Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Navigatores

Qui a Roma, per trovare una segnaletica razionale bisogna andare all’Ikea. Almeno questa è l’opinione di chi guida. Ormai se non mi perdo più o non imbocco l’uscita sbagliata della tangenziale, del raccordo anulare, della galleria Giovanni XXIII o del sottopasso di piazza Fiume, è solo perché alla fine ti fai le ossa con le stesse strade. Non importa che i cartelli stradali siano messi nei punti sbagliati o non ci siano dove servono, né è considerato criminale mettere in galleria cartelli leggibili solo a due metri dal bivio, sempre che tu riesca a scalare le marce: alla fine conta solo l’esperienza. Ma torniamo all’Ikea. Prima ne ho lodato la segnaletica, ma parlavo di quella interna, realmente da manuale. All’esterno è diverso: i parcheggi del centro commerciale di Porta di Roma sono degni di Doom, quel videogioco pieno di passaggi.

Uscire dai parcheggi per tornare verso il centro significa poi quasi sempre ritrovarsi a Settebagni. E soprattutto, bisogna ricordarsi di dove abbiamo parcheggiato la macchina. Per farla breve, ho comprato da Ikea della merce voluminosa (scatole di cartone per imballaggio, codice Jaettene (jatevenne? Sui codici Ikea c’è da scriverci un libro, anzi l’hanno già fatto: si chiama La casa di cartone, di Alberto Moliterni) e mi sono ritrovato a duecento metri dalla macchina, da solo, senza possibilità di portare il carrello fuori della zona di scarico merce. Che fare? Come nella Roma antica, subito appare il “cliens” nella figura di un giovane immigrato.

Mi chiede dove ho la macchina. K12 rosso. La sua mente ormai ha la mappatura completa della zona e va sicuro della sua strada. Mi aiuta anche a caricare e ovviamente si merita una mancia. Come ti chiami? “Esperanza”. Bene, la prossima volta ti cerco io.

 

 

 

Cold War

“Ho fatto un film in bianconero perché quegli anni erano in bianconero”. Lo disse la regista ungherese Marta Meszàros a proposito di Diario per i miei figli (1982), ma lo potrebbe dire Pawel Pawlikowski, autore di Cold War (Zimna Vojna) ora proiettato nelle sale italiane. Siamo nella Polonia del 1949 e tutto è da ricostruire. Una squadra vaga per le campagne piatte e innevate per recuperare i canti popolari, ma non sono etnologi: il nuovo regime polacco ha deciso di rivalutare la cultura contadina e di metter su una compagnia di ballo e canto popolare che diventi il biglietto da visita della nuova cultura socialista: Mazowsze. Chi scrive ricorda ancora una tournée italiana dell’ensemble e conserva il disco originale: al teatro Olimpico rimanemmo estasiati davanti a quei costumi e a quelle danze, complice la bellezza delle ragazze. E qui nel film proprio una di loro – Zula – inizia a farsi notare fin dalle selezioni, rubando la scena alle altre e seducendo Wiktor, musicista e direttore della compagnia. Zula non è una contadina e ha ucciso suo padre, ma ha una forte personalità, bella voce e occhi magnetici, per cui farà parte integrante della compagnia, la quale deve comunque venire a compromessi col regime: alla cultura tradizionale si deve affiancare la retorica scenografica del socialismo staliniano. Seguiamo così Mazowsze nelle tournée in patria e all’estero. Una volta a Berlino, Wiktor decide di espatriare all’Ovest – ancora non c’è il Muro – ma Zula non se la sente. Rivediamo Wiktor a Parigi, dove lavora come musicista nei locali di jazz; si distingue pure il suo arrangiamento di un canto polacco. Con Zula ci si sente per telefono (è l’epoca dei gettoni) e una tournée a Spalato in Jugoslavia darà l’occasione a Wiktor di rivederla sul palco, ma solo per essere arrestato dalla polizia di Tito ed espulso. Sempre meglio che esser consegnato ai sovietici come traditore. Sarà in seguito Zula a raggiungerlo a Parigi: ha sposato un italiano e può viaggiare legalmente (altra specialità della Guerra Fredda: i matrimoni di comodo). E qui il film diventa mélo: sguardi e silenzi suggeriscono più delle poche parole scambiate. Entrambi gli amanti si sentono a disagio nella loro parte di artisti espatriati e la vita di coppia ne risente. Devono adattarsi alle regole del mercato e sentono di non essere più se stessi, soprattutto Zula, più irrequieta del duttile Wiktor, al punto che il primo disco invece di essere un trionfo viene interpretato come un tradimento. Zula decide di tornare in patria, dove sposerà il suo impresario. Nel frattempo siamo all’inizio degli anni ’60 e la cultura socialista si modernizza sconfinando nel kitsch. Wiktor cerca di tornare in patria ma finisce ai lavori forzati, da cui Zula e il marito lo tireranno fuori dopo qualche anno. Inutile: Wiktor e Zula si amano ma non riescono né a stare insieme né a vivere separati. Da qui il finale drammatico, in una chiesa di campagna diruta, una scenografia che si direbbe ispirata da Andrej Tarkovskij. Magistrale la direzione della fotografia, dovuta a Lukasz Zal.
Dalla cultura cattolica i polacchi hanno sviluppato un forte interesse per i temi etici, penso al Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Qui il tema di fondo è la sincerità, problema di fondo comunque frequente in tutta la cultura dell’Est socialista: penso a Lo scherzo di Milan Kundera, ma anche a Mephisto di István Szabó. Sincerità verso gli altri ma soprattutto verso se stessi. Wiktor e Zula cadono in depressione quando capiscono che invece di vivere stanno recitando la parte che la società vuole da loro, e questo disagio lo sentono anche e soprattutto quando sono lontani dai legami con la loro terra e la loro cultura, in un mondo diviso in due blocchi, all’epoca quasi impermeabili. Né è la prima riflessione polacca su quel periodo storico: ricordo un film dove una banda di giovani jazzisti prima di ogni concerto doveva continuamente discutere coi funzionari del partito per stabilire se il jazz era la musica degli imperialisti americani o degli schiavi neri sfruttati. Il titolo non lo ricordo, ma del resto la colonna sonora musicale dominata dal jazz diventerà una consuetudine nel cinema polacco degli anni Sessanta e Settanta.

