Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Residuati bellici

Come Plutarco, voglio metter a confronto due vite parallele: quella di Igor il Russo (in realtà il serbo Norbert Feher) e quella del generale croato Slobodan Praljak. Il primo è stato arrestato dopo una catena di feroci omicidi e fughe romanzesche, il secondo si è suicidato col veleno davanti ai giudici all’Aja, nel Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Onu.

Mentre il primo è ancora vivo, il generale croato è morto dopo aver bevuto in diretta televisiva una bottiglietta di veleno al momento della conferma della sentenza di colpevolezza per crimini di guerra con la condanna a vent’anni di carcere al Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia.

Cosa hanno in comune i due? Semplice: sono entrambi prodotti della guerra civile che ha insanguinato la ex-Jugoslavia negli anni ’90 del secolo appena passato, guerra troppo presto rimossa ma combattuta dietro l’angolo di casa nostra e che ci ha lasciato in eredità anche una pericolosa delinquenza secondaria, quella cioè favorita da circostanze sociali traumatiche. Si è molto parlato di Igor il Russo, si sta cercando di capire la natura e l’ampiezza della rete di complicità che ne ha coperto la fuga, ma stranamente non si è scavato nel suo passato di miliziano.

Perché una cosa è certa: Igor ha avuto un addestramento militare e le sue abitudini e capacità sembrano più quelle di un guerrigliero che di un delinquente comune: sa usare alla perfezione le armi e tira sempre nel punto giusto, uccide senza rimorsi e sa vivere alla macchia, diversamente dal tipo del criminale urbano. In più si sa infiltrare, assumendo false identità. Tutte competenze che è facile aver sviluppato e perfezionato in una delle tante bande irregolari di miliziani che hanno fiancheggiato l’esercito serbo nelle operazioni di pulizia etnica degli anni ’90. Il generale croato stava forse dall’altra parte, ma si è reso responsabile di crimini di guerra per i quali è stato regolarmente processato da un tribunale internazionale.

Non era un incolto: ingegnere, analista politico e regista (1), era uno dei sei leader militari e politici croato-bosniaci condannati in primo grado nel 2013 per crimini contro l’umanità e crimini di guerra; tra questi lo stupro e l’omicidio di musulmani bosniaci. Gli imputati erano stati accusati di aver messo in atto un’operazione di pulizia etnica per espellere i non croati da determinate aree del territorio della repubblica di Bosnia Erzegovina, da integrare successivamente tramite una cooperazione, in seguito con una vera e propria annessione, a una “grande Croazia”, un mito analogo alla “grande Serbia” di Slobodan Milosevic’ e come tale basato sulla purezza etnica e religiosa in un’area che pura non è mai stata e mai potrà esserlo, visto l’endemico intrico di etnie, lingue, religioni e culture diverse, incrociate e sovrapposte.

Nel caso del nostro generale, a lui si deve la distruzione del ponte di Mostar: i crimini furono commessi in otto municipalità, tra cui Mostar, considerata capitale della Bosnia Erzegovina. Nella maggior parte dei casi, concludeva il verbale di accusa, «i crimini non vennero commessi da alcuni soldati indisciplinati ma furono al contrario il risultato di un piano elaborato dagli accusati per allontanare la popolazione musulmana. Nel caso della storica città di Mostar, venne usata una «estrema violenza» per espellere i musulmani dalla parte occidentale della città: «I musulmani venivano svegliati in piena notte, pestati e cacciati dalle loro case, molte donne, tra cui una ragazza di 16 anni, vennero violentate» dai soldati del Consiglio di difesa croato (HVO). Dal giugno 1993 all’aprile 1994 Mostar Est venne tenuta sotto assedio e la popolazione musulmana fu oggetto di bombardamenti «intensi e costanti», con molti morti e feriti tra i civili.  Ora, a 72 anni e con buone probabilità di morire in prigione o uscirne un vecchio rimbambito dimenticato da tutti, il nostro generale ha scelto una morte omerica: da oggi è per i croati un eroe nazionale e tutti naturalmente sono convinti se non della sua innocenza, sicuramente della bontà della causa.

