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Cantate un canto nuovo

“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

Nella mia parrocchia non conoscono il suono di un organo: a messa solo chitarre ed ora pure un bongo, percosso da un ragazzotto di provata fede. Sempre meglio di una parrocchia vicina, dove i neocatecumenali cantavano rumorosamente e in modo abominevole. E a questo punto mi chiedo a che serve il Pontificio Istituto di musica sacra e perché non chiuderlo (1). Aggiungo pure di far parte di una schola cantorum sfrattata da una basilica romana dal nuovo parroco, accolta ora in un’altra basilica e impegnata per tutto l’anno nelle liturgie solenni. Amo dunque la musica sacra, so cantare e ho un minimo di competenza in un paese dove pochi sanno leggere uno spartito e la scuola non educa alla musica. Detto questo, andate a messa la domenica in qualsiasi parrocchia romana e sentite cosa cantano e come: è un confuso repertorio di musica pop, canzonette, corali simil-luterani, brani di musical, salmi e inni vari, ora imparati a memoria, ora letti su un libretto promosso dalla CEI. I singoli brani sono numerati, ma non seguono l’anno liturgico (come nel Liber usualis) (2), la sequenza la decide di volta l’officiante, senza comunque ricorrere a quei tabelloni coi numeri che si vedono nelle funzioni dei protestanti. Ma quelli almeno sanno cantare: sono disciplinati, si sentono parte di una comunità e il corale protestante è schematico quanto facile da intonare, vista la sua origine popolare. Lutero aveva visto giusto e capiva di musica. La tradizione sia cattolica che delle chiese orientali invece previlegiava il canto gestito da un coro separato dall’assemblea dei fedeli, che comunque partecipava nelle formule responsoriali e ha localmente elaborato un ricco patrimonio di inni popolari, spesso legati al culto mariano. Tutto questo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) (Atti: Sacrosanctum Concilium, in sigla SC) e alla sua ossessione per la partecipazione. Senza addentrarci in una discussione teologica, ci limiteremo a constatare che l’evoluzione della musica liturgica è imprescindibile dalla riforma della liturgia, e in questo gli atti del SC sono fondamentali. Il principio di partecipatio actuosa (SC 14) è infatti una pietra miliare della riforma liturgica post-conciliare, anche se il primato sulla partecipazione era stato richiamato anche da documenti precedenti (3). Ripeto: non è il caso di entrare in una discussione teologica che richiede ben altra competenza. Mi limito pertanto a dire che, per quanto riguarda la musica che deve accompagnare la liturgia, nella pratica la partecipazione si è appiattita sull’omologazione e si è finito per impoverire ciò che il Concilio voleva invece arricchire. Nella pratica corrente il canto assembleare è divenuto la “traduzione simultanea” della partecipazione attiva. Tutto ciò che lo esclude si configura quindi come elemento in sé negativo perché in contraddizione “a priori” con  tale principio, quasi fosse un diaframma tra l’assemblea e l’officiante. La debole riflessione ecclesiale ha fatto il resto, contribuendo a determinare un progressivo degrado della prassi liturgico-musicale. Non cantare la liturgia, usando solo musica di consumo piuttosto che musica sacra, rifiutare di educarsi o di educare gli altri nella tradizione della Chiesa e nelle sue direttive, mettendo poco o nessuno sforzo per l’edificazione di un programma dignitoso di musica sacra è a mio parere un atteggiamento colpevole e anti-intellettuale. E quello che è più pericoloso, la liturgia ha subìto una deriva dalla spiritualità verso l’autoesaltazione emotiva, cosa che peraltro le chiese evangeliche sanno fare molto meglio, mentre in realtà i giovani cattolici  sono oggi i primi a cercare la spiritualità, un segnale preciso da non sottovalutare. Ma quando il mio parroco, giovane e capace pastore di anime, nella messa domenicale ha testualmente affermato che “la messa è un balletto”, invitando dunque i fedeli all’animazione della liturgia, nessuno gli ha replicato che la liturgia non è un musical, né un happening che celebra sé stesso, ma dovrebbe essere animata dalla fede e dalla celebrazione collettiva del mistero del sacramento, senza ricorrere a contributi esterni legati allo spettacolo più che alla spiritualità.

Ma le premesse erano diverse: si vedano in SC le disposizioni relative alla musica sacra e al suo rapporto con la liturgia. Le indicazioni generali dei paragrafi 114 e 115 (Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della Musica sacra […] Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari […] ai musicisti e ai cantori, e in primo luogo ai fanciulli, si dia anche una vera formazione liturgica) sono suggellate dal paragrafo 116, intitolato specificamente Canto gregoriano e polifonico. Il paragrafo recita alla lettera “a)”:

La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.