LA FRASE FAMOSA
“Sei stato con le puttane?” “No, non me le posso permettere. Sono stato con la donna della mia vita”.

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Cold War
Titolo originale: Zimna wojna
Regia di Pawel Pawlikowski
con Joanna Kulig, Tomasz Kot , Borys Szyc, Agata Kulesza, Adam Ferency, Adam Woronowicz, Cédric Kahn, Jeanne Balibar, Anna Zagórska.
Genere: drammatico, sentimentale
Polonia, 2018
durata 85 minuti
distribuito da Lucky Red.

Cold War | Official UK Trailer | Curzon

 

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Enigma Balcani

Recentemente il Kosovo ha deciso di dotarsi di un vero esercito e questo non contribuisce certo alla stabilità dei Balcani. Una ragione in più per leggere il secondo libro del generale Biagio Di Grazia, continuazione ideale di Kosava (1) . Ora, i libri scritti dai generali in congedo sono di due tipi: quelli scritti per scaricare sugli altri le proprie responsabilità dopo una deludente campagna militare e quelli dove finalmente si possono esprimere liberamente le proprie idee. La prima serie in genere comprende corposi volumi di memorie da leggere con cautela, mentre la seconda propone opere più raccolte, ma dense di avvenimenti e riflessioni. Il nostro generale può vantare una reale esperienza sul campo (2) e il suo libro, pubblicato prima in serbo e ora in italiano, rimanda a un periodo ormai rimosso, anche se sono passati neanche vent’anni da quando gli aerei della Nato bombardarono la Serbia per due mesi. Strana guerra, al punto che un giornale francese propose di edificare un monumento ai Zero Caduti alleati, mentre dall’altra parte morirono migliaia di persone sotto le bombe, più le successive vittime dell’inquinamento ambientale. L’Italia mise a disposizione ben 19 aeroporti e partecipò anche alle operazioni di bombardamento. E siccome la nostra ambasciata rimase sempre aperta, il nostro generale (all’epoca addetto militare a Belgrado) visse l’insolita esperienza di essere di fatto bombardato dai nostri Tornado, ufficialmente ricognitori fotografici.
Ma passiamo al libro. E’ diviso in sei capitoli (Il Nuovo Ordine Mondiale; Il cammino di crisi nei Balcani; Serbia e Kosovo; Le operazioni della Nato; Giochi di guerra; Sfida all’Occidente, più le Conclusioni) strutturati secondo una logica precisa: prima l’impostazione teorica, poi la precisa narrazione degli avvenimenti, completa di mappe e allegati. Se un testo è già stato utilizzato in pubblicazioni precedenti, è marcato in corsivo. La tesi principale è che, pur accettando la versione storica ufficiale e certificata dal Tribunale dell’Aja , ovvero un intervento umanitario per frenare i massacri delle minoranze, in un conflitto entrano sempre componenti strategiche, economiche e politiche di rado espresse in chiaro, né apertamente presentabili all’opinione pubblica. In altri tempi i nazionalisti identificavano il nemico e la propaganda faceva il resto, mentre ai militari era affidata la condotta delle operazioni. Oggi non è facile giustificare una guerra, spesso le motivazioni sono deboli; cosa significa p.es. intervento umanitario? E se poi le bombe cadono proprio sui civili che si vorrebbe difendere, cosa dire alla gente? Tenendo poi presente la povertà dei Balcani, le motivazioni economiche sembrano deboli a chi consuma energia senza chiedersi da dove viene e quali paesi attraversano oleodotti e gasdotti (3). E a questo punto il nostro generale ci aiuta a superare la narrazione corrente. Come in Kosava, i documenti ufficiali sono intercalati da testimonianze personali che rendono non solo chiaro il quadro generale, ma forniscono dettagli inediti e fondamentali: in sostanza, tutte le parti in causa sono state a turno vittime e carnefici, pronte a comportarsi come chi le aveva vessate il mese prima e altrettanto sprezzanti dei controlli esterni messi in atto dalla comunità internazionale, controlli peraltro inefficaci per motivi strutturali: negoziare senza un deterrente è arduo, e la Commissione Europea ECMM , di cui Di Grazia ha fatto parte, non aveva il potere per imporsi sulle parti. D’altro canto, Milosevic dopo la ritirata da Sarajevo (1996) non realizzò la debolezza della Serbia, riprovandoci in Kosovo e scatenando nel 1999 la reazione americana, con la NATO usata di nuovo in funzione offensiva e i paesi europei (Grecia esclusa) schierati dalla parte dei “buoni” (4). La Serbia subì in due mesi circa 600 missioni aeree al giorno, che ne distrussero l’infrastruttura militare, industriale ed economica; furono usate anche munizioni a uranio impoverito, che si sarebbero dimostrate letali anche per i soldati della missione KFOR NATO e alla fine naturalmente la guerra fu vinta (10 giugno 1999). Sicuramente Milosevic’ sopravvalutava le proprie forze e sperava in una guerriglia sul terreno, ma una minaccia esterna e le sanzioni in genere ricompattano la nazione invece di indebolirla. In più i Serbi stessi, come i Croati, sarebbero stati più tardi capaci di cambiare governo da soli, attraverso regolari elezioni democratiche, mandando in pensione le classi dirigenti nazionaliste che avevano spinto alla guerra civile. Ora, che la Jugoslavia sarebbe entrata in crisi una volta morto Tito(1980) lo sapevano tutti; solo che questa disgregazione fu data per inevitabile. L’Europa poteva aiutare la Federazione Jugoslava a entrare gradualmente nel contesto europeo, e invece Germania, Austria e Vaticano nel 1991 riconobbero subito la Slovenia e la Croazia. L’Italia invece non si mosse, nonostante il momento fosse favorevole per rinegoziare il Trattato di Osimo (1975), che tutto dava in cambio di niente. La Serbia si stupì del fatto che smontassimo in pochi mesi il dispositivo militare ai confini della Venezia Giulia, e ne approfittò per rifornire di uomini e armi le milizie che avrebbero combattuto una feroce guerra civile all’interno della Federazione, mentre l’ONU e la UE si dimostrarono incapaci di gestire il conflitto e proteggere le minoranze di turno dalla “pulizia etnica” (4)
