Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Mediterraneo: Egemonia dell’Egeo

In questo momento la Turchia di Erdogan è in piena politica di espansione geopolitica nel Mediterraneo e l’Italia sta a guardare, rimproverando all’attuale ministro degli Esteri l’abbronzatura piuttosto che la sua inconsistenza. Eppure c’è stato un periodo in cui l’Italia non solo ha combattuto una prima volta  l’Impero Ottomano con la guerra di Libia e l’occupazione del Dodecaneso (1911-12), ma nel 1919 ne ha addirittura occupato una parte in Asia minore, ritirandosene solo nel 1922. Una proiezione di potenza impensabile oggi, dovuta a circostanze eccezionali, ma tutto sommato una pagina di storia italiana poco nota, che vale invece la pena di riesumare per la sua attualità. La storia ci riporta alla fine della Grande Guerra, con la disgregazione di tre imperi: germanico, austro-ungarico e ottomano. Quest’ultimo, pur difendendosi bene sui Dardanelli, alla fine della guerra perse le sue componenti arabe e africane, più l’Armenia cristiana ed era quasi sul punto di veder nascere alle frontiere uno stato curdo. In sostanza gli equilibri post-bellici seguivano il patto segreto Sykes-Picot (dal nome dei due negoziatori, uno inglese e francese l’altro), che assegnava il mandato sulla Siria alla Francia e la Palestina più la Mesopotamia agli Inglesi, tradendo di fatto il nazionalismo panarabo pur appoggiato dagli inglesi stessi (ricordate Lawrence d’Arabia?). Segreto e discutibile, era un patto che comunque avrebbe regolato per un secolo l’equilibrio del Medio Oriente, assente in questo caso il presidente americano Wilson, che ben altri guai avrebbe causato con le sue confuse idee in materia di nazione e autodeterminazione dei popoli. Le pretese italiane nell’Adriatico e in Asia minore risalivano comunque al Patto di Londra (1915); davano per scontata lo smembramento degli imperi centrali, ma non potevano prevedere l’intervento del presidente Wilson, l’ostilità franco-inglese verso un Mediterraneo “italiano”, e soprattutto nessuno metteva in conto il peso dei futuri nazionalismi: slavo, albanese e turco. La politica estera italiana alla fine riuscì solo a ottenere il Brennero, giustificato da reali motivi strategici (ancora nel 1943 i tedeschi occuparono l’Italia passando da quel valico), mentre poco o nulla ottenne in Adriatico. Il controllo sul Dodecaneso garantiva invece una buona base per la costa turca, e infatti da lì partì il corpo di spedizione che occupò la zona di Adalia, dove era registrato un interessante bacino carbonifero. Anche se prevista dal Patto di Londra del 1915, l’iniziativa italiana apparve come un colpo di mano per compensare la “vittoria mutilata” in Dalmazia; irritò Francesi e Inglesi e soprattutto il governo greco, estraneo a quel patto e che aspirava ad occupare parte dell’Anatolia. In assenza della delegazione italiana capeggiata dal presidente del consiglio Orlando, alla conferenza di pace di Parigi, la Grecia riuscì ad ottenere dal Consiglio Supremo il permesso di intervenire sulla costa egea dell’Anatolia. Il 15 maggio 1919, pertanto, l’esercito greco operò uno sbarco a Smirne. L’attrito con l’Italia fu risolto con un accordo segreto (ancora un altro!) sottoscritto il 29 luglio 1919 dal nostro Tittoni e dal greco  Venizelos, in cui l’Italia rinunciava a Adalia e alle isole del Dodecaneso salvo Rodi, in cambio dell’appoggio greco a un mandato italiano sull’Albania. Tale accordo, peraltro, fu denunciato dal successivo Ministro degli esteri italiano Carlo Sforza (giugno 1920), né gli Albanesi (mai chiamati in causa) lo volevano. La Conferenza di Pace di Parigi per queste zone si risolse nel Trattato di Sèvres (10 agosto 1920), che riconosceva all’Italia una zona di penetrazione economica su Adalia e dintorni, oltre al possesso del Dodecaneso, e l’occupazione greca di Smirne e i suoi dintorni. Era un altro trattato di carta: i nazionalisti turchi guidati da Kemal Atatürk dichiararono defunto l’Impero Ottomano, nulle le sue firme e passarono alla riscossa, costringendo entro il 1922 i Greci a ritirarsi da Smirne. Il governo italiano dal canto suo utilizzò la base di Adalia per armare e addestrare le truppe di Atatürk contro i Greci, intuendo da che parte stava la vittoria e sperando in futuri vantaggi non ben definiti. Il contingente italiano fu ritirato entro il 1922 e il Trattato di Losanna (1923) sottoscritto con la nuova Repubblica Turca confermava all’Italia il possesso del Dodecaneso e riconosceva per la prima volta la sovranità italiana sulla Libia, ma non le accordava nessuna zona di influenza economica né di occupazione militare in Anatolia. Come si vede, le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano fatto i conti senza l’oste, in una proiezione di potenza imperialista che sottostimava l’ascesa dei nazionalismi che il dopoguerra stesso aveva esasperato dalla disgregazione degli Imperi centrali. La stessa Italia irredentista alla fine si comportava esattamente come i suoi alleati imperialisti, senza che all’epoca nessuno notasse la contraddizione. Forse anche per questo, di questa italica avventura nella memoria resta poco o niente. Gli unici che la ricordano con orgoglio sono i Carabinieri: inviati sia ad Adalia che a Costantinopoli in collaborazione con la gendarmeria turca, esercitarono in modo imparziale le loro funzioni e contribuirono a evitare scontri etnici e vendette private. Responsabile dei Reali Carabinieri in organico alla spedizione italiana era un nobile fiorentino, il colonnello Balduino Caprini. Un nome da ricordare.