Malgrado le chiare indicazioni conciliari, nella fase successiva le conferenze episcopali hanno invece previlegiato un repertorio musicale estraneo al latino e al gregoriano, con forme vicine al pop e alla musica leggera, mettendo in secondo piano la cura del repertorio gregoriano che, pur ritenuto tradizionalmente solido, è invece scomparso dalla scena liturgica. Sono state dunque imposte nella pratica liturgica idee estranee al testo conciliare, troppo spesso con la complicità di una mancanza di vigilanza da parte del clero e della gerarchia ecclesiastica. Il patrimonio della musica sacra, che il Concilio aveva chiesto venisse preservato, non solo non è stato preservato ma è stato combattuto; e questo certamente contro il Concilio, che aveva chiaramente affermato ben altro. Purtroppo il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione puramente ideologica fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare del tutto, al punto di farne un estraneo in casa propria. In realtà, se pur tradizionale, il canto sacro non è esclusivamente il gregoriano, né è intangibile. E se la risposta ideologica è stata una congerie musicale non strutturata e di basso livello artistico, ancora più assurdo è che ancora nessuno abbia insegnato all’assemblea dei fedeli il canto corale. Eppure, dal Concilio a oggi vescovi e parroci hanno avuto ben cinquant’anni di tempo.

Ma scorriamo il canzoniere della mia parrocchia, ufficializzato dalla CEI: sono 170 pagine con il testo di 246 tra inni, salmi, canzoni e canzonette. La musica non c’è e s’impara a memoria, tanto nessuno la saprebbe leggere. Il legame armonico tra le parole e la musica è spesso casuale, segno che nessun musicista ha mai affrontato il problema. Le traduzioni degli inni dal latino sono sciatte, forse opera di un prete straniero: in un Sanctus stile spaghetti western “Hosanna in Excelsis” diventa un banale “Osanna nelle altezze”. Ma del Sanctus esiste anche una versione country , accompagnata da battiti delle mani e movimenti sincronizzati delle braccia. Partecipazione, d’accordo, ma a che cosa? Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, da cui “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso” (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003) (4). E proprio questo testo ci ricorda che la Santa Sede si è sempre occupata del problema, molti essendo i documenti dedicati alla musica sacra, dalla “Docta Sanctorum Patrum” (1324) di Giovanni XXII alla “Annus Qui” (1749) di Benedetto XIV, giù fino al Motu Proprio “Tra le sollecitudini” (1903) di San Pio X, la “Musicae Sacrae Disciplina” (1955) di Pio XII, e appunto il Chirografo sulla Musica Sacra (2003) di cui sopra. Interessanti poi gli interventi di papa Benedetto XVI, vista la sua reale competenza musicale: servirebbe un lungo articolo solo per darne una sintesi. Qui basta notare che il pensiero di Ratzinger – grande teologo e grande pontefice – non si limita alla musica liturgica, ma riconosce la musica come espressione dell’anima dell’uomo. Il suo non è un elogio formale e scontato, ma un contributo importante per lo sviluppo della dottrina sulla musica. Egli ricorda come con la riforma conciliare si fosse rinnovato l’“antichissimo contrasto” tra i sostenitori della musica sacra nella liturgia e i fautori della partecipazione attiva dei fedeli nelle celebrazione della fede con la loro maggiore semplicità, anche musicale. Proprio la liturgia celebrata da San Giovanni Paolo II in ogni continente ha mostrato “tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico” e, insieme, che la “grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa”. E con un valore, soggiunge, senza paragoni:

Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa “ … L’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano” (dal discorso del 4 luglio 2015 tenuto a Cracovia)

Un compendio è accessibile in un suo libro intitolato appunto: Sulla musica (5).

E passiamo a papa Francesco. Non è un intenditore come Ratzinger, ma nel 2017 scrive testualmente (6) :

L’incontro con la modernità e l’introduzione delle lingue parlate nella Liturgia ha sollecitato tanti problemi: di linguaggi, di forme e di generi musicali”:.. “Talvolta è prevalsa una certa mediocrità, superficialità e banalità, a scapito della bellezza e intensità delle celebrazioni liturgiche. Per questo i vari protagonisti di questo ambito, musicisti e compositori, direttori e coristi di scholae cantorum, animatori della liturgia, possono dare un prezioso contributo al rinnovamento, soprattutto qualitativo, della musica sacra e del canto liturgico”.

Tutto bene allora? No, se rileggiamo un capoverso iniziale:

emerge una duplice missione” per la Chiesa: da una parte, si tratta “di salvaguardare e valorizzare il ricco e multiforme patrimonio ereditato dal passato, utilizzandolo con equilibrio nel presente ed evitando il rischio di una visione nostalgica o archeologica” … “d’altra parte, è necessario fare in modo che la musica sacra e il canto liturgico siano pienamente ‘inculturati’ nei linguaggi artistici e musicali dell’attualità; sappiano, cioè, incarnare e tradurre la Parola di Dio in canti, suoni, armonie che facciano vibrare il cuore dei nostri contemporanei, creando anche un opportuno clima emotivo, che disponga alla fede e susciti l’accoglienza e la piena partecipazione al mistero che si celebra”.

