Tutti gli articoli di Marco Pasquali

JOY

MP Cinema Joy locandinaIn Europa la prostituzione nigeriana è tra le più strutturate e consolidate, grazie a connivenze di ogni genere e allo sfruttamento di ragazze ignoranti e superstiziose. Il film inizia infatti in Nigeria, dove una ragazzina prima della partenza per l’Europa viene sottoposta a un rituale magico di tipo vudù, che la legherà a madame e al mestiere. Precious – questo il nome della ragazza forse diciottenne – verrà infatti mandata a fare la puttana e il film – dalla critica definito chissà perché piacevole e scorrevole – è in realtà molto duro e non fa sconti a nessuno. Qui siamo a Vienna, ma potrebbe essere la periferia di qualsiasi grande città europea, e la macchina da presa alterna le scene di marciapiede con quelle – inedite – della vita quotidiana delle ragazze sfruttate da madame e i suoi picciotti.

La regista Sudabeh Mortezai è nigeriana lei stessa, quindi il film è vissuto dall’interno della propria comunità, dove allo sfruttamento si unisce una buona dose di untuoso paternalismo. Come in Gomorra, nessuno riesce simpatico e madame è semplicemente un’ex puttana che ora sfrutta le nuove arrivate e le sottomette con la violenza fisica, psicologica e religiosa.

Ogni ragazza deve ripagarle 60.000 euro, verosimilmente entro cinque anni, ma le ragazze devono anche mandare i soldi a casa (ricordate le c.d. rimesse degli emigranti?), quindi imparano presto a spennare o impietosire i clienti, i quali nel film sono descritti per quello che sono. Fa eccezione un professionista disposto anche ad aiutare finanziariamente Joy, la ragazza che dà il nome al film, ma le differenze culturali tra i due rovinano subito l’intesa. Joy ha pure il compito di proteggere e istruire Precious, la ragazza di cui parlavamo all’inizio, la quale viene soggiogata ma vede in Joy una specie di madre. Purtroppo per lei, verrà presto mandata in Italia, dove l’aspetta solo un marciapiede diverso, mentre Joy nel frattempo ha finito di pagare il debito, anche se ora le servono altri soldi per far curare il padre. Poteva collaborare con la polizia, ma senza precise garanzie si è guardata bene dal rischiare. Una volta libera dal debito e sciolta pure dal sortilegio juju, abbandona quella specie di “comune” e va ad abitare da sola, continuando in proprio l’unico mestiere per lei redditizio. Si prostituisce nei locali e gestisce privatamente una ragazza arrivata da poco, ma in questo modo pesta i piedi a madame.

Morale: viene arrestata da due poliziotti e rimandata al paese suo con decreto di espulsione immediato (non ditelo a Salvini, ma in Austria fanno sul serio). Nelle ultime scene vediamo Joy di nuovo in Nigeria, mentre cerca di pagarsi un passaggio che la riporti di nuovo in Europa con il solito giro mafioso. Come si vede, nel film non c’è redenzione né happy end; le cose vengono descritte per quelle che sono. Vigorosa l’interpretazione della protagonista (Joy Anwulika Alphonsus), la quale senza accorgersene finisce per fare più o meno quello che madame faceva con lei. Dunque, il cerchio ancora non si chiude.

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Joy
Regia di Sudabeh Mortezai
Un film con Joy Anwulika, Alphonsus, Angela Ekeleme Pius, Precious Mariam, Sandra John
Genere Drammatico
Austria, 2018, durata 100 minuti.

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Il futuro della democrazia

“Dove manca il ‘capitale sociale’, dove l’integrazione e l’impegno dei cittadini nelle formazioni sociali volontaristiche è debole, manca la cultura politica necessaria alla democrazia”.

 Questo piccolo libro di scienze politiche raccoglie i contributi di un convegno svolto nel 2009, ma sembra scritto in un’altra epoca e la lunga prefazione di Gianfranco Fini fa rimpiangere quella Destra laureata capace di portare avanti una politica nel rispetto della Costituzione. Il convegno fu un’occasione per conoscere il pensiero dei teorici di cultura germanica, e a organizzarlo presso Como furono la Fondazione Farefuturo (leggi: Fini) e la Konrad Adenauer Stiftung, che ha all’attivo almeno una trentina di opere pubblicate in italiano. I contributi di questo convegno hanno il testo tedesco a fronte e recano le firme di Hans Jorg Henneke (relazione introduttiva): Dietmar Helper (il futuro della democrazia – osservazioni e diagnosi dall’ottica austriaca); Markus Krienke (Democrazia e religione); Agoston Samuel Mraz (Sulla democrazia in Ungheria). Forse pochi conoscono questi studiosi, come è difficile che conoscano le opere di Hans-Peter Schwarz – citato nel convegno a p.37 – visto che nessuna delle oltre sue cinquanta monografie è mai stata tradotta in italiano, il che dimostra quanta strada c’è ancora da fare per l’integrazione europea.