Questo dimostra quanto nei Balcani ancora pesi una mentalità arcaica, mistica, che è l’esatto contrario della logica. Ma anche l’Europa ha le sue colpe: prescindendo dall’immediato riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte di Germania e Vaticano, seguiti a ruota da Austria e Ungheria, abbiamo incoraggiato il frazionamento della zona in piccoli stati nazionali il cui unico obiettivo è quello di federarsi con l’Europa. Potevano farlo come Federazione Jugoslava, senza scannarsi tra di loro, ma nessuno li ha incoraggiati in questo senso. Quando poi sono intervenuti con la NATO, gli Americani presto hanno capito che quella non era una zona adatta alla loro incoerente diplomazia, oltre che troppo povera per essere sfruttata. I risultati si vedono ancora adesso.

  • Libri: Why and how the Muslim A BiH <Bosnia-Herzegovina, ndr.>Attacked the HVO <Hrvatsko vijeće obrane, Consiglio di difesa croato, ndr.> and the Croats in BiH: The Conflict of A BiH and HVO in Uskoplje (Gornji Vakuf) : how the Old Bridge was Destroyed : Destroyed and Damaged Catholic Churches and Other Religious Objects in BiH During the War 1991-1995, Destroyed and Devastated by Some A BiH Troops : Crimes Committed by Some Members of A BiH Against the Croats in BiH 1991-1995 : Refugees and Displaced Persons (Croats and Bosniaks) in BiH During the War 1991-1995 : Camps-prisons-detention Centres where Some A BiH Troops and Other Structures of Muslim Authorities Kept Detained Croats : Aggression of Bosnia and Herzegovina Against the Republic of Croatia : Stupni Do : Enclosure–DVD, ALTRO
  • Film: Povratak Katarine Kožul, Jegulje putuju u Sargasko more (lett: il ritorno di Katarina Kozul, le aquile si spingono fino al mar dei Sargassi), 1989.

Esercitare l’arte della scrittura

Confesso di non aver letto niente di Murakami Haruki prima di questo suo libro, per cui mi attengo a quanto lui scrive, senza far finta di aver letto 1Q84 (sic), L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio o L’uccello che girava le viti del mondo (ma che hanno tradotto?). Schivo e riservato come tanti giapponesi, con umiltà descrive qui il suo mestiere di scrittore. Perché per lui di mestiere si tratta: è riuscito a diventare un romanziere affermato e autosufficiente, ma per anni ha fatto altro per vivere e ha trasferito nel mestiere di scrittore l’impegno quotidiano di un lavoro comune. Si meraviglia che la gente non comprenda perché la mattina lui faccia un’ora di sport prima di lavorare per sei ore a tavolino come un impiegato. La gente gli scrittori se l’immagina sregolati e geniali, mentre il nostro, pur avendo avuto trascorsi bohèmien – nato nel 1949, si è formato negli anni ’60 – è un tipo regolato, pur critico verso la nipponica cultura efficientista. Eppure, proprio da bravo giapponese ha messo nel suo mestiere di scrittore una costanza e una determinazione che vanno ben oltre la disciplina: senza prendere appunti, organizza la sua mente come un gesuita e inizialmente lavora per sottrazione, selezionando dalla massa dei dati gli elementi di base, e in questo è figlio del buddismo zen. Ma deve far i conti anche con quanto esce dalla profondità, e in questo invece sembra ignorare Freud, almeno da come descrive in modo scarno il processo inconscio. Sorprende però la sua modestia: afferma che chi ha una cultura o un’intelligenza superiori è meglio si dedichi alla saggistica: è più logico ed economico concentrare un concetto in un saggio che disvelarlo nella complessa trama di un romanzo, e a favore della sua tesi nota quanta poca continuità nel romanzo abbiano avuto gli studiosi o gli specialisti di altri campi (ma lo conosce Umberto Eco?). Curiosa tesi la sua: il romanzo ha impiegato due secoli per sdoganarsi e lui lo riporta alla sua iniziale volgarità, come se Stockhausen ribadisse la dignità di un musicista di corte salariato. In realtà la sua idea di romanzo è – come dire – minimalista, e non per niente Murakami Haruki è anche il traduttore di Carver per il Giappone. Questo non toglie che da pochi, scarnificati elementi si costruisca lentamente una trama spessa, in un procedimento inverso a quello iniziale di sottrazione. Si tratta ora di aggregare al nucleo iniziale una serie di dati esterni e interiori altrimenti slegati. L’autore raccomanda di essere curiosi osservatori del mondo esterno, e in questo è facile il paragone con il pittore Hokusai. Questo processo richiede il tempo pieno: l’autore è arrivato tardi al romanzo lungo e scriverne uno significa per lui fare solo quello, senza distrazioni. E’ l’unico modo per crescere. Riesce a creare personaggi di ogni età e le adolescenti gli chiedono come fa ad entrare nel loro mondo. Pare che i suoi libri in famiglia li leggono tutti, dal nonno al nipote, dunque hanno un ampio respiro sinfonico. Ma lui scrive quello che vuole, non segue i gusti del pubblico. Questo è il segreto di ogni scrittore che accetti per i primi anni di passare quasi inosservato. Lui è stato scoperto grazie a un premio letterario – proliferano anche in Giappone – ma non farebbe mai parte di una giuria. Essere così individualisti per noi occidentali può anche essere normale, ma non lo è in Giappone. Un interessante capitolo descrive poi il tentativo – riuscito – di farsi conoscere all’estero, iniziando dal mercato americano. Asceta ma non sprovveduto, il nostro si trasferisce a New York e si appoggia a una squadra di professionisti dell’editoria. Lui da giovane leggeva i romanzi in inglese e ha tradotto molto, Carver, Chandler, in più accetta di parlare in pubblico e di essere intervistato, cosa che non fa mai in patria. Insomma, è uno stratega e i risultati non si faranno attendere. In Europa è arrivato dopo e i primi a leggerlo sono stati i Russi. In Italia direi che è un autore di nicchia. Ma è lo stesso Murakami a spiegare il successo dei suoi romanzi: sono letti soprattutto quando e dove sta avvenendo un cambiamento politico e sociale. Evidentemente sanno cogliere non tanto il movimento grande – stavo per dire la macroeconomia – ma quegli impercettibili movimenti che solo un osservatore attento e curioso sa notare, per poi orchestrarli in una partitura complessa. Tirando le somme, questo libro va letto per la sua semplicità. L’arte del romanzo di Henry James o di Gyorgy Lukàcs sono ormai quasi illeggibili, mentre il libro di Murakami è scarno e sincero. Forse chi lo legge non diventerà mai uno scrittore, ma almeno avrà risparmiato la quota di un costoso corso di scrittura creativa.