Che vuol dire “visione nostalgica e archeologica”? Gregoriano? Più chiara la tesi dell’inculturazione, cara ai Gesuiti, dalle cui file papa Francesco proviene. Come si vede, più preoccupato che appassionato dal tema, egli auspica comunque la qualità. Quanto all’inculturazione, essa significa – se compresa correttamente – che noi dovremmo introdurre la cultura di ogni popolo nella liturgia. Ma non nel senso che la liturgia e la sua musica debbano divenire il luogo dove esaltare una cultura secolare. Essa è un luogo dove la cultura, ogni cultura, deve essere trasportata a un altro livello e purificata. E qui entriamo nel vivo: nel canto gregoriano come in quello delle chiese orientali – ma stavo per dire anche nel corale luterano – la parola di Dio si fonde indissolubilmente con la musica, entra in un’altra dimensione, si dispiega. La natura liturgica del canto sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise, laddove nella musica di consumo (ma non nella musica popolare) il legame tra il testo e la forma musicale resta labile, né ha pretesa alcuna di trascendenza..

Chi deve cantare è un problema successivo. Ma se decidiamo che a cantare debba essere solo l’assemblea, a questo punto va condotta una seria alfabetizzazione musicale e soprattutto il clero deve dare più spazio ai musicisti, gli unici che possono indicare la strada per superare l’attuale degrado della musica liturgica. Detto questo, concludo la mia analisi con alcuni suggerimenti pratici, con la speranza che in parrocchia se li leggano e se ne discuta insieme:

  1. Se di musica si parla, vanno coinvolti i musicisti. E’ assurdo che coloro che hanno competenza e amore per la musica siano gli ultimi ad essere ascoltati, come se il loro parere non fosse invece fondamentale.
  2. A un volontario di coro parrocchiale consiglierei di provare a cantare tutti i quasi 250 canti contenuti nel libro degli inni, con la sola voce, senza chitarre o percussioni. Se ha un minimo di sensibilità musicale scarterà tutti quelli dove parole e musica mal si accordano, seguiti da quelli con testi troppo concettuali (quindi poco cantabili) o persino ambigui (p.es., Te lodiamo Trinità) e infine tutto quanto è Sanremo con le parole cambiate.
  3. Il canto liturgico deve mantenere un minimo di solennità, non è un musical.
  4. Com’è unitaria la liturgia, unitario dovrebbe essere anche il canto liturgico. Invece spesso si cantano in sequenza brani musicali diversi per stile e privi di un vero legame organico. L’insieme non è strutturato.
  5. Nel repertorio attuale, spesso gli intervalli tra le note sono spesso troppo ampi. Il corale luterano si canta con naturalezza perché il motivo è contenuto anche in una sola ottava e tra una nota e l’altra l’intervallo è minimo, mentre le canzoni in stile Sanremo sono riservate a cantanti professionisti, capaci di passare da un’ottava all’altra senza steccare e di passare dal basso all’acuto con naturalezza. Ma sono atleti della voce.
  6. Un’iniziativa elementare ma pratica consiste nel selezionare in ogni parrocchia almeno una voce guida. Una persona che abbia una bella voce, sappia cantare e leggere uno spartito e intoni per primo il canto, seguito dall’assemblea. E che sia capace anche di dare quelle indicazioni minime per cantare insieme in modo decente, visto che la pratica del canto corale è decaduta anche nella scuola primaria. Chiediamo troppo?

NOTE:

 

 

 

Che macello i sentimenti!

Vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2017, l’ungherese Corpo e Anima  arriva ora nelle sale italiane. Le prime, bellissime inquadrature mostrano un bosco innevato dove un cervo e una cerva si corteggiano con delicatezza; mentre subito dopo siamo invece proiettati nella brutale realtà di un mattatoio per il bestiame bovino, una struttura industriale dove Endre, il direttore amministrativo, deve affrontare due grane: l’eccessiva precisione di Mària, giovane ispettrice al controllo qualità, e il furto di una sostanza illegalmente usata per la monta dei tori. La polizia chiuderebbe pure un occhio, a patto che l’inchiesta interna sia affidata a una psicologa aziendale di fiducia. Ogni lavoratore verrà quindi sottoposto a un colloquio con la specialista, e qui la sorpresa: Endre e Mària hanno sognato entrambi e fino all’ultimo dettaglio la scena iniziale della coppia di cervi, e continueranno a farlo anche in seguito. Entrambi hanno problemi di comunicazione: Endre è un uomo maturo e ha un braccio paralizzato, Mària invece è giovane ma quasi autistica nelle reazioni sociali, nelle quali si trincera dietro un atteggiamento ipercontrollato. I due però riescono stranamente a comunicare nel profondo in modo onirico, lentamente avvicinandosi come i cervi nella sequenza iniziale, poi riproposta e sviluppata in montaggio alternato. I problemi sorgono quando si deve passare ai fatti: Endre non se la sente di affrontare una relazione nuova (in una scena appare di sfuggita una sua figlia, in un’altra egli fa sesso con una donna di cui nulla sappiamo), mentre Mària è un disastro: la sua personalità è disturbata al punto che ancora va da un psicologo dell’infanzia e i suoi tentativi di diventare una donna seducente e piacevole sono goffi e attirano i commenti degli operai dello stabilimento, uno dei quali – l’attor giovane – fa comunque ingelosire Endre. Il finale corre verso la tragedia: Mària, non sentendosi accolta, tenta il suicidio, ma viene salvata proprio da una telefonata di Endre, con cui finalmente si unirà anima e corpo. Ma a quel punto i due non avranno più bisogno di sognare insieme.