Caimano 69

In Italia gli alpini si mandano in Russia e in Mozambico, quindi niente di strano se gli incursori della Marina invece che nel proprio elemento si ritrovino a combattere i Talebani in Afghanistan. Eredi della X Mas della Regia Marina (ma non della repubblichina X Mas di Giunio Valerio Borghese) i Comsubin (Comando subacquei incursori) nulla hanno da invidiare agli US Navy Seals se non il numero e le risorse assegnate. Abbiamo comunque unificato sotto un unico comando (Confoter) i nostri corpi speciali (Arditi del 9° rgt “Col Moschin”, Rangers del 184° rgt Alpini paracadutisti, etc.), in modo da gestirne meglio risorse e addestramento. Alla fine sono sempre loro, “i soliti noti”, a fare la guerra. Sì, perché di guerra si tratta, al di là della retorica delle operazioni di pace, e qui a raccontarla è un incursore in servizio, previa autorizzazione dei superiori. Mario Chima – nome d’arte – è nato nel 1969, quindi è oggi verosimilmente un istruttore, ma è stato sul terreno in Irak, in Libano e Afghanistan almeno fino a dieci anni fa. Ora il nostro impegno è ridotto e prima o poi i nostri torneranno a casa, ma per anni eravamo molti esposti. L’autore non riporta sempre i nomi dei luoghi, ma non è difficile capire che l’impegno più duro era nella zona di Bala Mourghab, a nord di Herat e nella provincia di Farah. Nel libro si descrive la durezza dei combattimenti, il rischio continuo di morire in agguato o per un ordigno esplosivo, la scadente qualità dei soldati afghani rispetto alla capillare organizzazione tribale della guerriglia afghana (qui chiamati “Insurgents”: sono cattivi e basta). Ma abbiamo anche uno spaccato sull’addestramento dei nostri incursori, integrato dalla tecnologia ma pur sempre basato sugli uomini. Alcune operazioni descritte nel libro sembrano ricalcate dalle “librette”, i manuali usati nelle scuole militari, tale è la precisione con cui vengono descritte le procedure operative. In realtà non sempre va tutto bene, ma alla fine professionismo, armi, coraggio e reparti di appoggio evitano il peggio: oggi è più facile comunicare con la squadra o con il comando tattico, mentre prima era anche difficile sapere dove stavano i propri soldati. Ma il libro, anche se utile a chi voglia farsi una cultura sugli incursori, ha un pregio tutto suo: a differenza di Azione immediata dell’incursore inglese Andy McNab, non è solo tecnico ma anche umano. Chiunque sia, Mario Chima è un italiano che spesso pensa alla moglie e alla figlia e guarda il cielo stellato, ricordandoci che non è una macchina e che i soldati sono sognatori.

Detto questo, da parte mia consiglio solo di rivedere l’impianto tipografico in caso di ristampa: le citazioni sono riportate con un carattere in corpo troppo piccolo e le note in calce sono addirittura illeggibili perché microscopiche. Sarebbero gradite anche qualche mappa e un glossario delle tante sigle usate nel testo e decodificate in nota.