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Il mestiere dello scrittore
Murakami Haruki
traduzione di Antonietta Pastore
Editore: Einaudi, Torino, 2017 (ma ora anche Mondadori), pp. 186
Prezzo: 18,00 euro

EAN: 9788806232146

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Le parole e le cose

Per un malinteso, il mio articolo sulle bandiere ha attirato su Facebook le folgori della Folgore. Ma vorrei solo ricordare che proprio i parà nel 2008 in Afghanistan furono coinvolti in un incidente di percorso: un giornalista de L’Espresso notò la palma dell’Afrika Korps dipinta sulla fiancata di un mezzo della Folgore e ciò addirittura provocò un’ interrogazione parlamentare. Per i parà quella palma con A e K ai lati era un riferimento alla battaglia di El Alamein (1942) e alle tradizioni del reparto, ma per gli altri un simbolo nazista. E all’epoca la polemica sui simboli non era ancora così feroce come oggi, quando oltre i simboli del fascismo storico si vorrebbe distruggere l’architettura stessa del Ventennio. E perché non si è fatto in questi settant’anni? Semplicemente perché, cancellati i simboli, gli edifici mantengono comunque una funzione che va oltre la forma. Solo la Roma antica è letteralmente sprofondata sottoterra per essere riscoperta e valorizzata molti secoli dopo.