Il film è sicuramente ben scritto e ben diretto da Ildikó Enyedi (n. 1955), regista e sceneggiatrice già vincitrice a Cannes della Caméra d’or nel 1989 per Il mio XX secolo. Né è la prima regista ungherese famosa: basti pensare a Marta Meszàros. La dimensione onirica dei sentimenti non è una novità assoluta nel cinema, p.es. la commedia Ho sognato l’amore (In my dreams,  2014 diretto da Kenny Leon), ma qui la vicenda si articola su un registro poetico. I punti deboli del film sono invece una certa lentezza iniziale e un’insistenza sulla macellazione del bestiame, slegata di fatto dalla vicenda. Fa da contrappunto alle poetiche scene con i cervi, ma non è una metafora, come lo era invece in Selvaggina di passo di Fassbinder (1972). In più, nel film alcuni spunti sono lasciati a metà: la figlia grande di Endre fa un’apparizione fugace, né sappiamo chi è quella donna nel letto di Endre e se ci viene spesso. E come mai Mària ha avuto un ritardo nello sviluppo della personalità? Di lei non sappiamo nulla, anche se molto s’intuisce dal suo comportamento ossessivo. Comunque il film è originale e l’attrice nella parte di Mària (Alexandra Borbély) è molto espressiva, visto il graduale sviluppo del suo personaggio. Géza Morcsányi (Endre) è invece più noto in patria come drammaturgo e professore universitario.

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Corpo e anima
Titolo originale: Testről és lélekről
Regia: Ildikó Enyedi

Interpreti e personaggi

Morcsányi Géza: Endre
Alexandra Borbély: Mária
Zoltán Schneider: Jenö
Réka Tenki: Klára
Ervin Nagy: Sanyi
Éva Bata: Jutka
Tamás Jordán: Pediatra di Mária
Pál Mácsai: Investigatore
Júlia Nyakó: Rózsi
Itala Békés: Zsóka
Nóra Rainer-Micsinyei: Sari
Attila Fritz: Peti
Vince Zrínyi Gál: Bela

Paese di produzione Ungheria
Anno 2017
Durata 116 min

Sceneggiatura Ildikó Enyedi
Produttore Ernő Mesterházy, András Muhi, Mónika Mécs
Casa di produzione Inforg-M&M Film Kft.
Distribuzione (Italia) Movies Inspired
Fotografia Máté Herbai
Montaggio Károly Szalai
Musiche Ádám Balázs
Scenografia Imola Láng

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Quando un sottomarino fa acqua