Molti e pregnanti gli argomenti trattati: il limite della rappresentatività dei partiti politici tradizionali, le forme di partecipazione diretta, le varie forme di legge elettorale, il ritardo delle istituzioni rispetto alle esigenze sociali, la democrazia parlamentare e quella presidenziale, gli strumenti della democrazia deliberativa e soprattutto lo sviluppo delle istituzioni indipendenti nella costruzione e gestione della democrazia. Notare che all’epoca ancora non si parlava di democrazia diretta e non erano esplosi i social come nuovo mezzo di espressione e pressione politica. Nessuno avrebbe previsto che Facebook potesse diventar anche un’agenzia stampa governativa e che il presidente degli USA usasse i Tweet come ufficio stampa della Casa Bianca.

Interessanti poi i due contributi, austriaco e ungherese, soprattutto alla luce di quanto avviene oggi. Per l’Austria si nota il tentativo di riformare strutture che nel corso del tempo non hanno saputo rinnovarsi, complice anche il sistema proporzionale. Per l’Ungheria invece il contrario: le strutture della democrazia hanno una ventina d’anni e non si sono ancora stabilizzate. E quello che vediamo oggi con Orbàn, al centro del potere c’è il Presidente dei Ministri, che se viene sostenuto dalla maggioranza di Governo (almeno 194 dei 386 parlamentari) non c’è nessun’altra istituzione che possa limitarne il potere. E infatti si è visto.

MP Libri Il futuro della democrazia

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Il futuro della democrazia
Ediz. italiana e tedesca Vol. 5
di Mario Ciampi, Wilhelm Staudacher

Prezzo: € 10,00
Editore: Rubbettino, 2009, pp, 115

EAN:9788849828658

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La gaja naja

MP AdN La gaja naja 1L’improvvida, estemporanea uscita del v. premier Salvini sul ripristino della leva militare ha prima provocato lo scetticismo del ministro della Difesa e dei militari di carriera, per poi trasferirsi polemicamente su giornali e social. Eppure sarebbe stata un’ottima occasione per metter ordine in argomento e duole la superficialità con cui il tema è stato affrontato e subito rimosso.

Tanto per cominciare, la funzione principale ed esclusiva del soldato è il combattimento. Tutte le altre funzioni (controllo sociale e sanitario della popolazione maschile, recupero dell’analfabetismo, vigilanza statica, protezione civile, supporto alle forze dell’ordine, educazione civica) sono da considerare accessorie. Riproponendo la naja come antidoto alla maleducazione dei giovani, Salvini è dunque partito col piede sbagliato. Anche se tutte le altre funzioni di cui sopra sono state sfruttate in modo sistematico dagli stati moderni, la leva obbligatoria serve sostanzialmente ad ottenere il massimo degli uomini addestrati al combattimento a un prezzo minore dei costosi professionisti, e infatti gli inglesi, il cui esercito è sempre stato professionale, hanno ripristinato la leva solo durante le due guerre mondiali, quando la qualità doveva essere necessariamente integrata dalla quantità. Se poi non ci fosse stata la Guerra Fredda, in Europa la leva sarebbe stata verosimilmente abbandonata entro il 1950, mentre la presenza di cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa e dei loro satelliti ha praticamente obbligato la NATO a fare altrettanto dal Baltico alla Turchia. Guarda caso, gli unici stati europei che oggi mantengono la leva confinano con la Russia.

