Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Memoria labile per una pace instabile

Nei tempi antichi, valorosi quanto rozzi capitribù eleggevano ad antenati gli eroi omerici o mettevano l’aquila nel loro vessillo, iniziando così la propria ascesa sociale verso la nobiltà. Coscienti della finzione ideologica, tutti facevano finta di crederci, tanto le questioni dinastiche più che in archivio venivano chiarite sul campo di battaglia, né il consenso delle masse era l’ossessione di un potere ancora in mano a pochi. Oggi assistiamo a un fenomeno curioso: meno il potere è democratico, più si preoccupa di creare un consenso collettivo attorno al regime, imprigionando i dissidenti ma creando al contempo una complessa macchina di propaganda. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, penso alla Turchia di Erdogan. Meno frequente ma ben più preoccupante è un altro fenomeno, relativamente nuovo: la censura sulle ricerche storiche e la revisione della storia nazionale vengono ora condotte in piena Europa da governi di repubbliche parlamentari e democratiche. Il governo polacco ha infatti stabilito per decreto che l’Olocausto ed Auschwitz sono stati gestiti esclusivamente dai tedeschi, che i polacchi sono sempre stati estranei alla faccenda e che naturalmente l’antisemitismo non è mai attaccato nel popolo polacco. È un falso storico identitario, ma la cosa più grave è che chi afferma il contrario sarà penalmente perseguito. Ricordiamo che in democrazia la libertà d’opinione è un diritto costituzionale e che qualsiasi ricostruzione storica va prima documentata in archivio e resa pubblica solo dopo un controllo delle fonti. Altrimenti non è informazione.

Ora, la storia nazionale – o meglio, la storiografia – è spesso condizionata da ideologie e pressioni politiche; inutile negarlo. Pur senza arrivare al falso storico, secondo il clima politico si previlegia il contributo di una componente sociale o politica o militare a svantaggio di un’altra, che rimane un po’ in ombra. L’importante è che in democrazia la memoria sia condivisa, laddove una società gerarchica ed elitaria certi problemi non se li pone nemmeno. Tutto facile? No, visto che ancora si discute se la Resistenza sia stata un atto fondante della democrazia italiana. Ma è proprio nel revisionismo storico che si annida la riscrittura della memoria, come se la storia nazionale fosse un DVD riscrivibile. Pensavo in questi giorni al monumento ai parà tedeschi a Cassino, smontato ancora prima di essere inaugurato. L’avevano promosso alcuni albergatori locali, i cui clienti suppongo siano i figli e nipoti dei parà di allora, col patrocinio della loro associazione d’arma. Che la grotta, sede del loro comando in quei drammatici giorni, sia oggi una discarica abusiva invece che un museo è deplorevole, ma va anche detto che quel reggimento – lo stesso che ha liberato Mussolini – è stato in assoluto il reparto nazista che in Italia ha fatto più danni degli altri, occupando da subito l’aeroporto di Pratica di Mare e quindi Roma, inchiodando per mesi gli Alleati a Cassino e reprimendo duramente la resistenza nelle retrovie. Che fossero soldati tenaci e ben addestrati è senz’altro vero, ma la guerra è fatta anche di idee e il nazismo considerava i suoi parà uomini duri e fidati.

In difesa del monumento mancato ha preso posizione anche una parte dell’opinione pubblica, citando i tanti cimiteri militari in Italia e all’estero, dove riposano soldati di ogni paese. Da parte mia obietto che una cosa sono i sacrari e i cimiteri militari, altro invece i monumenti commemorativi, che per definizione ricordano un avvenimento o più spesso lo celebrano. I primi sono esercizi di “pietas”, gli altri risentono per forza dell’ideologia. Questo di Cassino doveva essere un monumento alla pace? Beh, pochi ricordano che il “cippo della pace” che in Sicilia ricordava il luogo dove fu firmato nel 1943 l’armistizio di Cassibile (fraz. di Siracusa) fu fatto sparire qualche anno dopo e non si è più trovato. I responsabili del gesto affermarono in seguito che quella lapide non esaltava la pace ma ricordava la resa incondizionata dell’Italia agli Alleati. Come si vede, nessun monumento è neutrale e la pace uno se la deve conquistare.

