Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Bratislava, mitteleuropa senza frontiere

A Bratislava ci siamo arrivati con calma, risalendo la Mitteleuropa da Trieste, via Lubiana, Graz e Vienna e usando solo treni e pullman. Solo al ritorno io e mia moglie ci siamo concessi un volo RyanAir per Roma. A Graz volevo assolutamente vedere l’arsenale storico cittadino, mentre Bratislava non la conoscevo. C’ero in realtà passato davanti nel 1980 con una gita in battello da Vienna, ma all’epoca non potevamo scendere senza il visto e per metà percorso una motovedetta cecoslovacca ci scortava a vista. Ricordo però la sagoma del castello, oggi perfettamente restaurato ma vuoto. Sì, vuoto, a parte cinque quadri (sic) e un paio di mostre. Purtroppo la Slovacchia non ha sempre avuto una corte o una monarchia autonome e per secoli è stata solo un satellite dei vicini. La stessa Bratislava ha più nomi: Pressburg per gli Austriaci, Poszòny per gli Ungheresi. E qui il vantaggio dell’Europa di oggi: puoi andare dove ti pare senza che nessuno ti chieda i documenti; che hai sconfinato te lo dice solo un sms di Vodafone. Nelle varie gite, mi sono accorto solo dalla mappa di quanto fosse vicina la frontiera ora ungherese, ora austriaca, ora cèca e morava, frontiere che seguono le sponde del Danubio, oppure sono il retaggio di due guerre mondiali. Della Slovacchia ho visto solo la capitale, ma ci ha sorpreso lo sviluppo industriale e commerciale della città, con un centro storico perfettamente restaurato, grandi centri commerciali, quartieri nuovi e grattacieli sede delle multinazionali. I trasporti pubblici sono efficienti e i mezzi sono tutti nuovi, mentre dei tassisti è meglio non fidarsi troppo. La Slovacchia uno sviluppo industriale lo aveva già avuto grazie ai Sovietici: socialista è metà dell’architettura pianificata dei nuovi quartieri. Ma negli ultimi anni gli investimenti stranieri (soprattutto tedeschi, ma non solo) e un regime fiscale favorevole ne hanno fatto una sorta di Austria Felix. Da un’amica abbiamo anche saputo che per le professioni c’è molto lavoro disponibile anche per gli stranieri, e in fondo lì si vive bene, tutto pulito e organizzato. Peccato che la lingua slovacca non sia poi così facile, vista anche la sua scarsità di vocali. Ma mentre in quella settimana di vacanza io cercavo di imparare qualche parola di slovacco e di pronunciarla in modo decente, mia moglie si ostinava a parlare una specie di inglese con gente che parlava una specie di inglese, col risultato di non pochi malintesi, visto che non sempre il personale di servizio e le commesse sono gentili. Residuo del socialismo oppure lavoratori inurbati dalla campagna? Forse tutt’e due.

Il nostro albergo è delizioso: un vecchio battello da crociera ancorato sul Danubio, con comode cabine e sala da pranzo in stile Titanic. Il nostro sonno è cullato dalle onde del fiume, ma più spesso dallo spostamento d’acqua causato da navi da crociera lunghe quanto l’astronave di Guerre stellari e da chiattoni con la capacità di venti Tir. La sponda destra è tutta verde a parco pubblico, quella dove siamo ancorati dà sulla collina del castello, e sul lungofiume devi solo star molto attento ai ciclisti, molto bravi a pedalare a luci spente. La città in fondo è tutta piatta, quindi le due ruote sono non solo popolari, ma attirano il cicloturismo internazionale. Da Vienna a Budapest è tutta una pista ciclabile e Bratislava sta in mezzo. Io invece sognavo di scendere il Danubio in canoa, e so che ogni tanto i circoli sportivi internazionali organizzano queste imprese collettive. Siamo comunque andati a Vienna in battello e sempre in battello il sabato e la domenica di può raggiungere un’isola dove è allestita Danubiana, una mostra permanente di arte contemporanea che da sola merita un articolo a parte.

