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Saper vedere Trieste

Una città si può descrivere attraverso pochi luoghi emblematici, magari non scontati. E’ quanto fa Pietro Spirito, scrittore e collaboratore del quotidiano triestino Il piccolo, il quale ben conosce la sua città di adozione e ci propone in meno di cento pagine una guida insolita di una città già diversa di suo. S’inizia dal Porto Vecchio e dai suoi monumentali magazzini oggi diruti, ma una volta collegamento tra la città e una frenetica attività commerciale. Oggi tutto si svolge nel Porto Nuovo, dove presto attraccheranno anche i cargo cinesi provenienti dalla nuova Via della Seta (1) . Ma chi arriva a Trieste in treno, da Miramare fino alla stazione centrale vede sulla destra solo un vasto, continuo demanio ferroviario assai degradato e una serie di enormi, spettrali docks, di cui uno (il numero 26) è oggi un enorme spazio espositivo per l’arte contemporanea, grazie all’iniziativa di Vittorio Sgarbi. L’autore descrive uno per uno gli impianti del Porto Vecchio, vero campionario di archeologia industriale, e lasciamo al lettore il piacere della visita guidata, con un occhio a Metropolis di Fritz Lang.

E passiamo al secondo frammento: la stazione di Rozzol-Montebello, a ridosso del costone carsico. Chiusa da anni, mantiene ancora gli arredi originali e addirittura le scritte bilingui austro-ungariche. Nel dopoguerra Trieste per quasi cinquant’anni non è più cresciuta; le zone periferiche essendo troppo vicine al confine militare, e molti tronchi ferroviari semplicemente non avevano più traffico. La Stazione Centrale di Trieste era il punto d’arrivo (dal 1858) delle Ferrovie meridionali (Sudbahn) che univano Vienna al suo porto, ma c’era anche (per l’Est) la stazione di Campo Marzio, oggi museo ferroviario. Ma ricordo ancora i binari della ferrovia della val Rosandra (oggi pista ciclabile), che univa la città al contado istriano sulla strada di Fiume. Per costruire le strade ferrate qui gli Austriaci hanno scavato nella roccia carsica trincee, superato pendenze e aggirato quote. E non solo a Trieste: la ferrovia istriana che parte da Divaccia (SLO), da Pisino fino a Pola è tutta una trincea scavata nella roccia. L’insieme è quindi ardito e tortuoso, ma all’epoca la gestione almeno era unica, mentre oggi è frazionata tra Austria, Slovenia ed Italia. E quella che chiamavamo all’epoca “la camionale” ora è la trafficata superstrada dei Tir tra est e ovest.

Il viaggio a Trieste continua in via Fabio Severo 79, non lontano dall’Università. Giuro che non sapevo che un austero condominio borghese ospitasse all’epoca La casa degli sposi, un’istituzione privata che offriva una dimora alle coppie sposate povere purché di provata onestà. Se nasceva un figlio, potevano abitarvi per tre anni. Tale pio istituto funzionò fino alla Grande Guerra. In sostanza, a Trieste l’assistenza sociale passa presto dalla Chiesa ai ricchi privati, i quali volevano anche attutire le differenze sociali create dallo sviluppo del porto. E al porto ritorniamo per parlare di Ursus, una gigantesca gru-pontone da duemila tonnellate ormai in disuso ma popolare simbolo del Porto Vecchio. Tornando a terra, passiamo ora all’ ex-Hotel Balkan, poi Narodni Dom (casa del popolo) slovena e oggi Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste. Ottima soluzione, visti i non sempre facili rapporti con la minoranza slovena: nel 1920 un primo assalto dei fascisti aprì la strada alla loro snazionalizzazione, pagata poi cara dopo il 1943. Ma dal dopoguerra la minoranza slovena è protetta, inizialmente grazie all’amministrazione alleata, nonostante essa potesse esser vista come quinta colonna comunista, pur divisa al suo interno tra “cominformisti” e titini. C’è sempre il tentativo di imporre lo sloveno come seconda lingua ufficiale, ma Trieste non è Bolzano, dove i germanofoni sono una maggioranza reale. Trieste è italiana e ha sempre avuto paura della demografia slava; direi persino che l’Irredentismo mirava più a escludere in futuro gli slavi dal potere che a sostituire la classe dirigente germanica, in fondo una stupenda sovrastruttura. Sloveno è sempre stato il contado dell’altopiano, sloveni sono molti operai portuali, e ho sempre avuto l’impressione che nell’atteggiamento triestino contasse molto la differenza di classe sociale. Oggi è diverso: gli sloveni sono più istruiti, le giovani coppie italiane comprano casa dalla parte slovena dell’altopiano perché i prezzi sono più bassi e addirittura mandano i figli alle scuole primarie slovene, rovesciando di fatto il trend. E le ragazze slovene in gita a Barcola o sul lungomare sono figlie del benessere, si vede. E se la tirano meno delle “mule”.