Nel 1995 gli Stati Uniti entrano di peso nel conflitto mettendo in campo la NATO, ponendo fine dopo tre anni all’assedio di Sarajevo e convincendo le parti a negoziare l’accordo di Dayton (fine 1995). Come dice il nostro generale, divenuto nel frattempo responsabile della Commissione Militare Mista (JMC, Joint Military Commission) per Sarajevo (p.66, par.2.4), “il disegno cartografico del nuovo Stato era ben strano, ma risultò l’unico in grado di funzionare, almeno nell’immediato dopoguerra” . Questo non escludeva purtroppo né l’esodo delle minoranze dalle zone contese, né avrebbe stabilizzato la regione. La resa dei conti tra Serbi e Kosovari, fortemente sproporzionata a favore dei primi, inizia nel 1996 (il nostro generale nel 1997 è ora Osservatore OSCE) e nel 1999 provoca l’intervento diretto americano, preceduto da un ultimatum, che stranamente nessuno ha mai confrontato con quello analogo imposto alla Serbia nel 1914 dall’Impero austro-ungarico. Anche allora si imponevano alla sovranità nazionale limitazioni tali da risultare inaccettabili, dando pochissimo tempo per negoziare. E anche in quel caso prevalse l’orgoglio nazionale.
Le tappe della crisi sono nel libro descritte con precisione, sulla base di documenti ufficiali e di esperienze personali. Interessante la sua testimonianza da Belgrado, dove la nostra ambasciata rimaneva aperta e il nostro manteneva la delicata funzione di addetto militare. Difficile capire perché il nostro governo si mantenesse sul filo del rasoio, ma di fatto la nostra sede diplomatica poté mantenere discreti rapporti con tutte le parti, e saranno i documenti d’archivio a svelarci un giorno molti retroscena. L’autore onestamente si attiene a quello che ha visto, e ha visto molto: i bombardamenti, la dura vita della gente, la fine di Milosevic. Può anche muoversi con una certa libertà ed è testimone, p.es., del bombardamento dell’ambasciata cinese, avvenuto non certo per caso. Manda dispacci riservati, com’è prassi diplomatica, ma molte impressioni personali le terrà per sé, almeno finché sarà in servizio attivo. Ed ora può finalmente dire la sua: le basi giuridiche dell’intervento NATO erano deboli e l’uso della forza si è rivelato da subito sproporzionato. E dopo vent’anni cosa resta? Se l’Europa si è mossa in ordine sparso e secondo interessi nazionali, ma discutibile resta il ruolo degli Stati Uniti. E’ difficile stabilizzare i Balcani senza la Serbia, ma per piegarne la resistenza la strategia americana ha favorito la creazione a tavolino di piccoli stati nazionali privi di solide basi produttive: il Kosovo, ma anche la Macedonia e il Montenegro – roba da anni ’20 del secolo scorso – e in più ha incoraggiato la penetrazione islamista in piena Europa, la stessa che invece combatte altrove. Sono effetti collaterali sottovalutati, e c’è voluto Fausto Biloslavo per scoprire che la jihad si è così incistata in Bosnia e in Kosovo, nei piccoli centri lontani dalle città, fornendo in seguito foreign fighters a volontà. E in ogni caso il Kosovo resta un parente povero a carico della comunità internazionale, che mantiene truppe di interposizione (noi per primi) e finanzia il deficit di un paese povero, corrotto e sovrappopolato. Tenendo poi conto che gli irregolari dell’UCK sono poi confluiti automaticamente nelle forze di sicurezza interne, ora che saranno loro ad alimentare l’esercito regolare il futuro è gravido di nere nubi. Ma nel frattempo è cambiato lo scenario: il Nuovo Ordine Mondiale, predicato dal presidente George H.W. Bush padre, ormai è superato dalla ripresa della Russia e dall’ascesa della Cina. Era un concetto nato nell’800, misto di darwinismo ed etica religiosa, divenuto realizzabile solo alla fine della Guerra Fredda: una volta esclusa l’Unione Sovietica dalla competizione, gli Stati Uniti restavano l’unica superpotenza capace di regolare il mondo. Si trattava di mettere in sicurezza le fonti energetiche prodotte dai paesi del Golfo, di portare sotto l’egemonia americana sia gli stati satelliti dell’ex Unione Sovietica (perlomeno quelli europei) e di eliminare i c.d. paesi non allineati, ovvero la Jugoslavia di Tito. Saddam Hussein fu ridotto a più miti consigli, mentre la Polonia, le Repubbliche baltiche e la Repubblica Ceca addirittura entrarono nella NATO, l’ultima cosa che i Russi volevano e che tra l’altro neanche era nei patti. La NATO stessa è diventata una sorta di Kampfgruppe diviso per blocchi regionali e utilizzato per azioni offensive. Nel frattempo la Russia di Putin si è ripresa, l’Isis è ancora un problema e la Cina si avvia al confronto strategico con gli Stati Uniti. In più è evidente la discontinuità tra la gestione Trump e i decenni precedenti, marcati dopo il 1945 da un convinto atlantismo e dall’appoggio alla Germania. E’ un quadro geopolitico totalmente nuovo e Di Grazia lo fa giustamente notare, aggiornando l’analisi ai tempi attuali.