Dalla fine degli anni ’80 se non prima è però cambiata la scena internazionale e con essa la natura delle operazioni militari: non più il confronto fra masse di uomini e mezzi meccanici distribuiti in due blocchi simmetrici, ma un quadro frammentato e mutevole che ha spostato l’accento su quelle che una volta sarebbero state definite operazioni di polizia coloniale: missioni di pacificazione, interposizione o stabilizzazione in aree di crisi, condotte da poche unità di professionisti motivati, ben addestrati ed equipaggiati e in qualche misura spendibili senza provocare la caduta del governo. In questo quadro l’Italia si è subito adeguata alle nuove esigenze operative, aderendo alle varie missioni all’epoca c.d. in area esterna, ma presto rendendosi conto dei limiti del personale di leva, sia pur integrato in reparti più affidabili. Dal canto suo la leva – ufficialmente “sospesa” nel 2004 – oltre che impopolare, era un’istituzione già fortemente compromessa sia dalle carenze di bilancio che dai cambiamenti sociali. Il benessere non ha mai prodotto soldati e le progressive leggi favorevoli all’obiezione di coscienza alla fine hanno infine reso il servizio militare obbligatorio qualcosa di simile all’attuale obbligo facoltativo dei vaccini. Dal canto loro, i militari per primi si rendevano conto che la stessa tecnologia richiedeva ormai personale a lunga ferma. Marina e Aeronautica avevano già una forte componente di professionisti, vista la natura tecnica delle due armi, mentre l’Esercito rischiava di rimanere indietro. Quindi il passaggio dalla leva al professionismo, almeno da un punto di vista militare fu un processo razionale, mentre meno razionale è stata la sua gestione. Gli inglesi – che avevano affrontato il problema ben prima di noi – all’epoca dissero che passare dalla leva al professionismo doveva essere un’operazione condotta gradualmente, essendo comunque quasi impossibile tornare indietro. In Italia si è invece fatto tutto in fretta, col miraggio di risparmiare risorse e intercettare il voto dei giovani. Ricordo bene la rapida rimozione delle storiche idee sull’esercito di popolo garante della democrazia, nonché il malcelato disprezzo degli ufficiali di carriera verso l’impegno profuso per anni da milioni di giovani obbligati a un servizio che avrebbero volentieri evitato. A vincere due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda non erano stati comunque i professionisti, ma proprio le masse addestrate dei coscritti. In ogni caso, la fretta con cui si è smontato tutto per arruolare volontari di bassa estrazione sociale ha causato l’effetto collaterale di avere strutture ormai sovradimensionate e un corpo di ufficiali e sottoufficiali sproporzionato rispetto alla truppa. I calcoli sul costo di un esercito di mestiere poi erano ottimistici: addestrare e mantenere in efficienza un esercito di professionisti sindacalizzati costa caro e la crisi economica degli anni successivi ha fatto il resto, penalizzando gli ambiziosi progetti iniziali e tagliando i fondi per l’arruolamento delle nuove reclute e la manutenzione di mezzi e istallazioni. E se vogliamo dirla per intero, concepire l’esercito come ammortizzatore sociale ha provocato il progressivo invecchiamento della massa dei sottoufficiali di truppa e dei militari in genere. Un caporalmaggiore ha oggi il doppio degli anni di un najone d’epoca, quasi potrebbe essere suo padre.

Detto questo, vale davvero la pena di tornare indietro? Ripristinare la leva significa rimettere in piedi quanto si è sfasciato: distretti militari, caserme oggi cadenti e neanche riconvertite, aree addestrative, magazzini. Significa vestire, nutrire, alloggiare e addestrare personale in servizio per pochi mesi; tutto questo ha un costo eccessivo rispetto al vantaggio immediato, in un’Italia dove la stessa nozione di confine da difendere è stata nei fatti annullata dalle circostanze storiche e dalla politica. Che poi il costoso professionista sia impiegato anche in operazioni di piantonamento urbano è secondario: venuta ormai meno l’osmosi con la società civile, è lecito ricorrere anche a iniziative di facciata per far sentire vicini alla gente i propri soldati.

Più interessante e fertile sembra invece l’idea di un Servizio civile universale, o addirittura europeo, obbligatorio e aperto a uomini e donne. Ne aveva parlato Renzi, ne ha parlato anche la Merkel. Rispetto al servizio militare il costo intanto sarebbe minore, non dovendo lo Stato vestire, nutrire e alloggiare il personale impegnato nel servizio civile. E soprattutto, potrebbe offrire ai giovani una gamma di opportunità che vanno dalla formazione all’assistenza sociale, dalla possibilità di fruire di una specie di Erasmus all’estero al tirocinio presso enti pubblici e privati. Importante che ci sia un coordinamento e soprattutto una gestione pubblica del servizio, evitando la frammentazione a uso e consumo dei privati che caratterizzò per anni la c.d. obiezione di coscienza.