CAIMANO 69: sabbia e polvere
Mario Chima
Editore: Indipendente, 2020, pp. 579

Prezzo: € 19,76

ISBN: 979-8645118242


La memoria divisa

Nuovo documento 08-12-2020 07.20.24

E’ recente la notizia del rifiuto della sindaca Virginia Raggi di autorizzare un romano Museo del Fascismo, iniziativa partita proprio da alcuni consiglieri del Movimento 5 Stelle ma subito bloccata dall’ANPI, la ben radicata associazione dei partigiani: Roma è una città antifascista, medaglia d’oro della Resistenza e l’unico museo possibile può essere quello dei crimini nazifascisti. Cioè un museo partigiano. Solidale la sindaca: “Roma è una città antifascista, nessun fraintendimento in merito”. Nelle pie intenzioni dei promotori (Maria Gemma Guerrini, Massimo Simonelli e Andrea Coia, mozione 264/2020) si parla di “un grande museo” da realizzarsi in un sito di archeologia industriale che “funga da polo attrattore per scolaresche, curiosi, appassionati ma anche turisti da tutto il mondo”, prendendo a modello “operazioni culturali di analisi critica del periodo del nazismo” (quali? Ndr.). Finalità culturale del museo sarebbe “la necessità di contrastare il negazionismo e l’ignoranza”. Il testo della mozione citerebbe inoltre i rigurgiti neofascisti che “anche recentemente hanno offeso Roma e i suoi cittadini”. Peccato che nella mozione non ci fosse alcuna condanna dei crimini perpetrati dal regime, né si prendeva in considerazione il rischio che l’iniziativa potesse finire per glorificare il regime anziché condannarne la politica. Come evitare che diventasse un pellegrinaggio di nostalgici? Cassandolo. E qui riemerge ancora una volta una questione aperta: l’Italia non ha mai fatto realmente i conti col suo passato e la storia moderna, oltre che non essere insegnata a scuola per la discutibile rigidità dei programmi, è in Italia ancora motivo di divisione.

Avendo lavorato per anni in un museo, mi permetto alcune osservazioni. Intanto Roma è piena di musei (sia pubblici che privati) bellissimi ma sconosciuti perché poco pubblicizzati, poco finanziati e poco valorizzati. In questo la dott.ssa Alberta Campitelli, già funzionaria della Sovraintendenza capitolina e ora referente italiana dell’ICOM (l’organizzazione internazionale dei musei) è stata chiara: prima di aprire altri musei valorizziamo quelli esistenti dando loro risorse adeguate. E aggiungo: concentriamone alcuni, soprattutto quando trattano argomenti simili. Non abbiamo un Museo centrale delle forze armate perché ogni arma e ogni reggimento vuole il suo, senza naturalmente trovar mai le risorse adeguate per gestirlo e tenerlo aperto in modo razionale. In questo senso l’iniziativa abortita conferma l’abitudine italiana di ragionare per categorie sindacali e minoranze organizzate: partigiani, ebrei, pensionati, istriani, gay, alpini, parà, rom, insegnanti precari. Ognuna di queste identità sociali alla fine vuole il suo giorno della memoria, il suo museo e i suoi contributi statali. Quanto a Roma, una soluzione non la propongo io ma rinfresco piuttosto la memoria ai miei distratti concittadini: del Fascismo storico si può parlare benissimo all’interno del Museo di Roma che, a suo tempo progettato e presentato ufficialmente sulla carta, è poi finito nel Nulla senza che nessuno ci abbia scritto un rigo o versato una lacrima. Allocato nell’ex Pantanella (poi Palazzo dei musei di Roma) a via dei Cerchi, dopo averne espulso gli uffici amministrativi presenti al suo interno (si è visto!), doveva essere strutturato in tre enormi piani: la Roma antica (recuperando quanto è conservato nel Museo della Civiltà Romana all’EUR), la Roma del Rinascimento e del Barocco, la Roma moderna. Progetto razionale, perché saldava la zona archeologica del Grande Campidoglio al Circo Massimo e poteva costituire un polo di attrazione culturale e turistico di eccellenza. Il progetto era curato dall’assessore Claudio Minelli e dal sovraintendente Eugenio La Rocca nel 2005-06, e fu ripreso in seguito dal suo successore Umberto Broccoli, nominato dalla giunta Alemanno. Cito la rassegna stampa dell’epoca:

https://abitarearoma.it/il-palazzo-di-via-dei-cerchi-trasformato-in-polo-museale/
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/02/10/via-dei-cerchi-impiegati-addio.html