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Perché la NATO ha bombardato la Serbia nel 1999?
Generale Biagio di Grazia
Ilmiolibro.it (autoprodotto), 2018, pp. 170
Prezzo: 15 euro

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NOTE
1) Kosava. Vento di odio etnico nella ex Jugoslavia da Tito a Milosevic, 2016, recensito proprio in questa rivista (vedi)
2) A Zagabria, Capo Ufficio Operazioni della Missione Europea ECMM; a Sarajevo, Vice Comandante del Contingente Italiano nella Missione Nato IFOR; a Belgrado, Addetto alla Difesa dell’Ambasciata Italiana; a Mostar, Vice Comandante della Divisione Francese nella Missione Nato SFOR.
3) I corridoi paneuropei 5,8 e 10 passano per le zone dell’ex-Jugoslavia; in dettaglio, il 10 si interseca con l’8 a Skopje. L’8 prosegue per Tirana e quindi a Bari. Il corridoio 5 passa per Sarajevo, Ploce e congiunge il porto di Ancona.
4) Per pulizia etnica s’intende la pratica politica di trasformare una minoranza relativa in maggioranza assoluta tramite l’espulsione violenta dei diversi.
5) La Grecia giustificò la sua neutralità adducendo sacrosante affinità con la chiesa serba ortodossa e non nascondendo la sua ostilità all’Islam kosovaro.