Prima dicevo che la città vecchia – Stare mesto – è stata perfettamente restaurata. Come fosse prima s’indovina da alcuni edifici cadenti che attendono l’immobiliare di turno. Oggi è la Disneyland perfetta: nessun abitante, tutto pulito e colorato, solo B&B, alberghi e case vacanze, nessun negozio che non sia funzionale al turismo, ristoranti e birrerie di ogni tipo, più saloni massaggi Thai e locali di strip-tease aperti h24. In compenso c’è molto ordine (mai visto un abusivo), molti negozi sono di qualità – tutte firme internazionali – e l’area è realmente pedonalizzata, senza italiche deroghe alla legge. Tutta la città vecchia è contenuta in due km quadrati, è piena di chiese barocche e conserva ancora parte delle mura. Tutto sommato è una piacevole passeggiata, a patto di non fare troppo caso alle masse di turisti scesi dai pulmann o dai battelli fluviali, e avendo cura di mangiare da un’altra parte: i prezzi sono come Roma se non più alti.

Oggi abbiamo mangiato lungo il Danubio, al ristorante dello scalo passeggeri, un edificio che sia dentro che fuori è un capolavoro di architettura socialista: razionale, elegante come si concepiva negli anni Sessanta. Fuori cemento armato, dentro tutto legno e ferro. Ci fanno accomodare in terrazza: le sale interne sono prenotate da due gruppi provenienti da Vienna o Budapest. Tavoli con salviette gialle, italiani; salviette celesti, forse tedeschi. Dico forse perché qui nazioni e dialetti s’incrociano quasi sfumando, e il tedesco che parlano non è quello che s’insegna a scuola. Gli italiani del primo gruppo si rivelano torinesi e con loro scambiamo racconti e informazioni. Gli altri giorni avevamo conosciuto una studentessa romana che lavora in un campo archeologico del FAI e una matura coppia di viaggiatori “lenti”, tutto il contrario dei tour che caricano e scaricano in continuazione turisti di ogni tipo. Purtroppo invece non abbiamo potuto incontrare la nipote di un mio amico che qui studia slovacco e certo troverà qui un buon lavoro. Il suo programma è per ora molto intensivo.

Ieri sera abbiamo mangiato a bordo della nostra nave-albergo, due giorni fa in un piccolo ristorante fuori le mura, per scoprire oggi che la sera lì vendono solo da bere. Già, qui molti ristoranti chiudono la cucina dopo il pranzo, la sera la gente beve birra. La bevono sia gli slovacchi, sia gli stranieri che affollano i tavoli all’aperto dei locali. La cucina locale è tutto sommato semplice: zuppe, molta carne (manzo, maiale, anatra, pollo), ottimi contorni. Ma non mancano ovviamente ristoranti di ogni nazione, e noi italiani siamo ben messi. Anche il caffè espresso è diffuso come tale, e preferivamo prenderlo da un ambulante che aveva attrezzato a caffetteria italiana un furgone Ape.

La messa nella cattedrale di San Martino merita due righe a parte. La chiesa è gotica con qualche aggiunta barocca nell’interno, che non copre complesse scene lignee di scuola tedesca. San Martino è rappresentato in divisa da ussaro in una grande statua nella navata destra e un grande organo accompagnava la messa della domenica. Quando c’è funzione i turisti non possono entrare e la liturgia qui è presa molto seriamente sia dal clero che dai fedeli. La Slovacchia è l’unico paese europeo che non accetta migranti musulmani, e durante la guerra la Slovacchia era un protettorato tedesco governato da un ecclesiastico, monsignor Tiso, figura ambigua ma significativa del sentimento popolare. Passato il socialismo, l’anima slovacca si è ritrovata cattolica, anche se qui in città il rapido sviluppo sicuramente porterà cambiamenti profondi. Qui i giovani sono tanti, c’è lavoro e il pil quest’anno è al 4%. Ed è anche una bella gioventù: sportiva se non atletica (anche qui il socialismo aveva lavorato bene); le donne sono molto belle ed eleganti e ovunque c’è gente che pedala o fa jogging.

