON TANTI FILTRI

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La ratifica finale del Parlamento italiano della Convenzione di Faro ( più esattamente: Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, STCE n. 199, 2005) ha creato violente polemiche. E’ quindi il caso di leggersela per intero e analizzarla con calma. Il testo, stilato in inglese e francese, è reperibile in rete anche in lingua italiana (1) anche se il nostro Ministero dei beni culturali ne mantiene in linea una traduzione non ufficiale, il che è già una carenza. Molte le domande inevase: perché ratifichiamo solo oggi una convenzione stilata nel 2005? E perché tra le nazioni che l’hanno ratificata mancano Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Grecia? A tutt’oggi i firmatari sono venti, consultabili in rete, ma mancano all’appello paesi di peso culturale non indifferente. Da noi la firma ma non la ratifica fu stilata nel 2013: all’epoca emersero dubbi sul puro aspetto formale della convenzione (ne abbiamo firmate decine senza mai applicarle) e sugli strumenti attuativi per renderla operativa, argomento particolarmente delicato perché la convenzione, come vedremo, delega molto potere alle comunità locali. E ci si chiede pure se fosse necessaria una convenzione nel quadro del Consiglio d’Europa per attuare quello che dovrebbe già fare l’UNESCO. A leggere comunque il testo integrale s’indovina una mediazione continua che sfuma nell’ambiguità linguistica, accanto a frasi fatte sentite quaranta volte nei documenti ufficiali su cultura e musei, più l’invito tanto attuale allo sviluppo sostenibile.

Ma passiamo al testo. Dopo un lungo preambolo e una serie di riferimenti a documenti ufficiali pregressi, si passa agli articoli. L’art.1 definisce gli obiettivi: riconoscere il diritto all’eredità culturale come inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;   riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale;   sottolineare che la conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile sono funzionali allo sviluppo umano  e alla qualità della vita; ne segue il ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale. Infine si fa appello a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti. Il termine qui usato è “eredità culturale” (Cultural Heritage) e non “patrimonio culturale” (come  nel nostro art.2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 – Codice dei beni culturali e del paesaggio). Il termine – tanto caro agli inglesi – è sostanziale: introduce un concetto dinamico nella definizione di cultura e memoria. Né sfugge l’accento dato alla sinergia tra istituzioni e attori vari.

L’art. 2 spiega meglio il concetto di eredità culturale:

  1. l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi; b.  una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

Come si vede, nel concetto di eredità culturale viene inserita la variabile temporale: la cultura è il prodotto dell’interazione tra popoli e luoghi nel corso del tempo. Sono poi le comunità a identificare quanto vale la pena di trasmettere agli altri, fermo restando il supporto dell’azione pubblica. Nota: nella stampa accademica (nota 2) il termine “comunità di eredità” è tradotto correntemente come “comunità patrimoniale”. Non è ancora disponibile il testo ufficiale approvato dal nostro Parlamento, per cui teniamo presenti le due traduzioni. Si riconosce comunque che tutti hanno un diritto inalienabile all’eredità culturale. Si accenna anche al concetto di  patrimonio  culturale  immateriale quale  processo  collettivo capace di integrare nella memoria sociale anche elementi ancestrali e non immediatamente tangibili come potrebbero essere opere d’arte figurativa.

L’art. 3 definisce l’eredità culturale dell’Europa, in termini molto “pacifisti”:

  1. tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; e, b.  gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto

L’art. 4 è il più discusso e ha provocato p0lemiche violente. Il titolo recita: Diritti e responsabilità concernenti l’eredità culturale, ma è un testo bifronte: da un lato si garantisce il diritto di trarre beneficio, dall’altro si ha l’obbligo di tutela:

  1. chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento; b.  chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa;

Il comma c poi è la pietra dello scandalo:

l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà.

Quali limitazioni? Che significa protezione dell’interesse pubblico? E quali altrui diritti e libertà potrebbero essere limitati dall’esercizio del diritto all’eredità culturale? Le reazioni violente hanno tirato in ballo il politicamente corretto, l’Islam che si offende, l’identità europea, ma il comma è ambiguo: le limitazioni possono riferirsi sia a un intervento dello Stato a scapito del diritto soggettivo di fruizione del bene culturale, sia a un controllo politico dell’esercizio del diritto all’eredità culturale. Sarebbe dunque possibile aprire un museo del fascismo?