Torniamo ora al Porto Vecchio, nel Magazzino 18, per parlare dell’esilio istriano e dalmata: almeno 350.000 italiani “cacciati da un regime che non li amava e che loro non amavano”. Regime – aggiungo io – comunque in sintonia con i rancori e le aspirazioni dei nazionalisti sloveni e croati. Il Magazzino 18 è noto a noi anche grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi: vi sono conservati tutti gli oggetti depositati dai profughi e mai ritirati; masserizie ora archiviate e valorizzate, ma per anni dimenticate come i loro proprietari. E che la materia sia ancora scottante, lo sappiamo anche a Roma, da quando nel 2004 è stato istituito il Giorno del Ricordo. Dal 10 febbraio 1947 , firma del Trattato di pace che assegnava a Tito l’Istria e gran parte della Venezia Giulia, sono passati 70 anni (2).

Il capitolo successivo potremmo intitolarlo “Le fortezze Bastiani”. Durante la Guerra Fredda la lunga frontiera del Carso triestino era una teoria ininterrotta ma discreta di fortificazioni: bunker, falsi fienili, false case cantoniere e torrette cannoniere, coordinate in una rete di gallerie e depositi. I reggimenti di Fanteria d’arresto erano reclutati in genere tra gli abitanti della zona, in modo da aver riserve pronte e addestrate. Ormai è tutto chiuso e sigillato: dopo la caduta del Muro e la fine della Jugoslavia tutto il dispositivo è stato smontato in pochi mesi per risparmiare soldi da dare ad altri. Eppure un Museo della Guerra Fredda dovrebbe partire proprio da lì, da quel lungo confine presidiato per cinquant’anni da migliaia di soldati di leva (3). Confine preso molto sul serio, vista la tortuosità della linea di frontiera, la vegetazione non curata e soprattutto la presenza dei graniciari, le guardie di confine jugo, reclutate fra duri guerrieri totalmente privi di humour. Era facile sconfinare per sbaglio e sentirsi urlare “Stoj” (fermo!) da una pattuglia armata, quasi sempre accompagnata da un grosso cane nero. Chi ne ha fatta esperienza se la ricorda bene, a partire dall’autore. Oggi si passa dall’altra parte liberamente, è ormai la gita fuori porta (4). Confine che si apriva però in alcuni giorni per permettere il commercio con i sciàvi. Ponte Rosso e la stazione delle autocorriere (oggi Sala Tripcovich) diventavano realmente la Fiera dell’Est, dove la merce più ambita erano le scarpe, l’abbigliamento, i pezzi di ricambio, le bambole e i cowbojka, cioè i jeans, e dove le donne si mettevano indosso dodici gonne per passarle alla frontiera. Oggi i negozi di “strazze” sono un ricordo e i cinesi hanno preso il posto dei triestini e napoletani, ma all’epoca Ponte Rosso era la valvola di compensazione tra capitalismo e socialismo (5). La merce comprata era poi ridistribuita per tutto l’Est; si dice che i jeans comprati a Trieste arrivassero fino in Siberia.

Il libro continua poi parlando del “Pedocin”, uno stabilimento balneare dopo le Rive, da sempre diviso in due settori riservati: uomini e donne. No, l’Islam non c’entra niente, è una vecchia tradizione triestina, voluta dalle donne per stare in pace a prendere il sole, fare il bagno e “ciacolàr” con le amiche. L’ultimo capitolo, come Gente di Dublino, è infine dedicato ai defunti. Andiamo dunque al Cimitero monumentale di Sant’Anna, alla ricerca dei triestini illustri: Svevo, Saba, i fratelli Stuparich, Anita Pittoni…

Così l’autore. Io invece parlo solo ora di Tetsutada Suzuki, un ricercatore di sociologia conosciuto nel capitolo sui confini. Come vede i triestini? Come “gente di confine”, e fin qui non bisogna venire dal Giappone per capirlo. Forte però della scrittura ideografica, scinde la parola “confine” in “con” e “fine”: stare insieme ma definire il punto di arrivo, di separazione. Nell’epoca in cui l’Italia ha rinunciato a difendere i propri confini – nazionali, militari, etici – la lezione dunque ce la dà chi viene da lontano. Solo chi ha vissuto a Trieste può capire cos’è un confine e perché va difeso, ma la novità viene sempre da fuori e quindi l’identità si rimette di nuovo in gioco…