L’ultimo giorno, dopo una passeggiata nel parco del lungo Danubio, saliamo a vedere il panorama dall’UFO. E’ un cugino più svettante e moderno del Fungo all’EUR, che si erge sopra il ponte nuovo, meraviglia ingegneristica tutto cemento armato e stralli, senza neanche un pilone. Da 100 metri di altezza vediamo tutta la città e il Danubio da una parte, e i quartieri nuovi o addirittura in costruzione dall’altra. E’ un finale di viaggio quasi obbligato, ma dall’alto ti rendi realmente conto della natura della città.

BADAR, carabiniere musulmano

L’immagine del giuramento del carabiniere Badar Eddine Mennani, nato a Caserta da genitori marocchini e abbracciato dalla madre col capo velato, ha provocato sui social una serie di reazioni scomposte e islamofobe. Alcuni media hanno insistito ancora una volta sulla tesi della sostituzione etnica, o hanno insinuato l’esistenza di un complotto per infiltrarsi nelle nostre istituzioni armate e proclamare con un golpe la Repubblica Italiana Islamica. Ovviamente son di tutt’altro tenore i comunicati redatti dall’ufficio stampa della Benemerita, da sempre molto attenta alla propria immagine pubblica e al corretto rapporto con i cittadini. Sono state pubblicate le foto della madre con l’hijab che abbraccia il figlio e diffuse le dichiarazioni di Badar, che finalmente ha coronato il suo sogno. Ma si leggono anche frasi come “nell’Arma per combattere il terrorismo” , il che è una forzatura: più logico pensare che Badar saprà trattare coi suoi connazionali e correligionari in modo più naturale, attenuando la diffidenza e i pregiudizi reciproci. D’altro canto è dai tempi dell’Impero Romano che in Italia l’Esercito è anche uno strumento di integrazione e di ascesa sociale, molto più duraturo ed efficace di uno jus soli concesso per decreto. Quanto poi ai Carabinieri, nei loro ranghi hanno arruolato musulmani per quasi mezzo secolo: sto parlando degli Zaptiè, i carabinieri reclutati fra le popolazioni indigene di Libia, Eritrea e Somalia, i quali svolgevano le funzioni istituzionali di quelli italiani in zone dove era difficile per ovvie ragioni mantenere l’ordine costituito e interagire con la popolazione locale. Potevano arrivare al grado di sottufficiale e sono stati i fedeli guardiani della legge, rispettati sia da noi che dai loro connazionali. E nel dopoguerra, all’interno dell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (1950-1960) i Carabinieri hanno addestrato i loro colleghi somali creando un’apposita Compagnia Carabinieri Somali, reclutandoli inizialmente proprio tra i fedeli e valorosi zaptiè.

Infine, un’osservazione: la destra italiana è diventata islamofoba sicuramente per via dell’immigrazione, che in trent’anni ha portato da cifre irrisorie a due milioni il numero dei musulmani residenti in Italia (convertiti a parte) e ha alterato equilibri di secoli. Ma ancora qualche decennio fa la destra eversiva italiana era filoislamica: è nota la contiguità di Franco Freda con l’editore Claudio Mutti (vicino a Ordine Nero, ndr.), dal 1978 titolare della casa editrice All’insegna del Veltro, dove si trovano molti libri sull’Islam. Niente di strano: per i Nazisti l’Induismo era la religione dei filosofi, il Cristianesimo la religione degli schiavi e l’Islam la religione dei guerrieri. Durante la 2a G.M. guerra fu inquadrata persino una divisione SS reclutata esclusivamente tra i musulmani bosniaci. Da parte italiana a suo tempo abbiamo favorito l’islam in Africa Orientale per indebolire il peso del clero copto abissino. In più, abbiamo regolarmente pagato lo stipendio agli imam arruolati come cappellani militari delle nostre truppe coloniali di religione musulmana, soprattutto libiche e somale. Ma in Italia abbiamo sempre la memoria corta.