Più ovvio l’art. 5: Leggi e politiche sull’eredità culturale. Le parti firmatarie s’impegnano a promuovere: l’interesse pubblico associato agli elementi del patrimonio culturale (a); a valorizzare il patrimonio   culturale   attraverso la   sua   identificazione,   studio,   interpretazione,   protezione, conservazione    presentazione” (b); ad  assicurare  che,  nel  contesto  specifico  di  ogni  Parte Firmataria,  esistano  le  disposizioni  legislative  per  esercitare  il  diritto  al  patrimonio  culturale, come  definito  nell’articolo  4 (c); favorire  un  clima  economico    sociale  che  sostenga  la partecipazione  alle  attività  del  patrimonio  cultuale” (d); a  promuovere  la  protezione  del patrimonio  culturale, quale elemento prioritario di quegli obiettivi(e); a riconoscere il valore del  patrimonio  culturale  sito  nei  territori  sotto  la  propria  giurisdizione,  indipendentemente  dalla sua origine”(f); formulare strategie integrate per facilitare l’esecuzione delle disposizioni della presente Convenzione”(g).  

L’art. 6, Effetti della Convenzione, concerne le misure tese a salvaguardia dei  diritti  dell’uomo  e delle  libertà fondamentali contenute nella  Dichiarazione  universale  dei  Diritti  dell’Uomo  e  nella Convenzione per la protezione dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Con questo finisce la prima parte del testo. La parte seconda (artt. 7-12) analizza le  principali  Convenzioni internazionali ed  europee che  regolano  il  patrimonio  culturale,  con  particolare  attenzione  al patrimonio  culturale  di  natura  immateriale (definito nel 2003 dall’UNESCO stessa). Tutte le fonti confermano che l’idea di una nuova convenzione tiene conto delle distruzioni causate dalla guerra civile jugoslava e cerca di superare i testi dell’UNESCO, troppo specialistici. Questo spiega frasi scontate in Italia ma non nei Balcani:

  • stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori tra loro contraddittori siano attribuiti alla stessa eredità culturale da comunità diverse; c.   sviluppare la conoscenza dell’eredità culturale come risorsa per facilitare la coesistenza pacifica, attraverso la promozione della fiducia e della comprensione reciproca, in un’ottica di risoluzione e di prevenzione dei conflitti;

Gli artt.8 e 9 sono invece attenti all’ecologia: Ambiente, eredità e qualità della vita e Uso sostenibile dell’eredità culturale. L’unico comma innovativo è il c dell’art.8: rafforzare la coesione sociale promuovendo il senso di responsabilità condivisa nei confronti dei luoghi di vita delle popolazioni. Gli altri parlano della necessità di curare manutenzione e gestione in modo corretto, usando materiali adatti e tecnici preparati: qualità degli interventi, principi per la gestione sostenibile e per incoraggiare la manutenzione. Come al solito, più raccomandazioni che vincoli.

L’art. 10 affronta un altro problema: Eredità culturale e attività economica. In sostanza, lo sfruttamento economico di un bene culturale è un valore, a patto di b.   considerare il carattere specifico e gli interessi dell’eredità culturale nel pianificare le politiche economiche; e c.  accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità dell’eredità culturale senza comprometterne i valori intrinseci. Il turismo di massa, il folklore reinventato e il falso artigianato non hanno dunque spazio.

E ora passiamo alla terza parte: Responsabilità condivisa nei confronti dell’eredità culturale e partecipazione del pubblico. Artt. 11-14. Si tratta di una serie di raccomandazioni per realizzare quanto scritto prima. Si parla (art.11) della organizzazione delle responsabilità pubbliche in materia di eredità culturale; di incoraggiare (art. 12) l’accesso  all’eredità  culturale  e alla  partecipazione democratica. La novità è l’accento (12.b) su  il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale all’eredità culturale in cui si identifica; c. il ruolo delle organizzazioni di volontariato, sia come partner nelle attività, sia come portatori di critica costruttiva nei confronti delle politiche per l’eredità culturale. L’art. 13, Eredità culturale e conoscenza inserisce giustamente l’eredità culturale all’interno di un sistema scolastico e formativo, professionale e di ricerca. Infine l’art.14 si preoccupa invece di adeguare la cultura ai nostri tempi: alla voce Eredità culturale e società dell’informazione si parla doverosamente di tecnologie digitali, di standard internazionali di catalogazione e gestione dei beni culturali, ma anche di difesa della diversità linguistiche e di lotta al traffico di opere d’arte. Sibillino il comma d: che mai significa riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale ? E’ forse un invito a non buttar via i vecchi schedari di carta e i libri rilegati passati allo scanner? O forse che una copia digitale diffusa in rete ha lo stesso valore dell’originale ai fini della divulgazione e conservazione della cultura? Testo ambiguo.