Ma se le immagini sono metafore, lo sono anche le parole, e anche qui andiamo sul pesante. Mi ha sorpreso l’elenco delle parole che il presidente Trump ha bandito ufficialmente dalla comunicazione sanitaria: transessuale, feto, diversità, vulnerabile, diritto, basato sulle evidenze, basato sulla scienza: sette termini che si vuole proibire nei documenti della sanità, con un approccio ideologico senza precedenti che ha già scatenato forti polemiche nel mondo politico e scientifico. Personalmente, quello che trovo più inquietante è la censura sulle due ultime espressioni: significa dar credito non a Galileo, ma alle chiese evangeliche americane e alle paranoie dei loro predicatori nomadi. Ma – a ben guardare –  la deriva fondamentalista l’hanno a suo tempo promossa proprio i “Liberals” con la loro ossessione del politically correct, di fatto una forma di censura che ormai permea il linguaggio e i rapporti sociali e nella versione italiana scivola facilmente nell’ipocrisia. Chiamare “non vedenti” i ciechi non ne ha migliorato la vista, e infatti l’Unione Italiana Ciechi non ha ancora cambiato nome. Sui rom il discorso è diverso, perché “zingaro” ha effettivamente una connotazione negativa e non definisce l’insieme della comunità (gitani, camminanti, zingari, zigani, sinti, korakanè, etc.). E almeno sui poveracci che sbarcano sulle nostre spiagge finalmente si è arrivati a un termine linguistico condiviso: sono migranti. Trovo invece oziose le discussioni di genere: assessora? sindaca? L’italiano permette di scegliere se privilegiare il sesso o la funzione sociale, il resto è politica, la quale piuttosto dovrebbe star più attenta a cambiare le cose invece dei nomi delle cose. In questo i politici sono ostinati: il geografo Tolomei scelse con cura tutti i nomi italiani per il Tirolo meridionale acquisito dopo la Grande Guerra, nomi che ora i sudtirolesi della Volkspartei cercano in ogni modo di cancellare, salvo far scrivere Alto Adige sulle confezioni di yoghurt da vendere nei nostri supermercati. I nazionalisti sono sempre sistematici poi nel cambiare a forza i cognomi o negare addirittura l’identità di un popolo: fino a pochi anni fa i curdi stanziati in Turchia erano semplicemente “turchi di montagna”. E se noi abbiamo italianizzato i cognomi sloveni in Carnia, chi ai tempi di Tito osava dire Zara e Spalato invece di Zadar e Split doveva comunque litigare con i croati, mentre un francese sa benissimo che la sua capitale noi la chiamiamo Parigi né si offende per questo, ma graziosamente francesizza i nostri nomi e cognomi accentandoli sull’ultima sillaba. E’ evidente che nominare significa comandare, e infatti Adamo nella Genesi dà il nome a piante ed animali, ma non potrà mai pronunciare il vero nome del suo Creatore. Né questo modo di vedere il mondo è un’esclusiva dell’ebraismo, essendo presente in molte religioni e mitologie. Per concludere, è bene ricordarsi sempre della massima del filosofo Wittgenstein: attenzione, perché alle parole corrispondono le cose.

 

Bandiere

In merito alla bandiera del Reich esposta in camerata dal carabiniere di Firenze e ben visibile dalla strada è stato scritto molto. Da parte mia osservo che, se il carabiniere si è comportato male, neanche i suoi superiori fanno bella figura: la camerata di una caserma è soggetta a continue ispezioni, per cui è impossibile che nessuno si sia mai accorto di quel vessillo appeso al muro. Forse nella caserma della Folgore ci sarà anche di peggio, ma almeno non è in vista strada. Sia chiaro: la bandiera incriminata non è quella nazista con la svastica al centro, ma quella del Reich, ovvero la formazione statale che ha governato la Germania dal 1871 al 1918, retta da un imperatore e governata da un cancelliere in parte svincolato dal parlamento. Storicamente, le navi della marina tedesca quella bandiera hanno continuato a sventolarla in mare aperto anche dopo quella data, in disprezzo sia della Repubblica di Weimar che del Terzo Reich di Hitler. Altro che neonazismo! Come si vede, i simboli possono cambiare significato politico e per questo vanno storicizzati: tanto per rimanere a casa nostra, il tricolore con lo stemma sabaudo storicamente da emblema del Risorgimento alla fine è divenuto il simbolo della complicità fra il Re e Mussolini, tant’è vero che l’Italia dal 1948 è una repubblica. Che poi ora la bandiera del Reich sia usata dai gruppi neonazisti europei è affar loro, lo definirei addirittura un falso ideologico, esattamente come le croci celtiche che col nazismo e il fascismo non hanno nessun vero legame storico, a differenza delle rune e della svastica. Trovo invece sconveniente che un carabiniere che ha giurato fedeltà alla patria non senta il bisogno di appendere al muro il tricolore e provi invece attrazione per un vessillo che non lo riguarda. E se afferma anche di studiare storia moderna all’università e di essere un appassionato del settore, a maggior ragione dovrebbe essere cosciente della riformulazione ideologica in chiave neonazista dei simboli politici della Germania imperiale. Siamo dunque di fronte a una cultura superficiale, come superficiali sono stati i suoi superiori. Ma è stato anche superficiale il comunicato dove si legge che esporre simboli del fascismo è reato per i civili ma non per i militari: per evitare fraintendimenti, più correttamente si doveva scrivere – come è stato fatto in seguito – che tale reato è di competenza dei tribunali ordinari, essendo la giurisdizione del codice militare di pace circoscritta ai reati specificamente militari, come l’insubordinazione e la diserzione. Al massimo il carabiniere rischia un provvedimento disciplinare.