Fin qui il libro di Antonio Salerno. Ma l’insolito viaggio potrebbe continuare, e qui propongo alcuni spunti: la targa che alla Stazione Centrale ricorda la partenza nel 1914 dell’Imperial-Regio 97° reggimento di fanteria per la Galizia. Oppure il cancello ormai chiuso della bella, enorme caserma Vittorio Emanuele in via Rossetti, dove ha fatto il militare mezza Italia, compreso il sottoscritto. Oppure l’elenco delle farmacie, sproporzionato per chi non sa che Trieste è anagraficamente vecchia. Infine, mi ha sempre affascinato la vita di Diego de Henriquez, strambo collezionista di militaria – treni corazzati compresi – morto nel 1974 in circostanze poco chiare (6)

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Trieste è un’altra
di Pietro Spirito
Editore: Mauro Pagliai Editore, 2011, pp. 96

Prezzo: € 9,00
EAN: 9788856401691

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NOTE

  • Ricordo bene i lunghi treni merci che ancora nel 1976 partivano la sera dalla stazione e sfilavano lentamente lungo piazza dell’Unità diretti al Porto Nuovo.
  • Per dovere di cronaca, va detto che mentre l’Istria è da sempre geograficamente definita, la Venezia Giulia è sempre stata una terra dai confini continuamente riformulati e non sempre coincidenti con una precisa identità etnica o linguistica.
  • Quando ho potuto visitare la Jugoslavia, una volta finita la naia, ho scoperto che dall’altra parte del fronte il dispositivo militare jugo era praticamente simmetrico al nostro.
  • A Gorizia mi hanno raccontato di uno scherzo di caserma che ha del surreale: hanno mandato un tenentino di prima nomina in pattuglia notturna, non prima di aver arretrato di trecento metri il confine di Stato, ovviamente d’accordo con il colonnello. Il malcapitato fu arrestato, interrogato e maltrattato da falsi granizzari per tutta la notte. Chi conosce Gorizia, all’epoca divisa come Berlino, sa che uno scherzo simile era possibile.
  • http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2016/12/28/news/trieste-yugoslavia-al-tempo-dei-jeans-1.14631376
  •  L’argomento comunque è stato già sfruttato, sia in biografie come Diego de Henriquez. Il testimone scomodo, di Vincenzo Cerceo e altri (2015), Le lunghe ombre della morte, del giallista Veit Heinichen (2007) e infine il romanzo Non luogo a procedere, di Claudio Magris (2015).

Binario 2 Est

Siamo alla stazione Termini e dobbiamo andare a Chiusi. E’ la vecchia linea Roma-Firenze, quando s’impiegavano tre ore invece di una, prima della Direttissima.  Il treno ci aspetta al binario 2 est. Purtroppo ben presto scopriamo est non è il contrario di ovest, ma significa “esterno”, il che significa percorrere 500 m. di marciapiede, naturalmente con i bagagli, fino a ritrovarsi all’altezza di piazza San Lorenzo in una sorta di stazione di campagna. Il che non è piacevole, visto che siam ad agosto e a Termini facchini e carrelli non esistono. Ma la sorpresa è stata sapere che il convoglio non era stato mandato in quello sperduto binario “una tantum”, ma vi è normalmente assegnato, come da sempre le Laziali partono dal binario 28. L’ho saputo da chi prende quel treno abitualmente – in genere pendolari da Orte. Per quale motivo una linea oggi secondaria ma comunque parte della dorsale italiana venga sbattuta in quel lontano binario non si sa.

Divieti romani

Sul lato del bancomat del mio ufficio c’è affisso un adesivo, con la seguente scritta stampata: “vietato introdurre gas”. Ma, dico io, a chi mai verrebbe in mente di introdurre gas in un bancomat? La risposta l’ho avuta da un articolo di cronaca: una banda di romeni usava “gonfiare” gli sportelli bancomat per poi farli esplodere e scappare con il malloppo. Ma a questo punto uno dovrebbe scrivere pure “vietato avvicinarsi con grimaldelli, piedi di porco e altri attrezzi atti allo scasso”. O ancora più semplicemente, meglio scrivere a chiare lettere: SETTIMO COMANDAMENTO: NON RUBARE”.