Le ultime sezioni della Convenzione sono la conclusione di quanto enunciato in precedenza. Parte 4, artt.15-17: Controllo e cooperazione; parte 5, artt.18-23: Clausole finali. Sono impegni che vanno dalla cooperazione internazionale al monitoraggio (tramite un comitato) e allo scambio di informazioni, ma non sembrano particolarmente vincolanti. Unica novità degna di nota è la possibilità di uno Stato di estendere il proprio intervento a realtà nuove ogni volta che se ne presenti l’occasione. Citiamo qui dall’art. 20.b, Applicazione territoriale:

Ogni Stato, in qualsiasi data successiva, può, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione di questa Convenzione a qualunque altro territorio specificato nella dichiarazione

In calce alla Convenzione, una serie di indicazioni in caso di ratifica.

Conclusioni e/o osservazioni.

  1. Convenzione? Il testo sembra più  un insieme di raccomandazioni, e in Europa di dichiarazioni di principio finora ne abbiamo viste proprio tante. La  stessa relazione esplicativa precisa che le convenzioni quadro definiscono obiettivi generali e identificano aree di azione, non creando alcun obbligo di un’azione specifica e perciò lasciando allo Stato membro la competenza in merito alla forma e ai mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati. Per quale motivo un documento poco vincolante è stato ratificato con tanto ritardo e neanche da tutti? Alla data attuale (settembre 2020) solo 20 stati hanno ratificato.
  2. Nell’articolo 3 si parla per la prima volta di “patrimonio comune dell’Europa” e se ne fornisce una definizione chiara e scevra da religioni e nazionalismi.
  3. Il baricentro si è spostato dagli oggetti agli uomini. C’è un forte accento sullo sviluppo di una società umana più democratica, pacifica e sostenibile. La peculiarità della Convenzione sta, infatti, nel superare la visione di un patrimonio culturale da tutelare soltanto per il suo valore intrinseco o scientifico, per promuovere la concezione di un patrimonio governato da più attori e valutabile anche attraverso l’efficacia del suo contributo allo sviluppo umano e al miglioramento della qualità della vita.
  4. Si riconosce il diritto al patrimonio culturale, ma in che senso e in quali termini di responsabilità giuridica? E come verrà esso  recepito all’interno del quadro giuridico e normativo dei singoli stati europei e del diritto internazionale?
  5. C’è un passaggio importante dalla cultura materiale alla centralità della comunità che di questa cultura si assume la responsabilità della conservazione e della trasmissione. E’ come passare dal museo a qualcosa di più avvolgente e dinamico. L’ICOM (l’istituzione internazionale che coordina i musei) ancora non è riuscita a dare una definizione univoca e aggiornata di museo, ma questa convenzione fornisce interessanti linee guida in argomento.
  6. L’articolo 2.a (vedi) è generosamente onnicomprensivo: la formulazione di patrimonio culturale è talmente estesa che nel concetto di eredità culturale è compreso tutto e il contrario di tutto. Come esercitare realmente le funzioni di tutela e valorizzazione e gestione davanti a una definizione così estesa?
  7. E’ evidente un forte accento su realtà associative non statali o istituzionali: singole comunità locali, associazioni culturali, comunità patrimoniali. Il confronto fra enti di natura diversa non sarà facile: va necessariamente rielaborata una legislazione che coordini forme istituzionali di dialogo tra pubblico e privato per la gestione dei beni culturali o eredità culturale che sia. Da un lato viene esaltata l’importanza della partecipazione attiva delle comunità locali, ma dall’altra vanno perfezionati gli strumenti normativi.
  8. Nell’art.12.b (vedi) si dice che gli Stati debbano prendere in considerazione il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale al patrimonio culturale in cui essa s’identifica, ma in che modo gestirlo? In Italia il modello è fortemente statale e centralizzato, pur essendo l’Italia una democrazia.
  9. La c.d. comunità patrimoniale è trasversale e numerose sono le organizzazioni o associazioni che, alla luce della Convenzione, possono definirsi tali. Sono gruppi flessibili, trasversali e aperti, più o meno spontanei, non necessariamente accomunati da parametri quali la cittadinanza, l’etnia, la professione, la classe sociale, la religione, ma piuttosto uniti da interessi  e  obiettivi simili.  Possono  avere  un’estensione locale,  regionale,  nazionale, sovranazionale; essere temporanei o permanenti; formati da individui che appartengono allo stesso tempo a più gruppi, senza alcuno schema predefinito. Questa impostazione può superare gli schemi classici a cui siamo abituati.