 

Dunkirk, il primo film della Brexit

Dunkirk (Dunkerque per i francesi) è il luogo dove nell’estate del 1940 i 400.000 soldati del corpo di spedizione inglese si ritirarono in massa in attesa dell’imbarco, dopo essere stati tagliati fuori dall’offensiva tedesca in Francia. Avevano ormai solo i fucili, avendo perso tutto il materiale pesante nella ritirata. Dal canto loro i Tedeschi incalzarono gli Inglesi senza usare Panzerdivisioni o artiglieria, ma limitandosi a martellare uomini e navi con Stukas e bombardieri Heinkel. Potevano far di peggio, ma Hitler nel 1940 sperava in una pace separata con gli Inglesi, a cui si oppose fermamente Churchill. Ma il grosso dei soldati inglesi fu recuperato non tanto dalle navi della Marina, ma da una miriade di pescherecci e imbarcazioni private mobilitate in fretta e condotte da comuni cittadini britannici che accolsero l’appello. Il pescaggio delle coste era infatti troppo basso per le grandi navi, le quali – lo dice un ammiraglio nel film – avrebbero poi difeso l’Inghilterra dall’invasione.

Come suggerito dal regista stesso, il film si espande in tre elementi: Terra, Mare, Aria. Nel primo elemento sopravvive la fanteria in attesa d’imbarco, inquadrata in ordinate file lungo chilometriche spiagge sabbiose ma tormentata dagli Stukas. In mare fanno invece la spola le navi che cercano di imbarcare più gente possibile, colpite dai siluri degli U-Boot e martellate quanto i soldati a terra dai bombardieri Heinkel. E qui entriamo nel terzo elemento, l’Aria, spazio per spettacolari duelli tra i mitici Spitfire (originali, ndr.) e i loro degni rivali, i Messerschmit della Luftwaffe. Il film è girato con lo stile del documentario, quindi nessun personaggio sovrasta l’altro e molti attori, pur famosi, recitano sottotono. In questo grande affresco alla fine il protagonista è il soldato semplice con l’elmo a padella, il marinaio comune, il pilota dell’aereo, il privato cittadino britannico che fa vela verso Dunkerque con la sua barchetta. In fondo non c’è neanche una vera trama, risultando il film una serie di episodi collettivi o individuali orchestrati con la classica tecnica del montaggio alternato. Certo, alla fine i fanti bagnati fradici si somigliano tutti e lo spettatore finisce per confondere le linee narrative, ma è ben resa la paura del soldato davanti agli attacchi dal cielo e dal mare, quando a farti resistere è il puro istinto alla sopravvivenza. Belle le scene di duello aereo, condotte con grande professionalità e sicuramente più spettacolari delle claustrofobiche scene girate dentro le navi, dove troppe volte si rischia di fare la fine del topo. Eroici nella loro semplicità i cittadini britannici che per puro amor di patria misero a disposizione le loro barche e barchette, yacht compresi, per accogliere a bordo i soldati rimasti a terra. In questo modo si salvarono più di 300.000 uomini, pronti per le successive battaglie.

Un’impressione però ci è rimasta: questo film è figlio primogenito della Brexit. Anche se all’epoca gli inglesi uscirono dall’Europa perché espulsi, il messaggio profondo è: noi inglesi ce l’abbiamo fatta da soli nel 1940 e possiamo dunque farcela da soli anche ora.

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Dunkirk
di Christopher Nolan
con: Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance, Kenneth Branagh, James D’Arcy, Harry Styles, Aneurin Barnard, Jack Lowden, Barry Keoghan, Fionn Whitehead, Charley Palmer Rothwell, Elliott Tittensor, Brian Vernel, Kevin Guthrie
USA, Gran Bretagna, Francia
2017, 106 min
Distribuzione: Warner Bros.

http://www.warnerbros.it/speciali/dunkirk/sito/

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