A leggerla c’è da piangere: “Sono ventitremila metri quadri in totale di cui seimila disponibili in una prima fase. Rivoluzione non da poco ma non si tratta di chiacchiere né di «progetti di fantasia» bensì di lavori in corso: così, allineando tappe e date di un processo «in via di attuazione», il Campidoglio, nella persona dell’ assessore Claudio Minelli che si occupa del Patrimonio, replica all’ articolo a firma di Adriano La Regina apparso ieri su Repubblica: «Sono più di vent’ anni che se ne parla e non è mai stato fatto un solo passo avanti ma se così fosse sarebbe una bella notizia». Certo oggi non si può ancora pagare il biglietto ed entrare nel Museo di via dei Cerchi, ma domani è dietro l’ angolo” < … > «Sul tavolo ci sono ormai tutti i tasselli. I tempi saranno rapidi perché le difficoltà maggiori si incontrano proprio quando si tratta di liberare i locali, inoltre abbiamo anche fondi disponibili per la realizzazione del museo e ci stiamo occupando dell’ acquisizione dei materiali».

La documentazione completa è tuttora accessibile nel sito ufficiale di Roma Capitale:

http://www.sovraintendenzaroma.it/content/museo-della-città-1

Ma è verosimile che nessuno se la sia letta negli ultimi dieci anni, tantomeno gli incauti consiglieri che hanno proposto un nuovo museo. Ma è impressionante prendere atto che a Roma troppi progetti, trionfalmente presentati e anche validi, alla fine si confondono col Nulla.

Fu-Turismo

Nei mesi di ordinaria follia si è visto di tutto, inutile tornarci sopra; ora si torna alla normalità, anche se non è finita: ogni tanto si accende qualche nuovo focolaio, vuoi per la movida repressa, vuoi per le metastasi d’importazione. La gente non ti guarda più come il nemico da evitare e le mascherine sono ormai disegnate anche dagli stilisti. Ma facciamoci un giro: fa impressione vedere un centro senza turisti, soprattutto se cammini a fontana di Trevi, al Colosseo o verso il Vaticano. Traffico e mondezza in compenso sono tornati ovunque come prima, se non peggio. In autobus tre posti a sedere su quattro sono interdetti, ma chi sta in piedi è serrato accanto al vicino, almeno in certe fasce orarie. Mascherine obbligatorie, ma basta farsi un giro dove si riuniscono i giovani per capire la scarsa disciplina: per incoscienza, sfida o stress differito non vogliono capire che la storia non è finita. Vecchi contro giovani, la storia aggiornata ai tempi. Capisco però la voglia arretrata di socialità: per tre mesi abbiamo usato al parossismo tutti i mezzi offerti dalla tecnologia per comunicare, ma il contatto fisico con le persone è un’altra cosa. Mi accorgo che in questi mesi è stata distrutta la mia vita sociale, fatta non solo di serate con gli amici o gite fuori porta, ma anche – nel caso mio – di cerimonie civili e militari, di parate, cene sociali, attività sportive all’aperto. Chi poi ha descritto compiaciuto una Roma vuota, icona eterna, esaltandone l’estetica e trasfigurandola in una dimensione metafisica, di sicuro non ha mai gestito un negozio o un albergo. Fa effetto vedere la zona di Borgo con decine di negozi di souvenir religiosi e solo poche centinaia di turisti. Stesso discorso verso Fontana di Trevi: se vi avessimo mantenuto la bottega storica gestita in famiglia per più di mezzo secolo, avremmo dovuto chiuderla comunque: quella zona del centro sembra ora spopolata e di fatto lo è. Sia chiaro che non provo nessuna pietà per le decine di negozietti e servizi per turisti low-cost; lo stesso per le decine di B&B che hanno trasformato il centro (e non solo) in un luna park per turisti poveri e ignoranti. Quando ho chiesto ironicamente a un gestore quanti ne faceva dormire, candidamente mi ha risposto: “quanti ce ne entrano”. Coi letti a castello, s’intende. La nostra bottega storica si è alla fine ritrovata priva del tessuto connettivo originario, in mezzo a negozi di dubbio gusto e dubbia proprietà, uno uguale all’altro. La casa di famiglia a Campo di Fiori (venduta) diventerà prima o poi un altro B&B, anche se il crollo del turismo ha rimandato i lavori e per strada non si sente da mesi il rumore continuo dei trolley sui sampietrini. E devo dire che ieri sera, andando a cena con un gruppo di amici dopo la presentazione di un libro, vedendo solo clienti italiani e pochi ma qualificati stranieri pur stando a piazza Navona, ho rivisto la Roma di quarant’anni fa, romana e turistica sì, ma non affollata e low-cost come fino a pochi mesi fa. Sono pieni i ristoranti cari ai romani, ma le mense rapide con pizze surgelate vivacchiano, e devo anche dire che i tanti, troppi tassisti fermi al parcheggio almeno per una volta mi hanno fatto pena. Non so se la classe politica imparerà molto da questa esperienza, ma la lezione è semplice: non si deve mai puntare su un solo tipo di investimento sperando che le risorse crescano illimitate nel tempo. I cicli economici sono sempre più brevi e il Covid-19 – inaspettato, questo sia chiaro – finora ha fatto più danni di una guerra. Su Roma in tempi normali gravitavano 300.000 turisti al giorno, e solo le guide più o meno patentate sono 5.000, per non parlare del personale di servizio di alberghi e ristoranti. Una serie di leggi assurdamente avallate dalla sinistra nel frattempo aveva permesso di aprire qualsiasi negozio in qualsiasi zona, con l’unico risultato di un’omologazione mirata ai servizi per il turismo di massa, e la trasformazione del centro storico in zona di locande a basso costo,  per la metà abusive. Ci voleva la pandemia per capire che al centro non abitavano realmente più di 50.000 persone? La notte si sentiva il rumore dell’acqua dalle fontanelle.