NOTE

  1. https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1492082511615_Convenzione_di_Faro.pdf
  2. http://paduaresearch.cab.unipd.it/9619/1/Miranda_Martins_Juliana_tesi.pdf
  3. Bibliografia in rete: https://farovenezia.org/materiali/testi-download/

Un Codice politicamente arcobaleno

Hollywood non cessa di stupirci: a partire dall’edizione 2024, per poter essere candidati al titolo di Miglior Film (Best Picture), le pellicole dovranno presentare nella storia e/o nel team di produzione una quota variabile di persone provenienti da categorie sottorappresentate: donne, Lgbtq, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili. Più che Miglior film, meglio chiamarlo Equilibrista: per ottemperare a tutti i criteri di giustizia sociale richiesti, i produttori, gli sceneggiatori e i registi dovranno dar prova di straordinarie capacità di adattamento all’ambiente.

Intanto ecco le regole contro le discriminazioni. Il film dovrà soddisfare almeno due di quattro standard diversi. Il primo (standard A), riguarda la «rappresentazione sullo schermo, i temi e la narrazione». Un film può venire candidato se almeno uno dei protagonisti, o uno dei comprimari di peso, appartiene a una minoranza razziale tra quelle di seguito elencate: «Asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo, nativo dell’Alaska, mediorientale/nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro». Male che vada,  «almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati», cioè «donne, minoranze razziali, Lgbtq, persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito». Perché mai i sordi sono considerati disabili a parte? Mistero. Terza possibilità, «la storia principale»: almeno quella dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati. Insomma, basta che parli di donne, di minoranze, di disabili, di omosessuali. Facile, no?

Il secondo standard, il B, considera invece la direzione artistica e la produzione e non riguarda il pubblico pagante. Criterio B1: «Almeno due delle seguenti posizioni devono essere affidate a persone provenienti da gruppi sottorappresentati: direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, designer dei costumi, regista, tecnico del montaggio, parrucchiere, truccatore, producer, designer della produzione, set decorator, tecnico del suono, supervisore agli effetti visivi, autore». E almeno una di queste deve appartenere a un gruppo razziale (sempre di quelli elencati prima) minoritario. Il B2 chiede soltanto che almeno «sei» posizioni di quelle non elencate (tranne gli assistenti alla produzione) siano affidate a gruppi sottorappresentati o di etnie minoritarie. E il B3 vuole che «almeno il 30%» della troupe del film appartenga alle ormai note categorie sottorappresentate.

Lo standard C parla di soldi e opportunità di carriera, e per ottenerlo bisogna soddisfare entrambi i criteri presentati: «L’azienda che si occupa del finanziamento o della distribuzione del film deve prevedere stage e apprendistati pagati per i gruppi sottorappresentati». Per la precisione, gli studios più importanti o le aziende di distribuzione più grandi «devono avere in essere apprendistati o stage pagati per i gruppi sottorappresentati» e «soprattutto nel settore della produzione, della produzione fiscale, della post-produzione, della musica, degli effetti visuali, delle acquisizioni, della distribuzione, del marketing e della pubblicità». Per gli indipendenti basta che ci sia almeno un minimo di due posizioni affidate a chi proviene dai gruppi sottorappresentati (ma almeno uno deve essere di una etnia minoritaria), negli stessi settori. Il secondo criterio prevede che chi si occupa della produzione o del finanziamento del film offra opportunità di lavoro o di sviluppo delle competenze fuori dal capitolo di spesa per persone dei gruppi sottorappresentati.

Infine lo standard D: prevede un criterio solo: «La rappresentazione nel marketing, nella pubblicità e nella distribuzione». In questi settori «più posizioni dirigenziali interne dovranno essere coperte da persone provenienti dai gruppi sottorappresentati ».