 

Migrazione: Europa, Europa

MP Migrazione Europa EuropaFateci caso, l’asse franco-tedesco comprende bene o male l’area geopolitica del Sacro Romano Impero, mentre tutti i paesi afferenti al “gruppo di Visegrad” – nessuno escluso – hanno fatto parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico, compreso il Lombardo-Veneto da cui è partita la Lega. Che dire? Il Sacro Romano Impero era una potenza continentale poco interessata al Mediterraneo e ai paesi che vi si affacciano, tant’è vero che per secoli quattro minuscole Repubbliche marinare hanno potuto gestire da sole il traffico con l’Oriente. Da parte sua l’Impero asburgico ha dovuto combattere trecento anni per frenare l’avanzata dell’Impero Ottomano islamico, e solo lo storico Franco Cardini è convinto che i Turchi dopo Vienna si sarebbero fermati o addirittura sarebbero tornati indietro. Seminomadi sì, ma sempre potenza militare e demografica. Ce lo ricorda oggi proprio il presidente Erdogan, che ha convinto il suo popolo che i nomadi devono obbedire solo al Capo. Ma scendiamo giù nel Mediterraneo: come gli antichi Romani e come a suo tempo Giolitti nel 1911, anche noi abbiamo capito che non si possono tenere le coste della Libia senza controllare l’interno, anche se lo puoi fare solo con l’accordo con le tribù piuttosto che pattugliando a vuoto il deserto del Fezzan, come nel bel film del ventennio Lo squadrone bianco (1936).

Già, l’Italia. Per motivi storici quella che ai tempi di Roma antica governava il bacino del Mediterraneo – vista anche la sua posizione geografica – si direbbe che non si è mai più ripresa e senta ancora il complesso dell’invasione, tanto ben sfruttato dalle destre nazionaliste o meno. Ma non sarà certo un governo imprevisto e imprevedibile a risolvere quella che non è mai stata un’emergenza, quanto piuttosto un processo storico paragonabile solo alle grandi migrazioni del passato. Diciamolo: questa migrazione i governi precedenti l’avevano tollerata se non incoraggiata, abolendo di fatto le frontiere alla fine della Guerra Fredda. La cosa non deve stupire: anche se per motivi diversi, sia i cattolici che la sinistra internazionalista sono sempre stati estranei allo stato nazionale, i primi in nome dell’accoglienza cristiana e dell’ecumenismo, la seconda in nome dell’internazionalismo proletario e della ridistribuzione del reddito e delle risorse. Mentre i primi finora sono stati così coerenti da accettare anche l’ingresso (controproducente?) dei musulmani, una parte della sinistra europea sembra non abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo, ripiegando su alleanze di governo o spinte elettorali di tipo nazionale (come in Francia e nel Regno Unito) e soprattutto senza esprimere i propri concetti in maniera chiara. Da qui una narrazione contraddittoria, travolta purtroppo da una crisi economica venuta da lontano ma durata dieci anni, la quale ha finito per mettere tutti uno contro l’altro; da una parte le classi medie impoverite, dall’altra gli ultimi e penultimi che vogliono la loro fetta di torta. Purtroppo a suo tempo si è molto discusso sull’impatto della globalizzazione sulle popolazioni migranti, ma non è stata analizzata adeguatamente la reazione delle società europee residenti messe di fronte al cambiamento.

E qui s’inserisce anche la paranoia, quella che si ripresenta puntuale MP Migrazione Europa Europa 1ad ogni ciclo economico gravido di sconvolgimenti sociali. Intendo analizzare una delle teorie più pericolose che girano in questi tempi: il mito della sostituzione etnica. In sostanza, ci sarebbe un preciso piano per sostituire gradualmente la stanca, invecchiata e decadente popolazione europea immettendo sangue fresco, possibilmente africano e musulmano. Non sarebbe una novità: nella storiografia germanica le invasioni barbariche sono tuttora considerate portatrici di nuove e giovani energie innervate nel decadente Impero romano, il quale soffriva esattamente delle stesse cose dell’Europa di oggi: crisi economica, crisi demografica, crisi militare. Ma qui il tutto è definito come il complotto di una élite di banchieri e finanzieri (per fortuna non più ebrei) che nelle chiuse stanze di un consiglio di amministrazione allocato chissà dove (ma sicuramente in un grattacielo) hanno elaborato il piano per cambiare il sangue al debole corpo della vecchia Europa e rilanciare in questo modo la produzione. Si sarebbe dunque pianificata la distruzione dei popoli europei attraverso l’attacco mirato e scientificamente perseguito alla natalità europea e grazie alla deportazione da Africa e Asia di milioni di individui sradicati che avrebbero imbastardito la razza e la cultura europea e distrutto l’identità, determinando così una massa informe di cittadini senza radici, senza patrimonio, origini, avi, tradizioni, legami comunitari e quindi facilmente assoggettabile da parte dei poteri finanziari e priva di ogni possibilità di resistenza.