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Kosava: il vento dei Balcani

I NOSTRI SOLDATI NEI BALCANI

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Paura di vincere (o di aver vinto)

05 MP AdN Paura di vincere 1A cento anni dalla fine della Grande Guerra, il manifesto ufficiale del Ministero della Difesa che celebrava il 4 novembre mostrava un esercito italiano in versione “Caritas”. Ora, se vuole mantenere la propria identità, un’istituzione non deve mai derogare alla propria funzione esclusiva: per la religione è la trascendenza, per l’esercito il combattimento; tutto il resto è solo un valore aggiunto che non può tuttavia sostituire la funzione primigenia. Ma quello che è più curioso, quel manifesto non conteneva alcun accenno all’avvenimento che doveva commemorare. Celebrare un anniversario senza chiarirne il motivo è assolutamente illogico e può essere spiegato unicamente dalla pervasiva rimozione politica della nostra identità nazionale, di cui la vittoria del 1918 è un simbolo identitario. Vittoria all’epoca “mutilata”, oggi rimossa. Eppure da quella vittoria uscì un’Europa diversa, senza più gli Imperi centrali, anche se la pace fu realmente raggiunta solo nel 1945. Le istituzioni politiche italiane non furono all’altezza della situazione né al momento del trattato di pace né dopo, quando nel giro di quattro anni furono assorbite dal Fascismo. Avevano però completato sia pur a caro prezzo l’unificazione della nazione e forgiato nello sforzo collettivo una nuova società italiana. E anche se non priva di difetti, l’azione militare italiana nella prima G.M. fu sicuramente meno confusa che nella seconda, dove erano invece sbagliate le motivazioni, le scelte strategiche, la condotta delle operazioni e la logistica. Ma la classe militare italiana accettò lo stesso di combattere, col risultato di una disfatta totale. E proprio questo peccato originale peserà per anni sulle nostre forze armate, peraltro ricostruite invece che riformate, come furono invece quelle tedesche. Questo per dire che il rifiuto della forza militare stessa in Italia ha una sua storia e forti basi ideologiche, al punto che l’articolo 11 della nostra Costituzione nel 1948 lo mette nero su bianco:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.05 MP AdN Paura di vincere
La politica però non può negare la realtà di un fatto storico. In questo modo invece i programmi scolastici continueranno ad accennare al Novecento senza studiarlo e i ragazzi resteranno nella loro ignoranza, convinti che l’Italia non ha mai fatto una guerra e che soldati aiutano i migranti e le vecchiette. Questa sistematica castrazione simbolica delle nostre Forze Armate va avanti da anni, ma non è dovuta solo alla sconfitta della seconda G.M. Quando ho fatto il militare, in piena Guerra Fredda, nessuno ci chiedeva realmente di combattere, ma la guerra si chiamava col suo nome e dovevamo essere pronti a farla, anche se difensiva. Le parate militari poi duravano ore e per via dei Fori Imperiali sfilavano decine di mezzi pesanti e migliaia di soldati. Mentre ora il video di propaganda delle nostre Forze armate è stato “riveduto e corretto” perché ritenuto troppo bellicista, all’epoca i filmati analoghi mostravano uomini armati e in addestramento, proiettando all’esterno un’immagine di forza militare sicuramente sovrastimata, ma esplicita. Il cambiamento è avvenuto nella seconda metà degli anni Settanta, quando Sandro Pertini era presidente della Repubblica: si approfittò del terremoto in Friuli per dare una nuova motivazione ai militari (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), col risultato che i manifesti e la pubblicistica militare dell’epoca mostrano i soldati all’opera per aiutare la popolazione colpita da calamità naturali, ma senza fucile. Allo stesso tempo si rilanciò l’immagine della Guerra dei partigiani (Pertini lo era stato) e dell’Esercito di popolo (immagine rimossa a fine secolo col passaggio al professionismo militare). Qualche anno dopo l’Esercito trovò una nuova motivazione nell’impegno profuso nelle missioni all’estero (dal Libano nel 1982 in poi), stando però molto attento che nessuno le interpretasse come azioni di guerra.
In realtà in tutti questi anni si è sparato, e anche tanto; ci sono stati anche morti e feriti. Lo dimostrano da sole le motivazioni di tante medaglie al valore, il numero dei caduti e feriti nelle varie missioni c.d. di pace. In realtà ve ne sono state anche di guerra, nel senso che per mantenere o imporre la pace si è dovuto usare anche le armi, ora per difendere se stessi o le popolazioni da proteggere, ora per imporre lo status quo a chi non voleva saperne di deporre le armi. Ma questo la gente spesso non lo sa, né i militari avevano interesse a farlo sapere al di fuori del loro ambiente, dove tutto invece viene narrato in modo esplicito. Ma l’Italia non può rimanere al di fuori dei giochi politici e delle alleanze internazionali, quindi tutto si gioca sempre sul filo del compromesso.