Questo il testo, che ho voluto riportare quasi per intero. E’ evidente che gli impegni più gravosi riguardano lo standard A, artistico ed espressivo, mentre gli altri rimodulano questioni diciamo pure sindacali. Ma è impressionante notare che, mentre il codice Hays (la vecchia censura cinematografica americana, esterna allo Stato ma efficacemente gestita dai produttori, come adesso queste nuove regole) dava un elenco di quello che non si doveva mostrare, questo nuovo codice prescrive quello che si deve rappresentare e in che modo. In questo ricorda più la nostra Controriforma cattolica. Ma c’è davvero tanta differenza con la censura sovietica imposta dal GosKino ai registi, quasi mai liberi di parlare di certi argomenti in modo che non fosse simbolico e vagamente allusivo? E non spingerà tanti artisti all’autocensura, pur di far carriera o campare?

Tanto per cominciare, inclusione e maggiore diversità da sole non significano qualità. Ce lo ricordava (con un ragionamento inverso) il protagonista di Mephisto (1981) di Istvàn Szabò, stupendamente interpretato da Klaus Maria Brandauer: l’artista si vende al Nazismo, ma è costretto ad assumere attori mediocri solo perché alti biondi con gli occhi azzurri. Era la Berlino degli anni Trenta, ma non è invertendo i poli che si cambia la corrente. Quello che è peggio, nella balcanizzazione sindacale a rimetterci è l’umanità fuori schema o figlia di matrimoni misti: penso a chi nell’ex Jugoslavia morente era costretto a scegliere l’etnia, o chi a Bolzano deve decidere per legge se il figlio è tedesco o italiano. In sostanza, per proteggere le minoranze finisci nella trappola delle “quote” ed escludi chi non vuol saperne di tessere, etichette, clan e tribù.

Secondo: i controlli. Come verifichi la razza e la sessualità di chi lavora a un film? Il documento parla di «ispezioni sul set». Stupendo: con che coraggio chiedi a un attore se è ebreo? ? E con quale diritto mi chiedi con chi vado a letto? Ancora : devo portarti il DNA per dimostrare che ho sangue polinesiano? E Barak Obama che alle Hawaii c’è nato, devo assumerlo in quota ai neri o agli hawaiani? Alla faccia della privacy e con la speranza che i miei dati non finiscano nello schedario delle Milizie di Cristo o dei gruppi paramilitari del Nebraska.

Terzo, il tipo di prodotto. In un film storico non posso rischiare l’anacronismo solo per far piacere ai nativi dell’Alaska o ai portoricani. In un film sulla Serenissima posso includere mori, turchi, schiavoni, stradiotti, greci, panduri e morlacchi, ma nel deserto di El Alamein devo attenermi alla cruda realtà storica. In una serie ispirata all’Iliade (Troy) Achille è nero, ma solo per solleticare il pubblico dello stesso colore. Io invece avrei suggerito Elena: la bellezza sottratta al popolo africano dagli Europei colonialisti. Purtroppo Brecht non è più di moda.

Quarto: i film stranieri, dovranno rispondere agli stessi criteri? Ci sto: noi italiani ci risparmieremo le spese per proporre film che tanto nessuno si fila. Nessun film italiano è stato mai prodotto seguendo quelle regole: ne uscirebbe una sgangherata commedia sociale piuttosto che un dramma. E’ vero che gli sceneggiati televisivi son sempre più attenti a includere gay, immigrati buoni e famiglie ricostruite, incluso il fidanzatino “bangla” per la figlia adolescente, ma chi paga il biglietto in sala in genere è più esigente.

Infine: come se ne esce? Come il cinema ha sempre fatto: aiutando la minoranze a studiare e ottenere quella maturità culturale che poi permetterà loro di esprimersi da protagonisti. Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Martin Scorzese hanno riscattato dal basso l’immagine degli italo-americani, ma non perché protetti da quote etniche: talento a parte,  si sono affermati grazie al loro lento, sistematico impegno nel mestiere. Pensavo stamattina ad Assandira, il film del regista sardo Salvatore Mereu presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nessuna quota era riservata ai film sardi, eppure Mereu ce l’ha fatta. Mentre provo a immaginare un film fatto con i nuovi criteri: è ambientato in Alto Adige, deve tener conto non solo della minoranza (?) di lingua tedesca, ma anche delle subminoranze incastrate nelle valli: ladini, mocheni, cimbri. E se il protagonista italiano offende il comprimario sudtirolese, a metà film rotolerà giù per un burrone.