Il 15 novembre 2017 il sottomarino ARA San Juan della Marina argentina perde i contatti con la base navale di Ushuaia, in Mar del Plata. Da quel momento inizia una frenetica ricerca del battello, ostacolata dalle proibitive condizioni meteo nel sud Atlantico. È una serie di false tracce, dichiarazioni contraddittorie e speranze mal riposte, finché la dura realtà emerge il 28 novembre, quando la Marina argentina rivela la causa della scomparsa del sommergibile. L’ultimo messaggio inviato dal San Juan il 15 novembre avvertiva: “Acqua è entrata dallo snorkel (la presa d’aria, ndr.) nella sala delle batterie elettriche e questo ha causato un cortocircuito e un principio di incendio. Procediamo in immersione con metà potenza. Vi terremo aggiornati”. Ma è l’Organizzazione del Trattato di proibizione totale dei test nucleari (Ctbto), integrata nel sistema dell’Onu, a riferire che due sue stazioni idroacustiche hanno rilevato “un evento impulsivo subacqueo avvenuto alle 13.51 GMT del 15 novembre” a una latitudine di -46,12 gradi e longitudine di -59,69 gradi. L’ultima localizzazione del sommergibile è la zona del Golfo San Jorge, a 268,5 miglia dalla costa argentina, 30 miglia dall’ultima posizione nota (1). Di sicuro dopo quel messaggio del 15 novembre non saprà più nulla del battello e dei 44 militari dell’equipaggio, tra cui la prima donna nella storia della Marina Argentina, Eliana Maria Krawczyk.
Questa la cronaca. Cerchiamo ora di capire cosa può essere successo, valendoci di fonti specializzate. Intanto il battello: classe TR-1700, varato in Germania nel 1983 ed entrato in servizio nel 1985 per la Marina argentina (ARA) con la sigla S-42, il San Juan era un classico battello a propulsione mista diesel /elettrica, 66 metri di lunghezza, 2116 tonnellate di dislocamento, 2264 in immersione (2). I motori diesel vengono usati normalmente in emersione, mentre quelli elettrici, non consumando aria, assicurano il movimento in immersione. Gli accumulatori vengono ricaricati dai motori diesel in modo analogo alle attuali macchine a motore ibrido.
Quel giorno il San Juan navigava sicuramente in immersione, le condizioni del mare in superficie essendo proibitive: vento oltre i 45 nodi e onde anche di 9 mt. E siccome il moto ondoso decresce con la profondità, non c’era motivo per navigare in superficie e venir sballottati come un tappo. E infatti il contatto radio è possibile solo se l’unità naviga in superficie o comunque con l’antenna oltre il pelo dell’acqua. Ma torniamo all’ultimo messaggio: “l’acqua è entrata dallo snorkel nella sala delle batterie elettriche e questo ha causato un cortocircuito e un principio di incendio. Procediamo in immersione con metà potenza”. Lo snorkel (dal ted. Schnorkel, trachea) è un lungo tubo di presa d’aria esterna collegato a una pompa, che serve sia al ricambio dell’aria che all’alimentazione dei motori diesel, che dell’aria non possono fare a meno. Navigando almeno a quota periscopica lo snorkel viene attivato, altrimenti la valvola di testa è chiusa ermeticamente. A sentire i tecnici, l’acqua può anche entrare nello snorkel, ma mai con effetti devastanti. Lo snorkel ha infatti almeno tre valvole: una in testa della canna (head valve) per prevenire l’ingresso delle ondate – è una sorta di boccaglio – e due in prossimità dello scafo resistente per resistere alla massima quota. Dopo la canna in genere c’è un sistema di raccolta per evitare che l’acqua entrata possa iniziare a scorrere lungo le condotte, sistema che dovrebbe avere delle sicurezze che fanno chiudere le valvole resistenti. La valvola di testa ha due contatti elettrici che in acqua vanno in corto e chiudono automaticamente la valvola. Se il battello scende sotto la quota di snorkel il valvolone si chiude e a bordo se ne accorgono subito: il diesel è in funzione pomperà l’aria dall’interno del battello, creando un’improvvisa depressione. Poca acqua può anche entrare se il mare è in tempesta, ma viene raccolta in un apposito pozzetto che poi viene esaurito con pompe di drenaggio. Ma se il valvolone di testa ha un difetto meccanico o elettromeccanico, allora di acqua ne entra tanta e rapidamente. Nel caso del San Juan la reazione dell’equipaggio può essere stata tardiva: il messaggio radio parlava di acqua passata dallo snorkel ed entrata nella sottobatteria di prora, provocando un principio di incendio. Non è chiaro se l’incendio si è sviluppato nel locale o sugli interruttori di sicurezza, né è chiaro se le batterie avessero perso di potenza prima ancora di andare in corto a contatto dell’acqua salata. Perché infatti risalire a quota snorkel con quel mare se non per dover ricaricare gli accumulatori coi motori diesel? Credevano quindi di aver arginato il problema, poi qualcosa è andato storto. Il vano batterie è per ovvii motivi ben isolato, quindi suggerisco l’ipotesi di una progressiva perdita di potenza o un’avaria grave alle batterie precedente alla manovra di risalita e all’ingresso dell’acqua dallo snorkel, che ha mandato tutto in corto producendo gas tossici (cloro, idrogeno). Questo può aver paralizzato la reazione dell’equipaggio: anche un’avaria al quadro di propulsione (che smista l’energia elettrica delle batterie e dei generatori) doveva comunque permettere l’emersione di emergenza (nel San Juan ad aria, a idrazina nei battelli più moderni. Si tratta di una sostanza che a contatto con l’acqua sviluppa gas e gonfia i cassoni). Non solo: ogni battello è dotato di più di un dispositivo di sicurezza capace di comunicare in caso di avarie posizione o comunque lanciare un SOS. Non c’era la boa EPIRB, che si stacca automaticamente e lancia un segnale satellitare di soccorso, ma doveva esserci almeno il trasmettitore subacqueo di emergenza, che si attiva manualmente o automaticamente e funziona a batteria anche per 10 giorni. Ma il vero problema è che il battello, ormai senza energia elettrica e/o appesantito dall’acqua entrata, quindi con le pompe di esaurimento e gli impianti per l’emersione di emergenza pressoché bloccati e un’aria interna degradata da gas, fumo e fiamme, a quel punto è andato a fondo con tutto l’equipaggio. Non esiste mai una sola causa e i nostri sommergibilisti sono addestrati in modo maniacale agli interventi di emergenza, in modo da sviluppare automatismi comportamentali. L’emersione rapida è possibile se il battello è dotato di un impianto di esaurimento rapido delle casse zavorra con funzionamento manuale e non solo elettrico, e comunque la manovra manuale è lenta, sempre che ci sia il tempo di attuarla. Sicuramente è mancata la propulsione, un grande aiuto per tornare verso la superficie, forse per i danni dell’incendio o forse per l’allagamento delle altre sottobatterie. La rotta era al limite della piattaforma continentale, ma l’implosione è avvenuta a una profondità relativamente bassa (388 mt.), causando la morte istantanea di tutto l’equipaggio fino a quel momento sopravvissuto.
Ma passiamo dunque alle batterie e alla loro presunta combustione senza fiamma. Il San Juan aveva subito tra il 2008 e il 2014 una revisione, eseguita dai cantieri argentini Cinar di Buenos Aires, un’azienda statale. Furono sbarcati e revisionati completamente o sostituiti i quattro motori diesel, il motore elettrico di propulsione e i 960 elementi delle batterie. Ma per permettere lo sbarco degli elementi di grandi dimensioni che non potevano passare dai due portelli d’imbarco esistenti a bordo, durante i lavori fu necessario tagliare letteralmente in due lo scafo del San Juan che venne poi nuovamente saldato. Come si può facilmente immaginare, visto che i sottomarini sopportano forti sollecitazioni, non sono lavori che può fare un cantiere qualsiasi, in un paese afflitto oltretutto da una lunga e devastante crisi economica e aziendale. Un’indagine del ministero della Difesa argentino ha dimostrato poi che la Marina del paese ha commesso violazioni nelle regole per l’acquisto delle batterie: i rappresentanti della Marina non avevano seguito le norme regolamentari per la riparazione del sottomarino e la sostituzione delle batterie, e l’acquisto delle batterie era stato gestito nell’interesse di alcuni fornitori. I risultati di questa indagine coincidono con i dati della Gestione generale del controllore dell’Argentina, che conferma la presenza di irregolarità. Anche i tecnici di controllo hanno scoperto che, a causa del ritardo del processo di acquisto, sono state acquistate batterie scadute. Secondo informazioni dei portali tedeschi BR Recherche e ARD-Studio Südamerika, due aziende tedesche si sarebbero accaparrate la sostituzione dei dispositivi pagando delle tangenti e installando prodotti di qualità scadente per risparmiare. In occasione di una revisione completa del “San Juan” conclusasi nel 2011, la Ferrostaal e la EnerSys-Hawker avevano ottenuto un contratto per la consegna di 964 celle per un importo di 5,1 milioni di euro. Secondo quanto indicato da alcuni politici argentini, è praticamente certo che le due aziende tedesche abbiano pagato delle tangenti per ottenere quella commessa. Un’accusa depositata nel 2010 in tal senso era finita in un insabbiamento. Riguardo alla qualità della merce consegnata, ecco il commento ufficiale: «Sussiste il sospetto che le batterie non fossero, in parte o per niente, della qualità che avrebbero dovuto essere … non sappiamo nemmeno da dove venissero, se dalla Germania o da un altro Paese». Purtroppo il prezzo l’hanno pagato i marinai.