Salvini e il Pensiero slegato


Chi scrive è sinceramente inorridito dallo stile di Salvini: anti-intellettuale, assertivo invece che dialettico, duro ma privo dell’elaborazione culturale del fascismo storico. Eppure il suo stile funziona, quindi va studiato, non fosse altro per combatterlo. Finora l’opposizione non lo ha fatto, anzi è scesa al suo livello: aggredisce invece di analizzare e in più confonde i modi con i contenuti, dimostrando scarse capacità di analisi. Certo che rispetto a non molti anni fa il linguaggio politico si è impoverito, all’analisi si è sostituita l’emozione. Il problema è che tutto questo funziona, almeno per ora, cioè fino al giorno in cui la gente chiederà ragione dello scarto fra le parole e i fatti. Se parli di blocco navale le navi della Marina devi farle uscire dal porto, altrimenti chiunque s’i infila e ti fa fesso. Ma prima di parlare devi anche verificare se questo te lo permette la legge, a maggior ragione se sei ministro dell’Interno. Ebbene, l’analisi del lessico di Salvini è ora contenuta in un libello di Stampa Alternativa, nella collana “Strade bianche”, erede dei Millelire e come tale breve – 30 pagine – ma corposo. Autrice è Francesca Vian, che ha smontato i messaggi di Salvini dal giugno 2018 a oggi, un anno in cui è successo tutto e il contrario di tutto, o niente. Intanto si stabilisce la differenza tra il Salvini che posta brevissime frasi sui social – aiutato da un’équipe guidata dal filosofo informatico Luca Morisi – e il Salvini in diretta, aggressivo e logorroico, che parla con tutti, accetta i selfie brandendo il cell come la spada del guerriero di Legnano, risponde a braccio e parla anche per ore senza leggere neanche un foglietto di appunti. Antitesi del politico che non esce dall’ufficio, in questo modo ha il polso del suo elettorato, né sarebbe una cattiva idea per l’opposizione tornare a camminare per strada e parlare con la gente invece che con altri politici. Ma torniamo al libretto. E’ diviso per paragrafi: lessico quotidiano, brevitas, notizie de-formate, auctoritas, negazione, ritmo, ripetizione… per ogni lemma ci sono esempi documentati. Ne esce un continuo disprezzo del nemico – deve sempre esserci un nemico – offeso e reificato in ogni modo. Il linguaggio è quello della guerra, sempre. Le ripetizioni e le assonanze sono continue, ossessive, le battute razziste derubricate a goliardata. Quello che è più grave, non si citano mai fonti documentate o nomi e cognomi dei responsabili: genericamente sono i ministri di Berlino, quelli di Bruxelles, la grande informazione, le banche, i signori dello Spread. Sulle ONG si va invece sul pesante attraverso accostamenti emotivamente suggestivi, ma che sono in realtà uno scarto tra la realtà e il resto, tipo: gli immigrati sulle navi delle ONG fanno lo sciopero della fame? I bambini poveri italiani lo fanno tutti i giorni, nel silenzio dei buonisti, dei giornalisti e compagni vari. E’ evidente che non si possono accostare realtà che appartengono a classi logiche diverse, eppure questo è il meccanismo. Naturalmente il nemico è sempre goffo, radical-chic, mezzo gay oppure criminale, magistratura compresa. Sicuramente è una reazione a certa sinistra preoccupata delle piste ciclabili ma incapace di varare un piano per il commercio. Per lui sono solo chiacchieroni da salotto buono, capaci di dire solo che non si tocca l’alberello e non dovete disturbare l’uccellino. Diciamolo: Salvini odia chi ha studiato e il suo elettorato ha trovato in lui il portavoce. Ma davvero l’Italia era tanto arretrata, impaurita e ignorante da andar dietro al pifferaio di turno?