Detto questo, che fare? Il turismo statunitense e sudamericano lo vedremo forse l’anno prossimo, gli aerei della RyanAir stanno ancora a terra e ad agosto qui a Roma non possiamo aspettarci più di poche migliaia di turisti europei. Per fortuna in questi ultimi due mesi c’è stata una ripresa del turismo italiano: le offerte non mancano e si tende a non andare troppo lontano, con un rilancio della costa e dei piccoli centri. Pochi andranno all’estero, almeno rispetto alle abitudini pregresse, quindi in tanti scopriremo l’Italia. L’unica cosa: bisogna assolutamente rimodulare tariffe e orari di musei e monumenti. Il Vaticano l’ha capito subito e ha adeguato l’accoglienza modificando ed estendendo il servizio. I musei statali o comunali forse non hanno capito che chiudere troppo presto o non aprire la sera e mantenere prezzi troppo alti può andar bene agli stranieri in pullman, ma non per la famiglia italiana risparmiosa. Per anni abbiamo visto carovane di turisti in giro per via dei Fori alle tre del pomeriggio di luglio e agosto, ma certi comportamenti sono impensabili per chi può scegliere. Purtroppo i processi decisionali dell’ente pubblico sono sempre lenti, mentre servirebbe più tempismo. Un museo si rilancia non solo con la promozione, ma anche adeguando orari e costo del biglietto alla nuova situazione, spostando il personale dai turni inutili e recuperando risorse per la sera, quando magari la gente esce senza l’assillo del caldo. E all’Auditorium ora intitolato a Ennio Morricone i concerti saranno eseguiti nella cavea, sorta di teatro romano pensato da Renzo Piano accanto alle strutture chiuse. Mai pensare a un solo modello di sviluppo!

La realtà del falso

“Una cosa sola è vera: che è tutto falso” (da La storia vera, di Luciano di Samosata)