L’immaginazione al podere

07 MP LocationAlla fine la sceneggiatura era quasi pronta: una storia d’amore tradizionale o quasi, con le opportune (e trendy) contaminazioni del momento, opportunamente inserite nella trama. Gay e famiglie arcobaleno dovevano entrarci per forza, normali come la coppia in crisi o i contratti a termine. Ma l’idea portante era che la storia si dovesse svolgere all’interno di un’azienda agricola rivitalizzata da giovani imprenditori figli di vignaioli impoveriti dalla crisi. Inutile parlare di borsa e obbligazioni a un pubblico composto di famiglie che vivono in provincia, mentre invece le startup agricole stanno ora prendendo piede tra i giovani. Ma a quel punto le storie d’amore e le alleanze commerciali si sarebbero incrociate quasi meglio che nel realismo socialista, interagendo una con l’altra. Due coppie giovani e rispettivi genitori tradizionalisti in agricoltura ma abbastanza moderni in amore.

Ora, per chi non fosse pratico di produzioni cinematografiche, va detto che – a parte la scelta del regista – il problema non è trovare un paio di bravi scrittori e sceneggiatori, né fare il casting degli attori. Il vero problema è trovare i soldi per produrre il film. Per un film prodotto ce ne sono cinquanta che non vedranno mai la pellicola, e sul Giornale dello spettacolo le denunce di lavorazione non devono ingannare: son poco più che atti amministrativi e non è detto che quei film o sceneggiati saranno completati o persino iniziati realmente. Il finanziamento del cinema avviene essenzialmente attraverso il credito bancario. Ma devi dare garanzie, e in questo il mondo del cinema somiglia molto a quello dei palazzinari. Come un nuovo cantiere paga l’appalto precedente, così un film nuovo serve a pagare i buffi della produzione arretrata. E se un film incassa poco, bisogna subito produrne un altro di cassetta, altrimenti le cose vanno male. Ma sono anni che ormai ora si tende a vendere all’estero il film prima ancora che ne sia stata iniziata la lavorazione, attraverso compromessi di ogni genere, quindi dimenticate l’immagine del produttore vecchio stile – l’ultimo è stato Franco Cristaldi – e consideratelo ora come una via di mezzo fra l’imprenditore e l’appaltatore, con ottime (e necessarie) doti di intermediario. Se poi si riescono a programmare i passaggi televisivi ancora meglio, tanto la gente non va più al cinema e le sale chiudono. Naturalmente in prima serata certe cose sarebbero sconvenienti, quindi altri compromessi, anche se ormai al pubblico familiare fa piacere vedere la coppia gay o il migrante integrato per fidanzamento con la figlia. Però niente incesto, anche se ormai dilaga.

Ma torniamo al lavoro di budgeting (1). Una serie di accordi con la regione Puglia garantiva una serie di vantaggi finanziari sotto forma di defiscalizzazione nel caso fossero stati scelti per le riprese alcuni luoghi da valorizzare: fattorie e aziende dove sviluppare l’agriturismo, centri storici di piccoli paesi da ripopolare. Questo era coerente con l’idea di partenza: narrare la ripresa di un’azienda agricola vinicola. Che vino scegliere in questo caso? I vini pugliesi sono almeno una trentina (2). Parecchi produttori si misero in lizza e la produzione si vide recapitare parecchie casse di bottiglie, prontamente accantonate per le feste di rappresentanza. Era bastato inviare una serie di mail e di lettere con la carta intestata della produzione a una serie di aziende, specificando che non solo il loro marchio sarebbe stato visibile in alcune scene (sarebbe vietato, ma in commissione stanno attenti solo a sigarette e superalcolici), ma che la location avrebbe valorizzato le loro colline e le loro vigne e quindi la promozione turistica in Italia e all’estero. Qui nessuno s’inventava niente: è noto quanto gli stranieri amano il vino italiano e le loro zone di produzione, che tuttavia non sempre conoscono. Le vigne ben ordinate rendono il paesaggio gradevole, ma le bottiglie in tavola son sempre un valore aggiunto. Prendete il commissario Montalbano: è una buona forchetta e col pesce un buon bianco non può mancare. Alla fine si optò per un Bianco d’Alessano