 

Fare i soldi comunque

Se cercate in rete “Proto Group” o “Proto Consulting” troverete tuttora una serie di siti pieni di comunicati stampa, notizie finanziarie, dichiarazioni ufficiali e altro. Eppure Alessandro Proto a suo tempo è stato arrestato per truffa, aggiotaggio e altri reati legati alla sua attività non tanto immobiliare quanto di consulenza finanziaria. Alessandro Proto ha venduto le ville delle star del cinema e del calcio, ha comprato quote di società quotate in borsa; ha amato donne bellissime e famose; si è presentato alle primarie di Berlusconi. Nella realtà Proto ha esercitato la sua fervida fantasia senza esser niente di tutto questo, ma inondando i giornali di mail e comunicati regolarmente ripresi anche dalla stampa che conta. Sembra assurdo, ma un ex venditore di enciclopedie porta a porta, nato e cresciuto nella periferia di Milano, è riuscito non solo ad aprire una piccola società immobiliare a Lugano – fin qui una storia comune a tanti giovani imprenditori del nord – ma a diventare un uomo potente, ricco, ricercato dai giornalisti, dagli imprenditori e dagli uomini politici per fornire consulenze ben pagate, vendere appartamenti di lusso e ascoltare i consigli dell’esperienza. Tutto questo però millantando credito, “sparando” notizie di acquisti in borsa da parte di cordate inesistenti e clienti arabi con nomi di fantasia e minacciando querele ai propri critici. A leggere le sue scorribande, sembra un film che riunisce Totò truffa , Zelig di Woody Allen e Prova a prendermi di Leonardo Di Caprio. Impeccabile in giacca e cravatta, sia lui che i suoi addestratissimi “Proto boys” riescono a far firmare contratti a tutti: imprenditori brianzoli, immobiliaristi lombardi, azionisti.

Solo che un bel giorno la CONSOB decide di vederci chiaro e il nostro amico finisce per un mese a san Vittore. Il magistrato inquirente non crede alle sue orecchie: i reati commessi non sussistono perché lui si è inventato tutto dall’inizio alla fine. Mitomania? No, era un sistema per fare i soldi e diventare potente nella Milano che conta. Un paradosso? Mica tanto: alzi la mano chi da giovane o da disoccupato almeno una volta non si è presentato a un colloquio di lavoro nell’ufficio di una multinazionale dal nome altisonante ma forse inesistente, accettando di fare il venditore di prodotti e servizi mai sentiti prima e sottoponendosi a un corso di formazione gestito in americanese. E scagli la prima pietra chi non si è mai fatto fregare da un bancario in giacca e cravatta sottoscrivendo fondi d’investimento bilanciati.

Certe strategie sono ben collaudate e in ogni società ci sono individui diabolicamente capaci di mettere a proprio agio l’interlocutore rassicurandolo e venendo incontro alle sue aspettative, che poi sono sempre le stesse: l’ascesa sociale, il benessere, il potere, il denaro, le donne. Quello che in questo caso è invece preoccupante è il mancato controllo delle fonti da parte dei giornalisti di professione. Passi per i gossip di rotocalco, tanto quello è un mondo di carta che si sfoglia dal parrucchiere, ma quando la notizia di una cordata straniera che acquisisce una quota di un’impresa italiana o multinazionale fa tremare la Borsa e sposta milioni di euro senza neanche che Proto sappia cos’è il Ftse Mib, possibile che i redattori del Sole24 Ore o del Corriere non svolgano indagini accurate e si bevano le balle di chi ha la faccia tosta per farle pubblicare senza repliche? Davvero è così facile trincerarsi dietro “il rispetto della privacy del mio cliente”, quando l’azionista in campo è addirittura un nome di fantasia cercato a caso nel web e chi replica al Corriere ha solo la licenza media? Possibile che una smentita sia – parola di Proto – una notizia data due volte?