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Dighenìs Akritas – l’epopea bizantina

Nel mio precedente articolo avevo citato tra i poemi epici cavallereschi “islamicamente scorretti” anche il Dighenìs Akritas (in greco: Διγενής Ακρίτας) , ben sapendo che da noi il testo è ignoto. Proprio per questo ne voglio parlare, sperando di stimolarne la lettura. Si tratta di un testo bizantino anonimo del XII secolo, scritto in greco medioevale, a metà tra narrazione popolare ed epica classica, con forti connotazioni romanzesche e alcuni tratti originali rispetto all’epica cavalleresca occidentale. Le vicende si svolgono nel X secolo o appena dopo nelle zone di frontiera tra Anatolia e Siria – più o meno dove si combatte anche adesso – presidiate all’epoca dagli akritai, a capo di soldati-contadini cui veniva assegnata la terra in cambio dell’obbligo di difenderle dai saraceni. Questi distretti militari di frontiera– i c.d. themi – erano un’eredità del Limes romano e nei Balcani il sistema perdurò sia sotto i Veneziani che con gli Austriaci – le c.d. krajne, o distretti militari di confine presidiati dai “Grenzer”, i presidiari, legati alla terra quanto alla difesa contro gli i Turchi ottomani. Il generale Boroevic’, detto il Leone dell’Isonzo e nostro nemico nella prima G.M., era per l’appunto un Grenzer, il che significava – come ai tempi di Bisanzio – un uomo duro, coraggioso e lontano dalle manovre di corte. All’epoca dell’Impero Romano d’Oriente gli akritai dovevano tenere la lunga frontiera aspettando l’arrivo dell’esercito regolare, oppure impegnando il nemico con scorrerie di ogni tipo. Il confine era vago e costituiva una estesa palestra per incursori, essendo guerriglia e scorrerie all’ordine del giorno. Ma alle guerre si alternavano anche lunghi periodi di pace e conflitti di bassa intensità, come ai tempi del Limes romano, di cui Bisanzio era erede.  Frequenti erano gli scambi culturali e matrimoniali tra guarnigioni e popolazione locale, anche se l’Islam era incompatibile con la Croce. Ma all’epoca i bizantini non erano ancora sulla difensiva, anzi riconquistarono ampie zone della Siria e dell’attuale Libano. E gli akritai erano i difensori e ri-colonizzatori delle terre tolte alla Jihad, anche se – come vedremo – erano molto indipendenti dal potere centrale e lontani anni luce dallo spirito della ricca e intricata Bisanzio. Il poema fu composto e diffuso negli ambienti che lo avevano creato, per poi diventare di moda a corte e anche da noi: Boccaccio conosce il testo, lo chiama l’Arcita e nella Teseida ne sfrutta alcuni spunti romanzeschi. Ma entriamo nella trama del poema.