Intanto, l’attacco alla natalità gli europei se lo sono pianificato da soli: la denatalità è il risultato di una serie di fattori tutti interni alle società europee. In secondo luogo, è vero che una massa di “diversi” rompe equilibri consolidati, ma è anche vero che questo processo non nega affatto l’idea di Europa, la quale altro non è che il punto terminale di una serie di migrazioni che si sussegue da millenni. Lungi però dal diventare il nulla indistinto, questa entità diventa sempre qualcos’altro, formando nuove culture e nuove società che trasmettono e riesportano in forma anche aggressiva il prodotto finale. Basti pensare all’epoca dell’espansione coloniale. E in fondo il mito del ratto di Europa significa proprio questo: quello che entra da fuori si trasforma in qualcosa di ben diverso dall’identità originale. Altro che perdita d’identità, casomai è proprio il contrario. Come si vede, oltre che paranoico il discorso del complotto è superficiale.

MP Migrazione Europa Europa 2Altro punto debole della tesi è la puerile confusione tra economia e finanza. L’economia ha bisogno di spostare uomini, la finanza no. Una fabbrica ha bisogno di materie prime, di operai, di mercato, mentre la finanza oggi può spostare capitali senza neanche muovere un atomo di materia, meno che mai nell’epoca dell’internet e del digitale. E allora che senso ha trasferire milioni di uomini da un continente all’altro? In finanza nulla, mentre in economia è diverso: il vuoto non esiste e in genere l’ingranaggio si autoregola: laddove c’è lavoro ma servono altre risorse umane il vuoto viene colmato in breve tempo. Sull’integrazione degli immigrati si può e si deve discutere, non riducendo il problema ai contributi per le pensioni o semplificando gli attriti tra culture diverse, né adattandosi forzatamente a costumi estranei ai nostri per paura di un confronto: gli spostamenti di uomini portano anche conflitti. Pur tuttavia l’economia ha le sue leggi. Alla gente semplice invece piacciono i complotti: semplificano al massimo la realtà e trovano subito il colpevole. Persino una società democratica rappresentativa sente ancora il fascino della cospirazione di poche persone riunite al chiuso di una stanza dei bottoni. Peccato che non sia la realtà. Esistono invece le convergenze di interessi, ma non è detto che esse siano strutturate e programmate come uno pensa, anzi sembrano spesso portare a conseguenze inaspettate ed effetti collaterali non previsti. L’importante è dunque saper gestire il cambiamento. Ma per farlo bisogna prima capirne la dinamica.