Oggi si fa tanto parlare di fake news, ma se chi deve controllare le fonti non lo fa per pigrizia o per altri motivi, Proto non è la malattia ma il sintomo. E quando il nostro imprenditore propone un corso di formazione per i detenuti di san Vittore, perché nessuno controlla le sue credenziali? Gli stessi detenuti lo rivedranno un giorno fra di loro, ma come fratello. Possibile poi che un giornalista del calibro di Luca Telese sia cascato nel tranello e abbia accettato Proto come acquirente del suo giornale in deficit, assumendo anche altri giornalisti ma senza esigere che fossero pagati? In realtà di seduttori e parolai in Italia ne abbiamo avuti parecchi, anche in politica. Senza far nomi, è da quasi un secolo che alcuni personaggi si somigliano molto. Troppo.

Non a caso il nostro Proto cerca di avvicinare Berlusconi: in fondo la loro storia è simile, visto che il Cavaliere ha iniziato come cantante sulle navi da crociera, anche se l’estrazione sociale è diversa da quella dei ragazzi di periferia. E proprio questi ultimi saranno i più efficienti e spietati collaboratori del Proto, affiancati da giovani bocconiani e ragazze prese per strada dai gazebo di Amnesty International o Save the Children. Ogni mattina un’ora intera è dedicata alla loro formazione, e stanno solo a provvigione: il 20% su ogni contratto firmato e quando si tratta di vendere immobili di lusso si danno da fare, mentre il Capo si occupa solo dei clienti grossi e non si fa mai intervistare, attento invece a costruire la sua immagine e a mandare comunicati alla stampa, cosciente che una serata a Mediaset è roba da arrivisti di provincia. Diciamolo: nel profondo ammiriamo questo cinico avventuriero che spenna i ricchi e gli arricchiti e strapazza i figli di papà laureati alla Bocconi o alla City; in fondo nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino la metà dei personaggi cerca di fregare il prossimo e tutti imparano la lezione a proprie spese. Sia chiaro: finire nelle grinfie di gente simile non è piacevole, ma è bene che la gente impari anche a difendersi. Molti di noi si credono furbi ed esperti ma non lo sono affatto o lo sono solo nel proprio ambiente.

Dal libro sappiamo ora che è facilissimo – tramite agenzia – aprire una società commerciale a Lugano, ottenere un numero di telefono irlandese, o aprire una ditta a Londra con tanto di segretaria e conto alla Barclays Bank senza muoversi da casa: basta pagare. E a questo punto capirete l’origine di quegli strani numeri da cui partono offerte commerciali o peggio: sono scatole vuote ma anche macchine da guerra. Quanto agli abiti firmati dei manager e alle minigonne delle segretarie, ricordo sempre le battute di mia madre commerciante sui rappresentanti, visto che ci ha trattato per una vita. E tra i rappresentanti ci metteva anche il primo Berlusconi: milanese, elegante e sportivo, voleva vendere un prodotto ma non sapeva fare a meno del sorriso stirato e della cravatta stretta. Anche a vedere la foto pubbliche del nostro Proto, è difficile non capire che si tratta di un rappresentante o di un agente immobiliare, anche se potrebbe fare l’attore (e in fondo lo ha fatto).

Solo che lui in galera ci è finito sul serio, mentre qualcun altro finora è stato più fortunato. Ma – per quanto ne sappiamo – il nostro Proto ha ricominciato alla grande. E legge con attenzione tutto quello che si scrive su di lui.

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Io sono l’impostore. Storia dell’uomo che ci ha fregati tutti
di Alessandro Proto, Andrea Sceresini
Editore: Il Saggiatore, 2017, pp.194
Collana: La piccola cultura
Prezzo: € 16.00