Intanto il nome. Dighenìs significa dalla doppia stirpe, e infatti l’eroe è figlio di un emiro arabo che invade la Cappadocia e rapisce la figlia di un generale bizantino. L’emiro accetta poi di convertirsi al cristianesimo insieme alla sua gente e di stabilirsi nella Romània (le terre dell’Impero Romano d’Oriente), prendendo in moglie la figlia del generale. Si ha così la riconciliazione tra i due popoli, e dal matrimonio nasce il nostro eroe. Nella seconda parte del poema se ne narrano le gesta. Uomo di frontiera per nascita e funzione, si rivela subito un capo coraggioso e intraprendente quanto alieno se non ribelle al Basileus, che gli ha delegato la difesa della frontiera. Lui non ama essere fedele al suo Imperatore, anzi è totalmente avulso dalle gerarchie e così amante della propria libertà che si dissocia da ogni legame con Bisanzio e continua la sua vita seguendo un individualismo sfrenato; in questo senso non sarebbe fuori posto in un film di Clint Eastwood. Dighenìs non ha un codice etico come i cavalieri Franchi e alcune sue gesta sono al limite, come la sua identità: rapisce la sua futura sposa, figlia di un generale, ma dopo aver vinto tutti i suoi fratelli ne chiede la mano al padre. Sarà un’unione felice, anche se un paio di volte tradirà sua moglie, fra un’incursione e l’altra. In una vince ma s’innamora della seminuda amazzone Maximò e la ama. In un’altra riconsegna a un guerriero saraceno la fidanzata sedotta e abbandonata e lo obbliga a sposarla, ma non prima di averla violentata: la frontiera non è luogo per gentiluomini. Ma le sue grandi doti guerresche e le sue gesta non rimangono sorde all’orecchio del Basileus. L’Imperatore tenta di conoscere questo grande guerriero, l’akrita che combatte al confine dell’Impero, ma Dighenìs non accetta mai di incontrarlo, anzi, lo sfida a duello, ovviamente declinato. Ma il nostro eroe affronta anche imprese, retaggio della mitologia classica: vince un drago che si era trasformato in un bellissimo giovane e aveva tentato di violentare la moglie. Poi è il turno di un leone che l’akrita vince, come Heracles, uccidendolo con un colpo di clava. In intimità con la moglie, viene sorpreso da un gruppo di predoni, da sempre presenti ai valichi. Digenis li sconfigge tutti poi sfida i loro migliori guerrieri a duello, vincendo ancora una volta. Come si vede, l’epica si lega alla tradizione romanzesca alessandrina, il che suggerisce un pubblico “generalista”, amante delle gesta guerriere ma anche di quelle erotiche, cui ben si presta un eroe “borderline” in tutti i sensi. Curioso il finale, almeno dopo tanta azione: dopo aver vinto tutti i suoi nemici, Dighenis costruisce un lussuoso castello sulle rive dell’Eufrate, dove trascorre pacificamente i suoi ultimi giorni insieme alla moglie, e la sua morte sarà celebrata in tutto l’Impero. Impero che è durato mille anni, ma è ancora vittima di un doppio pregiudizio: quello cattolico e quello dello storicismo germanico, unicamente proteso a magnificare il Sacro Romano Impero.

La traduzione migliore e più recente del poema, con testo a fronte e ampio commento, è del 1995 e si deve ai tipi dell’editore Giunti, a cura di Luigi Odorico.

2 giugno di polemiche

La festa della Repubblica dovrebbe essere un momento di unione di tutte le componenti civili di una società, e invece quest’anno si è visto di tutto: reparti ridotti all’osso, frasi insolite per un presidente della Camera, provocatorie assenze di generali in pensione e di politici, parole come “inclusione” lasciate nell’ambiguità iniziale. Insomma, non ci siamo fatti mancare niente. Visto che io la parata del 2 giugno la seguo o vi partecipo da sempre in prima persona, mi sia permessa qualche osservazione personale.