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Un bianco e nero rivelatore

MP Cinema 195412 agosto 1945; da qualche parte della campagna ungherese, un lento treno a vapore percorre sbuffando la pianura e si ferma in una piccola stazione prima di continuare il suo viaggio. Sicuramente è l’unico treno della giornata e ne scendono anche due ebrei osservanti – verosimilmente padre e figlio – con due casse di bagaglio. Li aspettano un carro e un paio di facchini, mentre un pugno di soldati russi ronza sempre intorno: siamo  nel 1945, come suggerisce data il titolo al film del cinquantenne Ferenc Török, a guerra appena finita. Mentre si scarica il bagaglio (contenuto dichiarato : profumi) il capostazione in divisa cerca di precedere in bicicletta questi strani viaggiatori diretti al villaggio, poco più che un borgo agricolo a una decina di chilometri dall’assonnata stazione. In montaggio alternato (montatore: Bela Barsi), vediamo ora il capostazione che pedala e arriva al villaggio, ora i due austeri giudei che seguono a piedi il carro dove hanno fatto caricare il loro ingombrante bagaglio. I soldati russi comunque continuano sempre a ronzare intorno, a bordo di una usurata jeep americana. Per il villaggio non è un giorno come tutti gli altri: il figlio del vicario si sposa con una giovane contadina del posto, che diventerà d’ora in poi moglie del droghiere (ma in realtà ha già un amante, un giovane e robusto contadino peraltro già fidanzato). La notizia dell’arrivo dei due ebrei si sparge dunque rapidamente e disturba i preparativi per la festa di nozze. Tutti i paesani iniziano a discutere tra di loro, ad agitarsi, l’osteria diventa un comizio e le donne del villaggio diventano tutte nervose. Ognuno è polemico col vicino e l’armonia della comunità sembra un ricordo. Ma che è successo? Premetto che il film io l’ho visto in lingua ungherese con sottotitoli non sempre leggibili, vuoi perché stavo in fondo alla sala, vuoi perché il film è in superbo bianconero. Ebbene, anche seguendo i soli movimenti di macchina si capisce benissimo il motivo della crisi: tutti hanno qualcosa da nascondere e hanno paura che i due ebrei possano riprendersi quello che durante la guerra era stato loro confiscato; peggio ancora se ne tornassero altri (ma nel 1945 poco si sapeva dell’Olocausto). E’ un film fatto di dettagli: a casa di uno dei paesani – un ubriacone e delatore – il quadrante dell’orologio a muro conserva le cifre in ebraico, e in un’altra scena una massaia cerca di nascondere nel granaio stoviglie d’argenteria sicuramente non sue. Tutto il villaggio è stato dunque complice di un’appropriazione indebita e tutti ora hanno paura di pagare il conto. La presenza dei due taciturni ebrei fa dunque da catalizzatore dei contrasti latenti, al punto che un paesano s‘impicca, lo sposo litiga con suo padre e decide di emigrare, il matrimonio salta e la promessa sposa, abbandonata a poche ore dalle nozze, dà fuoco alla drogheria mentre l’aspettano in chiesa. Ma i due taciturni e ieratici personaggi hanno ben altro da fare: si recano al locale cimitero e fanno scavare una fossa intorno a una delle tombe. Mentre gli operai sterrano, tutti intorno si chiedono – noi compresi, ammettiamolo – quali tesori gli ebrei devono dissotterrare. Interviene anche il notaio del villaggio, l’unica autorità locale riconosciuta, chiedendo educatamente spiegazioni. Ebbene, i due ebrei sono tornati soltanto per seppellire nelle tombe di famiglia – avvolti nei panni rituali ebraici – gli effetti personali dei loro parenti morti nei campi di sterminio. Agli abitanti del villaggio non chiederanno mai niente, il notabile lo capisce e stringe loro la mano in segno di rispetto. E così come sono venuti – nello stile classico, si direbbe, dei film western –  padre e figlio se ne andranno lentamente per andare chissà dove, riprendendo lo stesso treno che abbiamo visto nella scena iniziale.

Il film è girato in uno scarno bianco nero, sotto la sapiente direzione della fotografia di Elemér Ragályi. Produrre nel 2018 un film in B/N può sembrare una follia, ma ricordiamo qui una frase che Wim Wenders mise in bocca a uno dei suoi personaggi: “Il mondo è a colori, ma il bianconero è più realistico”. E mi piace ricordare anche una frase pronunciata dalla regista ungherese Marta Meszàros a proposito del suo film Diario per i miei figli (1982): negli anni ’50 era il mondo ad essere in bianco e nero. Qui siamo addirittura nel 1945, in un’Ungheria rurale quasi fuori del tempo, se a datare le vicende non vedessimo i soldati russi che tutto sorvegliano e per l’appunto quei due ebrei che tornano nel villaggio in cui abitavano prima della guerra, nelle campagne dove il pregiudizio antisemita era latente da sempre: in argomento ricordo un vecchio film ungherese, I miei primi trecento anni , visto negli anni ’80.

Il film ha trovato una distribuzione italiana e sta avendo un discreto successo, vista le sue qualità intrinseche.

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1945
di Ferenc Török
Con Péter Rudolf, Eszter Nagy-Kalozy, Bence Tasnádi, Tamás Szabó Kimmel, Dóra Sztarenki
2017 Ungheria, durata 91’
prodotto da Katapult Film
distribuzione italiana: Mariposa Cinematografica e barz and hippo

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