EAN: 9788842823971
ISBN 9788842823971

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Eserciti finti

In alcune cerimonie civili e militari frequenti a Roma e provincia non è raro vedere rappresentanze paramilitari di associazioni di protezione civile o di ordini cavallereschi. L’occhio esperto distingue subito le copie dagli originali, ma la gente comune e persino gli amministratori locali ci cascano, e del resto questi figuranti spesso imitano formalmente l’ordinanza militare, con un accorto quanto ridicolo mix di gradi, uniformi e distintivi delle forze armate e dei corpi di polizia, per non parlare degli ordini cavallereschi con tanto di mantella, croci e altri simboli medievali, ma paralleli a quelli riconosciuti ufficialmente e quindi indipendenti dalle gerarchie. Posso testimoniare di aver parlato con un gruppo di Cavalieri Teutonici che ignoravano persino l’indirizzo del bailato romano, per non parlare degli ordini cavallereschi il cui unico scopo sociale è concederere onoreficenze dietro il versamento di un congruo contributo volontario. Altro discorso sono i gruppi di protezione civile che amano vestirsi da militari. Faccio parte di un’associazione d’arma riconosciuta dal Ministero della Difesa e più di una volta abbiamo fatto allontanare dal nostro settore rappresentanze di finti generali o di guerrieri della domenica in tuta mimetica. Presi in castagna, vantano sempre agganci internazionali: posso citare una fantomatica “Guardia di difesa costiera delle Nazioni Unite” priva persino di email e alcuni corpi sanitari noti anche per una serie di grane giudiziarie documentabili in rete. Infatti alcune di queste strane associazioni non si limitano al volontariato civile o alle cerimonie di piazza, ma mandano avanti anche operazioni finanziarie o producono in proprio documenti e onoreficenze, e in più possono accedere a contributi regionali di vario genere.

Ma limitiamoci a parlare di uniformi. Il Ministero della Difesa esercita un controllo ferreo sull’uso della divisa da parte dei militari in congedo e delle associazioni d’arma, evitando qualsiasi ambiguità. Non altrettanto può dirsi del Ministero dell’Interno e del Dipartimento per la Protezione Civile, ai quali afferiscono guardie giurate, volontari di protezione civile e assimilati. Si sta attenti a interdire alle polizie private l’uso di divise e distintivi troppo simili a quelle della Polizia di Stato e dei Carabinieri (ma non sempre, com’è facile vedere in una delle foto) ma per il resto si lascia carta bianca nella scelta delle uniformi e delle mostreggiature, con risultati di cui forniamo alcune pittoresche immagini. C’è di tutto: giubbe rosse, generali di corpo d’armata, rangers. Sarebbe ora che il Ministero degli Interni stabilisse una volta per tutte uno standard, cominciando p.es. dal colore delle camicie: negli Stati Uniti gli sceriffi di contea e i rangers guardaparco vestono con colori sul marrone chiaro, mentre le forze di polizia hanno camicie blu o comunque scure, pur nella differenza tra uno stato e l’altro. In ogni caso è ora di mettere ordine in queste pagliacciate tutte italiane.

 

Radioamatori: Una specie in estinzione

Il Radioamatore è una persona che, debitamente autorizzata, si interessa di radiotecnica a titolo puramente personale e senza scopo di lucro, che partecipa al servizio di radiocomunicazione detto d’amatore, avente per oggetto, l’istruzione individuale, l’intercomunicazione e gli studi tecnici“. G.U. n. 289 del 9/12/1992:

Nel 1995 i radioamatori italiani registrati erano 30.000, e ora? È dal 1995 che con l’avvento dell’internet c’è stato un calo drastico dei radioamatori. Prima dell’era della rete, l’unico sistema per potersi collegare e tenere uno stabile e facile collegamento senza spendere una lira in telefonate da e verso i cellulari era la radio (CB, VHF, UHF) (1), ma il rovescio della medaglia era una confusione generale e la mancanza di qualsiasi protocollo di trasmissione. Chi scrive ricorda i “baracchini”, radio abbastanza economiche in CB (la banda cittadina, senza bisogno di esami o patenti speciali), oggi usate quasi solo dai camionisti. Altro mondo invece quello dei radioamatori, che da sempre devono sostenere un esame presso il Ministero, hanno una regolare patente, un identificativo e sono obbligati a precise regole di comportamento, oltre a essere sempre a disposizione della Protezione Civile. Molti di loro con le radio ci hanno lavorato, quindi hanno una competenza specifica: prima c’erano le stazioni radiotelegrafiche dei porti, i marconisti sulle navi, gli operatori radio delle ambulanze, tutto un mondo superato dalla telefonia cellulare, dalle linee digitali e dal web. Oggi a un giovane non verrebbe mai in mente di spendere migliaia di euro per le apparecchiature, le antenne e le autorizzazioni richieste a un radioamatore, visto che può fare lo stesso con la normale chat di un iphone di seconda mano. E infatti, ad ascoltare le conversazioni dei radioamatori, si nota subito l’età matura se non avanzata di chi si collega la sera. Per parlare di cosa, poi? Per la maggior parte le comunicazioni sono tecniche: si usano sigle (QSO, QRP, etc.) (2), si parla di antenne, impedenze, frequenze, ponti radio; ma spesso si chiacchiera. Ad ascoltarle, le conversazioni tecniche sono utili e fanno da sempre parte della cultura radiantistica, ma le altre sono poco interessanti e tradiscono un basso livello culturale. Meglio a questo punto un web forum o un social. Ma neanche i radioamatori sembrano soddisfatti dell’attuale situazione. Cito da un loro forum:

“Questo pomeriggio facevamo un qso a 145,500 con un amico che mi ha visto crescere sia in sezione che come radioamatore. parlavamo dei nuovi sistemi digitali fm in 2 metri (c4fm, fusion dstar), che stanno creando un isolazionismo per chi non ne possiede una radio. se non hai una radio con questi sistemi (per me del tutto inutile tanto non ce mai traffico in 2 metri nei canali normali), sei tagliato totalmente fuori da questo mondo. il mio amico, radioamatore di vecchia generazione come me, mi ha confessato con tutta sincerità che non trova più lo stimolo di andare in sezione se non si parla di radio, esperienze e cose che accrescono la mente dei nuovi e vecchi radioamatori. brutta cosa. lui è stato Presidente di sezione per 2 mandati, e ne abbiamo avute esperienze assieme sia belle che brutte. suo papà era radioamatore nel 1960, ed è stato socio fondatore della sezione. Noi (i radioamatori) saremo una dinastia in via di estinzione come i dinosauri, spazzati via da nuovi modi di comunicare tra i giovani che cercano il dinamismo della comunicazione.”

I radioamatori hanno comunque una lunga storia. La loro prima epoca è quella dell’autocostruzione. All’inizio del ‘900 un manuale spiegava, in appena 100 pagine, come costruirsi un apparato trasmettitore e un apparato ricevitore per comunicare a distanze di parecchie centinaia di metri a linea di vista. In ogni caso per diversi decenni il radioamatore sapeva assemblare e riciclare parti di altre radio, adattare componenti, e in ogni caso aveva anche buone cognizioni di matematica. Si trasmetteva non sempre in voce, ma più spesso in Morse. La successiva rivoluzione tecnologica (dalle valvole ai transistor e poi ancora ai circuiti integrati stampati) fa sparire già dagli anni ’70-80 del secolo scorso le autocostruzioni e la sperimentazione: era ormai difficile intervenire su sistemi chiusi e assemblati in fabbrica; al massimo si poteva lavorare sugli accessori e sulle antenne. Gli apparati infatti diventano sempre più complessi e costosi, ma più potenti e performanti. Il radioamatore non ha più bisogno di elevate competenze tecniche, e neppure di conoscere il codice Morse. Il boom dei baracchini amplia la base dei radioamatori, ma – come nel turismo – alla quantità non si accompagna la qualità. Oggi infine siamo arrivati all’epoca della SDR, software defined radio. Gli apparati diventano dei computer che convertono la radiofrequenza in un flusso di dati (e viceversa in trasmissione), in modo da lavorare (filtrare, decodificare, ecc.) quasi esclusivamente su quel flusso. In un apparato, il lavoro che prima veniva fatto da un gran numero di componenti elettronici viene fatto ora da un software, con un risparmio notevole sulle parti fisiche e sul lavoro. In pratica, il radioamatore diventa concettualmente un informatico-matematico, e lo scopo non è più il mettere in contatto persone ma il trasferire dati fra computer (dati in cui ci può anche essere traffico voce). Unica discriminante con l’informatico: le antenne, che da sempre hanno acquisito le forme più diverse in funzione delle radiofrequenze. In più, un vantaggio esclusivo: per comunicare non c’è bisogno di un’infrastruttura esterna, e infatti i radioamatori garantiscono le comunicazioni anche quando salta la rete telefonica (si è visto negli ultimi terremoti). Quanto all’interoperabilità con l’internet, per ora è un valore aggiunto.