NOTE

 

 

La fine del catechismo

Trovo strana ma tutto sommato molto italiana l’inversione di quest’estate: in pochi giorni le ONG diventano paracriminali, mentre ora in Libia arruoliamo i contrabbandieri come guardie di frontiera. In più, qualche africano neanche emarginato ma solo ingrato e sciagurato ce la mette tutta per finire sui giornali, mentre la sindaca di Roma pensa di risolvere in due giorni una situazione vecchia di anni. Definisco molto italiano questo modo di fare perché i nostri politici sono velisti da regata, pronti tutti a sfruttare il vento in vista delle elezioni. Ed essendo ormai in perenne campagna elettorale, l’allenamento è continuo. E siccome si pensa che i voti li prenderà chi sarà capace di frenare l’immigrazione dall’Africa, meglio ancora se musulmana, il calcolo viene prima dell’ideologia, sperando che nessun elettore si accorga che in politica l’originale è meglio della brutta copia.

Perché parlo di catechismo? Col termine intendo un insieme dottrinale di concetti enunciati con chiarezza – quindi comprensibili – e ribaditi di continuo, in linea con la tradizione dei cristiani sociali e del vecchio partito comunista. Ma se ai concetti non si accompagna un’adeguata analisi teorica, tutto resta infine un insieme di frasi fatte e come tale viene ripetuto alla nausea dai mass-media. In più c’è il problema di qualsiasi politica: il passaggio dall’idea alla realizzazione concreta nel sociale. Faccio qualche esempio: “La società futura sarà multietnica e multiculturale” ; “lo straniero ti arricchisce” ; “ fuggono dalla guerra”. Analizzando questi stupendi concetti: nel primo caso ormai il futuro è il presente, ma ancora non è chiaro come questa società deve funzionare. Che lo straniero o l’immigrato ti arricchisca è vero fino a un certo punto, visto che si tratta di masse di poveri. Quanto alla guerra, spesso è difficile distinguere il profugo politico da quello economico, anzi trovo la distinzione praticamente priva di senso e spesso impossibile da certificare.