Falsi e falsari nella Storia, a cura di Paolo Preto. Sono più di 600 pagine – vere – sui falsi. Nulla si salva: documenti, opere d’arte, diplomi, opere politiche, monete, letteratura, merci, immagini… non si capisce se è più geniale il falsario o più ingenuo il cliente di turno, che può essere anche un colto direttore di museo, un nobile in cerca di certificazione, un ricco collezionista, un critico letterario. Totò si vende la Fontana di Trevi, ma i musei americani di arte antica sono stati ben più incauti del turista nel film. E questo per gareggiare con i musei della vecchia Europa, ricchi di reperti ma povere di fondi. E qui la prima legge del falso: si produce quello che il mercato richiede, giocando sull’avidità del cliente e la riservatezza dei contatti. Negli anni del Nazismo furono trovate tante, troppe antiche iscrizioni in caratteri runici, ma era proprio quello che i gerarchi volevano per giustificare l’antichità della pura razza ariana (un falso anche quello, ma politico). E qui è difficile credere a quanti documenti rivendichino l’antichità di una casata, di un popolo, di un culto: fabbricati in scala industriale da monasteri, eruditi e notai, furono scremati dal Rinascimento in poi, quando si perfezionarono l’analisi linguistica e lo studio delle scritture e dei sigilli. Molte statue romane sono copie di copie, ma lo erano anche in epoca antica. Più raffinati, i Romantici s’inventarono falsi poemi antichi (ossianici o meno), ritrovato falsi manoscritti da loro tradotti, al punto che ormai quello del manoscritto antico è diventato un cosciente gioco di società fra scrittore e lettore. Presi sul serio invece i Libri di Mormon, che l’angelo Moroni dettò a un predicatore americano per poi riprenderseli a copia finita. Presi sul serio anche I protocolli dei Sette Savi di Sion, un falso antiebraico ancora oggi ristampato e validato persino da un politico italiano. E’ infatti in politica che i danni del falso si rivelano più pericolosi: falsa propaganda, falsi processi, false biografie, revisione storiografica. Orwell quando immaginava il “Ministero della Verità” nel suo noto romanzo 1984 sicuramente pensava ai regimi totalitari del suo tempo, ma non poteva prevedere l’internet e il suo attuale sviluppo.

Ma parliamo dei falsi meno letali. Un falso De Chirico è un “bidone”, ma in fondo non manda nessuno in Siberia. Van Megeren – falsario olandese – fu accusato di collaborazionismo per aver venduto quadri fiamminghi ai nazisti, ma divenne quasi un eroe quando per salvare la pelle dimostrò di averli dipinti lui. Troppo lungo sarebbe spiegare le varie tecniche di contraffazione e invecchiamento dei materiali, come un capitolo a parte sono i moderni mezzi di analisi (microscopio a scansione, spettroscopia, termoluminescenza). Sicuramente un falsario di pittura contemporanea compra tele e colori negli stessi negozi dei suoi nobili modelli, e infatti non c’è artista contemporaneo che non sia stato falsificato, qualche volta consenziente l’originale, vuoi per beffa o altro. “Un falso Picasso saprei farlo meglio io”, diceva… Picasso.

Questo l’aneddoto. La realtà è più complessa, ma così semplificabile: esiste la triade, composta dal falsario, dal mercante d’arte o antiquario, e infine c’è il critico d’arte come garante. Quest’ultimo può essere anche un uomo molto stimato nel suo ambiente (p.es. Berenson), ma per ottenere un quadro a prezzo scontato diventa il complice del mercante d’arte. Il falsario vero è proprio è invece un bravo artista o artigiano (come il leggendario Dossena), dotato di una sensibilità particolare quanto della piena padronanza dello strumento. A tradire il falsario è in genere la necessità di un modello o più modelli mixati insieme. Il falso diventa reato quando l’opera prodotta “di maniera” viene spacciata per originale o attribuita a un artista diverso o più famoso. La molla è la solita: il denaro. Quanto al mercato, segue le mode del momento. I quadri senesi e “primitivi” furono p.es. l’ossessione di fine ‘800 e inizio ‘900, ed è impressionante la bravura degli artigiani italiani che li confezionavano.

Un paio di righe infine sui falsi letterari. Si potrebbe fare un’antologia di scrittori mai esistiti, con tanto di bibliografia. Spesso era un mezzo per evitare la censura (spesso sono falsi anche i luoghi di stampa) o per scrivere collettivamente opere di consumo, ma non mancano diari di viaggio scritti da avventurieri di ogni genere, scherzi tra accademie e false prime edizioni per collezionisti. Qualche volta il falsario lascia l’indizio, la sua firma: per orgoglio. Ma anche per scherzo: che pensereste di un libro moderno che garantisce nel colophon “stampato a Magonza presso Gutemberg?”


Falsi e falsari nella storia. Dal mondo antico a oggi
Paolo Preto
Curatore: Walter Panciera, Andrea Savio
Editore: Viella, 2020, pp. 624
Prezo: € 32,00

EAN: 9788833132891