Nella trama dovevano confrontarsi più generazioni: gli anziani vignaioli e i loro figli e nipoti che lottavano per modernizzare l’azienda agricola e renderla competitiva per il mercato estero. Trama banale, ma di sicuro effetto, mezza erede del grande romanzo russo ma aggiornabile ai tempi attuali. Centro dell’azione doveva essere la grande masseria di famiglia. Ma una variante fu introdotta per l’interessamento della Provincia autonoma di Bolzano, o meglio, di alcuni imprenditori altoatesini. In sostanza, se eravamo disposti ad ambientare parte della trama in alta val Venosta, c’era la possibilità di un sostanzioso contributo finanziario. Avremmo avuto almeno un albergo tutto per noi, addirittura ne sapevamo già il nome: a esser pignoli era il Fernblick a san Valentino alla Muta, in quel di Curon Venosta (Graun im Vinschgau). Bene o male dovevano rientrarci pure le mele col marchio appunto della valle, quindi niente mele del Trentino, ma neanche le austriacanti Marlene. Quanto al vino, andavano bene sia il Riesling che il Kerner, tanto tipici della val Venosta, ma fu scelto il secondo perché più vicino alla location. E’ comunque un ottimo bianco col pesce alla griglia.

Furono richiamati gli sceneggiatori. Potevano adattare la trama mischiando la Puglia col Sud-Tirolo? L’ibridazione era possibile o poco credibile? Visto che c’erano di mezzo i soldi, la produzione non avrebbe perso tempo: o si cambiava la trama o si cambiavano gli scrittori. In genere gli sceneggiatori si dividono in tre categorie: gli intellettuali, i professionisti e gli aspiranti. I primi sono insopportabili e lavorano solo per i grandi registi, gli altri sono duttili e scrivono a comando, adattandosi alla situazione in un modo sconosciuto all’intellettuale che frequenta da anni le sale d’essai e ama il cinema, ma nulla conosce del retrobottega produttivo. In modo analogo, chi scrive colonne sonore può essere un bravo musicista oppure un marchettaro del pentagramma, ma anche bravi professionisti hanno ogni tanto accettato sottobanco lavori in nero per sfamare la famiglia. La terza categoria, gli aspiranti, è quella che ha pure seguìto corsi di sceneggiatura e scrittura creativa, ma non conosce ancora i trucchi del mestiere e soprattutto non ha i giusti agganci per entrare nel giro. Se ne incontri uno, ti chiederà sempre “chi conosci?” Per cui, non appena qualcuno gli promette un lavoro, sono disposti a sgobbare anche di notte per riscrivere da capo scene e dialoghi. Lo sceneggiatore a contratto li chiamava i miei negretti, termine molto diffuso nell’ambiente. Ma grazie a loro si andava spediti. Erano riusciti tra di loro a formare un gruppo affiatato e questo era un vantaggio nei tempi serrati richiesti dalla produzione.

La prima idea era copiata da un vecchio fatto di cronaca: un giovane imprenditore del nord Italia s’innamorò di una ragazza calabrese che non avrebbe mai trovato marito dopo una violenza carnale subìta poco prima. In realtà erano stati i parenti a commissionare lo stupro, in modo da lasciare intatta la grande proprietà terriera di famiglia. Quest’uomo del nord era naturalmente estraneo a quella mentalità e fece capire che della verginità non gliene poteva fregare di meno. La cosa finì in tribunale perché, sempre per non frazionare il latifondo, i parenti di lei cercarono di fare la pelle al nordista guastafeste. La trama sembrava però più adatta a un film di Mario Salieri (3) che a un film per i canali televisivi. Piuttosto, i giovani agrari pugliesi avrebbero potuto conoscere i loro colleghi sudtirolesi durante una vacanza in val Venosta. Poco importa se il bel meridionale s’innamorasse della figlia del direttore della cantina sociale di Curon Venosta o il giovane sudtirolese produttore di mele e gestore del turismo perdesse la testa per la bellezza italiana conosciuta nell’albergo di famiglia: l’importante è che la famiglia si opponesse, in modo da terminare la serie televisiva con un bel matrimonio che integrasse nord e sud, italiani e sudtirolesi. E qui c’era solo da scegliere: trame simili sono vecchie come il mondo. Sicuramente uno del nord avrebbe suggerito la modernizzazione delle vigne pugliesi, ma era meglio non replicare lo stereotipo del sud arretrato. Su questo punto la discussione si protrasse per diverse ore, arrivando a un compromesso: il sud- tirolese non avrebbe messo bocca sulla gestione delle vigne pugliesi, ma sarebbe stata invece la bella ragazza del sud a far notare la modernità dell’economia altoatesina. Al ritorno dalla vacanza in montagna lo avrebbe poi riferito ai fratelli e al padre, naturalmente sordi come pentole. Manfred – chiamiamolo così – una volta presentato in famiglia, sarebbe stato oggetto di facili ironie, molto educato con tutti ma capace di chiedere perché il vino prodotto localmente si chiamasse primitivo.