Ora, cosa non ha funzionato? Cosa ha spinto la politica a cambiar vela di corsa? Perché la gente normale non segue più neanche gli appelli di papa Francesco? Proviamo a dare qualche risposta.

Lasciando da parte – per ora – la diffidenza verso l’Islam, alimentata dal terrorismo ma forte della presenza in Italia di quasi due milioni di musulmani (partiti da zero quarant’anni fa), la prima osservazione è che da dieci anni viviamo una crisi economica e dunque sociale, quindi le classi sociali meno ricche e meno scolarizzate devono spartire le risorse con i nuovi arrivati, ma in modo perverso: diminuiscono le prime, mentre aumentano i secondi. La seconda osservazione è che lo Stato si sta riprendendo solo ora le prerogative che aveva delegato a organizzazioni private. Parlo delle cooperative di volontariato o di assistenza, degli appalti e subappalti per insegnare l’italiano ai migranti, dei centri gestiti da chi non l’ha mai fatto prima, e naturalmente delle ONG. Si può anche parlarne male, ma il termine stesso “non governative” suggerisce che per definizione queste organizzazioni non sono necessariamente allineate alla politica del governo, qualunque esso sia. Possono commettere qualche peccato veniale per la giusta causa, ma sono coerenti con sé stesse, a differenza di un governo che accoglie tutti e poi non sa che farne e dove metterli. Se sono davvero una risorsa, i migranti non sono valorizzati come serve. Anche per questo la gente mugugna.

Tra una Costituzione disattesa o un eccesso di difesa

Da dove iniziare? Naturalmente dall’articolo 11 della Costituzione:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