La prima: la festa della Repubblica ha smesso da almeno dieci anni di essere celebrata con una parata esclusivamente militare. Quest’anno si sono visti 300 sindaci sfilare con la fascia tricolore, ma già il presidente Napolitano aveva gradualmente escluso dalla sfilata i mezzi meccanici e inserito come novità la partecipazione dei gonfaloni delle Regioni e delle organizzazioni di Protezione civile. I mezzi erano comunque ormai pochi, almeno per chi come me si ricorda le sfilate degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando i reparti sfilavano per battaglioni (falangi di 600 uomini; quest’anno gli scaglioni ne contavano 54!) e le vibrazioni di decine di carri armati facevano tremare pure il Colosseo. E pur militarista quale sono, sono anche il primo a dire che la festa della Repubblica deve mostrare pubblicamente tutte le componenti della società civile e non solo i militari in divisa e i corpi armati dello Stato. I volontari del Servizio civile universale sfilavano anche due anni fa, quindi inutile sbeffeggiarli. Resta casomai da chiarire cosa significa “società civile” e cosa volesse dire realmente il Ministro quando ha lanciato la parola d’ordine “inclusione” senza spiegarne il senso completo. Sulla società civile abbiamo una terminologia tradizionalmente chiara: sono cives quelli che godono dei diritti civili e hanno il diritto e dovere di esercitarli. In tempi neanche antichi i diritti civili riguardavano – come i servizi – solo una parte della società, ora sono stati gradualmente estesi verso l’esterno. Il limite in questo momento sono gli ultimi arrivati, i migranti e i nomadi, e si è visto quali danni produce l’accoglienza senza integrazione o, come oggi è più frequente dire, l’inclusione. Per quanto ne ho capito parlandone in giro, può darsi che ieri si volesse estendere la partecipazione alla sfilata (inutile ormai chiamarla parata) anche ad associazioni civili assistenziali o umanitarie, trovando però la discreta ma ferma opposizione dei vertici militari, i quali fanno meno rumore dei politici ma sanno bene come muoversi.

E qui passiamo al secondo argomento: l’ostilità dei vertici militari. Il Ministro Trenta non piace agli ufficiali di Stato Maggiore, i quali non hanno digerito i tagli alla Difesa, il Sindacato militare, l’inchiesta sui danni da uranio impoverito e i tagli alle pensioni dei generali con incarichi speciali. Sicuramente il Ministro si trova stretto fra Salvini che vorrebbe la sua testa e il proprio partito, che pur essendo pacifista e antimilitarista ottiene la Difesa e ovviamente impone le sue idee in materia. Sia chiaro: il “Dual Use” non lo ha inventato la Trenta: armi a parte, le Forze armate possono collaborare con la società civile e in fondo l’hanno sempre fatto. Piuttosto – cito dalla stampa di vario colore – è ingiusto chiamare la Trieste “la nuova nave dei Crociati”, come è ridicolo definirla “una nave di pace” o meravigliarsi sentendo dire: “ma imbarcherà anche aerei e armi”. Il compito della Trieste è il controllo del Mediterraneo, l’unica zona che ci dovrebbe interessare, ma non è una nave ospedale o un traghetto per migranti, anche se ha stive capaci e ben due sale operatorie, come la Cavour. Anche la nave San Giusto era stata finanziata con i fondi della Protezione civile, avendo spiccate capacità di trasporto e scarico rapido. Né è colpa della Trenta se i soldati professionisti sono ormai più che quarantenni: come nella società civile, le assunzioni sono state bloccate per anni e non c’è stato ricambio. E quando i soldi mancano, le caserme non hanno manutenzione, mancano i pezzi di ricambio per i mezzi e l’addestramento viene ridotto.

Infine, un’ultima osservazione. I generali che hanno disertato la festa provengono tutti dall’Aereonautica, la forza armata che più ha bisogno di investimenti (vedi l’F-35) ed è più legata alla ricerca dell’industria aerospaziale e delle telecomunicazioni. I tagli alla Difesa hanno penalizzato soprattutto questo settore, dove le industrie premono da sempre sulle commissioni del Ministero. E’ un settore di punta della nostra industria e in effetti non andrebbe trascurato, viste anche le ricadute nel mercato commerciale e nell’export. A questo punto, la protesta dei generali in pensione ha un senso preciso. E se quelli in servizio non parlano è perché non sono abituati a farlo in modo esplicito, né gli è permesso alzare la voce senza rischiare la carriera. E purtroppo la storia italiana insegna che non di rado i vertici militari hanno seguito le indicazioni dei politici, ma senza crederci veramente. E mai come in questo momento la spaccatura è evidente.