Note:

 

 

 

Achille Nero

La pratica cinematografica di fare interpretare dei personaggi di un film o di una serie televisiva ad un attore di un’etnia diversa non risparmia neanche l’Iliade di Omero: nel 2018 Netflix e la BBC trasmetteranno Troy: Fall of a City, rifacimento televisivo del celebre poema greco, con un Achille interpretato da David Gyasi. attore afroamericano già noto per i suoi notevoli ruoli in Interstellar e ancor prima in Cloud Atlas. Nella polemica seguita all’evento, sono stati confusi due piani diversi anche se correlati: la reinterpretazione del mito e il suo adeguamento alle differenze culturali subentrate al testo classico. Per il primo punto, nessuno può e deve dire niente: miti millenari sono stati reinterpretati centinaia di volte e con successo da artisti, scrittori e registi. E visto che si parla del colore della pelle, cito Orfeo negro (1959), lo stupendo film scritto da Albert Camus, dove il mito di Orfeo ed Euridice viene reinterpretato e ambientato nel carnevale di Rio. Per il secondo punto, il politically correct, la questione in realtà non è nuova. I poemi omerici hanno sempre goduto di grande popolarità, ma nella Francia del re Sole e del barocco di corte era imbarazzante seguire le gesta di sovrani che scannano montoni davanti all’ospite e guerrieri che si coprono di insulti. Questo urtava le convenzioni sociali del tempo, anche se non era colpa di Agamennone se era vissuto nell’età del bronzo, quasi tremila anni prima. Risultato? Le traduzioni in francese dell’epoca sono un capolavoro di diplomazia. Ma ancora quando facevo io il liceo si sorvolava sull’episodio di Telemaco che cerca di rendersi indipendente da Penelope, perché il linguaggio di un figlio verso sua madre era ritenuto irrispettoso! E sempre in quei tempi, nell’Eneide televisiva firmata da Franco Rossi (1971) all’unione del maturo Enea con la giovane Lavinia viene affiancata una sub-trama di un coetaneo che corteggia la fanciulla: una love story ipocrita che mette in secondo piano il rapporto fra Enea e Lavinia e la loro differenza di età. In realtà anche la vergine Maria era giovanissima, visti i costumi dell’epoca, ma questo il pubblico televisivo non l’avrebbe accettato.

E passiamo dunque al nostro Achille Nero. Ovviamente tale non poteva essere, visto che era miceneo. Fosse stato il capo dei Garamanti o dei Numidi o degli Etiopi (popoli africani già noti a Omero), allora era diverso. Ma ammettiamo pure che l’Iliade non è un documento storico, quindi del testo classico uno può farne quello che vuole: per un jazzista è normale improvvisare variazioni su un tema di Bach, il quale del resto faceva lo stesso con la musica del suo tempo. Il vero problema di Achille Nero è piuttosto la debolezza del progetto: la motivazione sembra tutta commerciale, allo stesso modo in cui anche la nostra pubblicità ora è piena di colori alla Benetton. Non saranno i lineamenti somatici di un attore ad interferire con gli amori, intrighi, tradimenti e battaglie del un kolossal a episodi, non per nulla annoverato come Historical fiction – Fantasy, girato a Città del Capo, in Sudafrica, impegnato a offrire il racconto, e non storia, della presa di Troia vissuta attraverso lo sguardo dei vari protagonisti, con il punto di vista della famiglia reale troiana. Se veramente avesse voluto reinterpretare il mito, il regista avrebbe potuto rappresentare sia il re Menelao che la bellissima Elena con la pelle scura, Paride essendo invece adatto a simboleggiare la prepotenza dello sfruttamento coloniale europeo. A quel punto la guerra di Troia sarebbe stata la stupenda metafora di un popolo che si riprende quello che altri gli hanno espropriato con la forza e con l’inganno. Ma questo è solo un suggerimento letterario. Purtroppo Bertolt Brecht non è più di moda.