L’Italia dunque rifiuta la guerra, tant’è vero che lo ha messo per iscritto e a chiare lettere. Ma è proprio vero? Storicamente lo è, ma solo dopo la disastrosa sconfitta militare che ha spazzato via il regime fascista e la monarchia che lo aveva appoggiato. Fino a quella data l’Italia di guerre ne ha fatte tante, con alterne vicende e col supporto di un apparato ideologico superato solo da pochi anni. Il libro di Andrea Santangelo a dire il vero inizia da molto lontano, addirittura dalla preistoria e protostoria italiche, mentre forse troppo poco è dedicato ai decenni più recenti. Che le legioni romane siano un esempio perfetto di grande unità funzionale ai fini strategici di Roma lo sapevamo, com’è assodato che le guerre italiane sono passate dai professionisti al popolo grazie alle guerre napoleoniche, lasciandosi alle spalle le compagnie di ventura e le guerre dinastiche. L’excursus storico copre mille anni, ma in effetti senza leggerlo è difficile capire come mai una penisola in mezzo al Mediterraneo possa essere, a seconda delle epoche, troppe volte terra d’invasione (anche ora) e quasi mai potenza egemone. In senso negativo hanno influito sicuramente il frazionamento politico che segue la caduta dell’Impero Romano, il feudalesimo, il potere temporale dei Papi e così via. Ma arriviamo finalmente all’unità d’Italia, guarda caso attraverso le guerre d’Indipendenza, tre per i manuali scolastici, quattro con la Grande Guerra secondo la vecchia ideologia. L’Italia a quel punto cosa fa? Ambisce al ruolo di media potenza e, pur priva di risorse, sgomita per entrare nel concerto europeo, cerca di conquistare colonie e devolve alle forze armate parte consistente del PIL, introducendo la leva obbligatoria e stabilendo la centralità dell’Esercito nella vita sociale italiana. La guerra poi può anche deflettere verso l’esterno le tensioni sociali, come sanno tutti i nazionalisti. La dinastia sabauda poi ha origini e tradizioni guerriere e le ribadirà fino alla fine, anche se nessuno dei Savoia regge il confronto con gli antenati: Emanuale Filiberto comandante dell’invitta 3° armata nel 1917 è un mediocre stratega e il Duca d’Aosta che si arrenderà ad Amba Alagi nel 1941, in quei frangenti altro non poteva fare. Quanto a Vittorio Emanuele III, si fa sempre ritrarre in divisa e nella Grande Guerra è il Re Soldato che visita tutti i reparti, ma nel 1943 lascia i soldati al loro destino. Quanto abbia influito nel Regno d’Italia lo spirito di casta dei militari di alto grado legati al Re ma nei fatti poco preparati al loro mestiere è comunque un argomento trattato nel libro. Sia chiaro: in Italia il concetto di casta è relativo, visto che agli alti gradi delle FF.AA poteva arrivare anche la piccola e media borghesia di provincia, ma quello dei militari di carriera era ed è rimasto per decenni un mondo a parte. Peccato che l’autore non vada in profondità, perché la Grande Guerra ha messo in crisi un sistema intero e perché alla fine le guerre italiane si somigliano tutte, comprese le attuali c.d. operazioni di pace: la mancanza di risorse spinge ad alleanze temporanee, le decisioni politiche non vengono affrontate in modo coordinato; le operazioni militari sono inizialmente assai caute, lente, e il dispositivo militare si dimostra sempre sottodimensionato e inesperto, salvo imparare la lezione a proprie spese e se il nemico gliene lascia il tempo. Il risultato è quindi alla fine sempre inferiore alla spesa e lo sforzo richiesto agli italiani supera il preventivo iniziale. Niente di che meravigliarsi se a livello popolare esercito e guerre non sono la passione degli italiani. Andrebbe però meglio analizzato il rapporto profondo che lega gli italiani alla propria classe dirigente, visto che le guerre non si fanno senza un consenso collettivo. Il Fascismo ha cercato di ottenerlo, ma nella riforma delle proprie forze armate ha inciso solo sulla forma (scenografica) e non sulla sostanza, affrontando una guerra mondiale con un esercito buono per quella precedente, e non incidendo assolutamente sulla casta militare sabauda, antiquata e poco aggiornata sulla guerra moderna. E’ vero che l’esercito era del Re, ma le Camicie Nere (MVSN) non erano certo meglio comandate, addestrate ed equipaggiate dei reggimenti di linea. Di questo il libro poco parla, ma sarebbe invece un ottimo argomento di studio. Già comunque lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) aveva notato che il Fascismo ha sempre cercato la guerra ma poco si dava da fare per organizzarla in modo moderno. Ma passiamo al dopoguerra: l’Italia ha perso tutto, è stata devastata da sud a nord e sia popolo che nuova classe politica di guerra non ne vogliono più sapere. L’Italia però entra nella NATO nel 1948 e fino alla fine della Guerra Fredda (1989) avrà precisi obblighi militari, subordinati agli USA, che hanno interesse ad avere basi militari proprie e considerano il nostro paese strategicamente importante. Sono gli anni dell’egemonia democristiana, ma anche quelli in cui tutti gli italiani maschi hanno fatto il militare nell’arco geografico che va da Bolzano a Trieste. Ma sono comunque anni di pace, mentre nell’arco della loro vita i nostri nonni e padri hanno fatto anche due guerre. Da trent’anni a questa parte abbiamo poi scoperto (o riscoperto) la nostra vocazione internazionale e accettiamo di mandare soldati ovunque la pace sia minacciata, cioè quasi dappertutto. Le c.d. operazioni di pace sono affidate ragionevolmente a soldati professionisti e il bacino di reclutamento è assicurato dalla disoccupazione meridionale, ma bisogna prendere atto che la loro qualità – ufficiali e sottoufficiali compresi – è sicuramente migliorata e la loro esperienza preziosa. Rimane aperta la questione di cui si parlava prima: quali sono gli interessi nazionali e come vengono prese le decisioni politiche? Ci siamo fatti invischiare in Iraq e in Afghanistan; la Folgore nel 2000 l’abbiamo mandata persino a Timor Est, mentre in Libia nel 2011 la guerra ce la siamo fatta da soli, né ancora si capisce bene come vogliamo gestire il problema dei migranti e di chi traffica sulle loro vite. Sappiamo ora dalla TV che manderemo soldati in Niger, ma – per carità – non combatteranno. Nel frattempo ci si è accorti di quanto costa un esercito professionale e si vorrebbe reintrodurre una sorta di servizio militare ausiliario. Purtroppo l’instabilità politica italiana non aiuta né ha mai aiutato la strategia. Infine, nell’ultimo capitolo l’autore ipotizza la natura delle guerre del futuro, compresa la cyberwarfare. Che dire? Chi fa la guerra non produce armi e noi le esportiamo. La guerra elettronica è una eccellenza russa e americana, mentre noi europei ancora non riusciamo a coordinare un’industria bellica comune. Sul terrorismo nulla di originale; sulla resilienza dell’italiano medio di fronte alle varie crisi imposte dalla globalizzazione poche righe. Ma lascerei aperto il capitolo, anche se scritto nel 2017: le operazioni russe in Siria suggeriscono la sopravvivenza di operazioni militari tradizionali integrate da guerra irregolare, i c.d. conflitti misti. Mai fare l’errore di prepararsi a combattere un solo  tipo di guerra. E soprattutto, non rimuovere il problema. Fino alla Guerra Fredda la guerra veniva chiamata col suo nome, ora si parla solo di pace, anche quando si mandano i soldati in missione in zone dove si spara. Parlate coi militari e sentite cosa ne pensano delle belle parole riservate al telegiornale! Indicativa poi è la storia del 4 novembre: fino al 1976 era festa nazionale ed era ufficialmente il giorno della Vittoria (del 1918); successivamente è stato derubricato e ogni anno viene ribattezzato e ridefinito in una maniera diversa. Se anche la guerra è stato l’elemento che ha unito l’Italia e gli italiani, perché negarlo? E per una volta che abbiamo vinto noi, perché dobbiamo vergognarcene? Come si vede, l’Italia è ancora un paese politicamente giovane.

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L’Italia va alla guerra.
Il falso mito di un popolo pacifico
di Andrea Santangelo

Editore: Longanesi, Milano, 2017, pp. 199
Prezzo: € 16,90
EAN:9788830448261

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