Solo che i danni della xylella agli uliveti pugliesi avrebbero drasticamente indirizzato gli investimenti nel settore vinicolo. La falcidia degli ulivi secolari poteva essere sfruttata pure per mostrare all’estero l’arbitrio dell’Europa dei burocrati di Bruxelles verso i produttori di olio meridionali, e nella sceneggiatura qualcuno avrebbe magari detto che quegli uliveti secolari li avevano piantati i Greci. Su questo insisteva molto uno degli aiuto sceneggiatori, di Barletta, che aveva preso a cuore la sorte degli ulivi. Era lui che suggeriva le battute anche dialettali da mettere in bocca ai personaggi meno colti dello sceneggiato, né sapeva che il film sarebbe stato doppiato in inglese per l’estero. Quelle battute avrebbero compensato gli educati ma legnosi altoatesini dell’altra metà della trama, il cui accento e le movenze non potevano essere mascherate. La Provincia autonoma di Bolzano infatti aveva insistito per una serie di attori locali – alcuni in realtà austriaci e bavaresi – per favorire la distribuzione del prodotto nelle reti televisive di Innsbruck e Monaco, ma bisogna dire che per i nostri gusti quegli attori erano tutti bravi ma poco espressivi.

Tutto sarebbe a questo punto filato liscio: trama credibile, location finanziate, casting quasi pronto. I fotografi avevano già iniziato a fare i sopraluoghi sia in Puglia che in val Venosta, un brogliaccio di dialoghi era già strutturato, se non che arriva la telefonata del produttore, o meglio del gruppo di azionisti che avevano programmato la prevendita della serie. Fermi tutti, bisognava farci entrare un inglese. Un inglese? Certo: la serie forse si poteva vendere anche a una rete britannica, e da qui il contratto con Netflix era cosa fatta. Ormai i negretti erano abituati a questi cambiamenti di vento, per cui non si scomposero. Alla corte britannica si era nel frattempo celebrato il matrimonio tra il principe Harry e Megan e l’onda lunga dei rotocalchi sarebbe durata mesi. Un inglese, magari aristocratico, poi fa sempre scena, e nel nostro sceneggiato poteva essere stato il fidanzato della figlia del possidente pugliese quando lei era andata a studiare in qualche costoso college estivo nella terra di Albione. In fondo quella ragazza era una che se la tirava, come tante provinciali ricche, quindi la storia era più che credibile. Sarebbe stata anche l’occasione per mettere in mezzo qualche stilista italiano trapiantato a Londra, interessato a far conoscere le proprie collezioni. Anche la ragazza pugliese doveva essere elegantissima, ma Italian Style. Gli unici che forse avrebbero posto problemi di vestiario erano i crucchi altoatesini, ma a loro si sarebbe pensato in seguito. Già, ma il nostro inglese come reinserirlo nella trama? Veniva in Puglia da singolo o piuttosto con moglie e figli per godersi le gioie dell’agriturismo? E l’incontro dopo cinque anni sarebbe stato casuale o si sarebbero prima rincontrati su Facebook dopo qualche anno? La prima ipotesi avrebbe aggiunto un tocco melodrammatico alla vicenda, nel secondo caso sarebbe stata un tocco di classe al passo coi tempi, per cui la scelta non portò a discussioni. Ne frattempo si aspettava la decisione della banca…

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  • Il budgeting è una delle fasi iniziali e più importanti della produzione cinematografica e consiste nel reperire i fondi necessari alla realizzazione del film. I processi per il suo avvio nascono durante lo sviluppo, generalmente durante la scrittura della sceneggiatura, quando il regista deve proporre ai produttori dello studio cinematografico interessato un bilancio di spesa approssimato e ottenere da loro il mandato per procedere con la pre-produzione. Procedendo e dilungandosi nella produzione, il budgeting viene solitamente diviso in quattro aree: talento creativo (cast tecnico e artistico), produzione diretta (costo per costruzione di set e materiale necessario alla lavorazione), post-produzione (costo per le fasi di questo processo) e settori vari (completamento delle obbligazioni, distribuzione, marketing, etc).
  • Per la precisione: vini DOCG 4, vini DOC 29, vini IGT 6 (Fonte: UIV – ISTAT)
  • Mario Salieri, napoletano, è un affermato regista italiano di film pornografici, bisogna dire di qualità: trame decenti e legate alla cronaca o alla letteratura, attori e attrici che sanno recitare anche col volto. Anche la fotografia, affidata al bravo Nicola De Sisti e spesso in B/N, è di rara qualità nel mondo dell’hard. Dopo il 2008 – crisi dell’home video – si è adeguato all’internet. Grosse polemiche ha suscitato il suo remake (2017) de La Ciociara. (vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Salieri)