Cito questo esempio perché il burocrate tende ogni volta ad aggiungere un pezzo in più alle formulazioni semplici – basta vedere le leggi italiane, inzeppate di glosse “e successive modificazioni”, al punto di risultare se non incomprensibili, almeno di difficile interpretazione. Tutto questo ricorda un po’ le nostre mogli quando si parte in viaggio: uno ha scientificamente messo tutto il necessario in una sola borsa o zaino e loro ogni volta aggiungono un oggetto o un vestito di cui non si può assolutamente fare a meno, col risultato di andare alla stazione con borse, pacchi e altri carichi squilibrati, più naturalmente la valigia o il trolley iniziale. Oppure pensate agli aeroporti: per andare da Roma a Milano la gente ormai prende il treno pur di non farsi rompere le scatole per tutto quello che è vietato portare. E’ una lista lunga, non sempre ovvia, e ogni volta c’è un nuovo articolo passibile di sequestro: le forbicine per le unghie, o i liquidi in bottiglia, visto che corre voce che i terroristi usino esplosivi liquidi (finora non se n’è trovata neanche una goccia, ndr.). Ed è così che si perde tempo tutti, noi e loro, mentre sarebbe più ovvio controllare chi viaggia senza bagaglio o si muove in modo strano, anche se ormai bisogna dire che chi deve sorvegliare è abbastanza sveglio. Ma l’albero lo vedi solo se non cominci a contare le foglie.

 

L’Atlantico in canoa

Canoista da anni, mi sono appassionato delle incredibili gesta di Hannes Lindemann, (1922-2015), ma le ho dovute leggere in inglese perché del suo libro, scritto nel lontano 1958, non esiste alcuna traduzione italiana. Strano, vista la quantità e qualità della letteratura nautica pubblicata in Italia. Cultore dei grandi naviganti in piccole barche, ho preso quindi l’iniziativa di tradurre Alone in the Ocean una pagina per sera, per diletto, aggiungendo pure qualche nota in calce. Il testo in inglese è liberamente scaricabile dalla rete, era un peccato non approfittarne. Ancora non ho trovato un editore, ma volevo mettere a disposizione degli appassionati l’esperienza unica di quest’uomo che ha voluto sperimentare i limiti della resistenza fisica e psichica in mare. Lindemann era un medico di professione ed è stato anche pioniere del training autogeno: le sue opere sono state tradotte anche in italiano e godono ancora di una certa popolarità (1). Questa pratica l’ha aiutato a sopravvivere alle condizioni estreme di una traversata oceanica dalle isole Canarie fino ai Caraibi, condotta per 72 giorni a bordo di una Klepper adattata con due velette e un bilanciere, una di quelle canoe tedesche smontabili con intelaiatura in legno e tela cerata che da sempre si vedono in giro per mari e fiumi d’Europa (2). In realtà il nostro eroe ha pagaiato poco, sfruttando piuttosto gli alisei, i venti stagionali chiamati non per niente “trade winds”, i venti del commercio, ben noti a Cristoforo Colombo e a tutti i naviganti oceanici a vela. La canoa di Lindemann è ora conservata a Monaco nel Deutsches Museum, ma quel modello è ancora in produzione, anche se fabbricato con materiali più tecnologici. E’ infatti la tecnologia a marcare la differenza tra Lindemann e gli avventurieri più recenti (3) : non esistevano all’epoca i GPS e i telefoni cellulari, né i pannelli solari e i cibi liofilizzati. Lindemann non aveva radio a bordo, per cui, come altri navigatori solitari dell’epoca, ha trascorso in mare settimane in completo isolamento, soffrendo di allucinazioni e dovendosela cavare sempre da solo nei frangenti più estremi: tempeste, sole equatoriale, mancanza di sonno, disidratazione. Non è stato fortunato con le condizioni atmosferiche e del resto poco poteva fare con una canoa di legno e tela, buona per il turismo nautico, per giunta sovraccarica di viveri in scatola presto eliminati. Ma il nostro eroe scopre subito che il mare offre nutrimento agli audaci e a chi impara a conoscerlo: per sopravvivere, oltre al latte condensato, il pesce crudo e l’acqua piovana possono bastare. In realtà Lindemann non si dimostra sempre un esperto marinaio: zavorra male la prima barca che ha poca chiglia e calcola male il lavoro del timone; un errore fatto comunque anche da capitan Voss, marinaio ben più esperto di lui, il quale con una canoa di legno scorrazzò per il Pacifico all’inizio del ‘900 (4). Usa il sestante e quindi naviga “in parallelo”, ma nel diario di bordo non indica mai la posizione giornaliera, sia pur approssimata. Dimostra invece grandi doti di resistenza fisica, aiutato in questo anche dalla sua professione di medico, che gli permette una completa padronanza del corpo nelle circostanze più estreme, che era esattamente l’obiettivo prefisso. Ma diciamo pure che è stato fortunato, visto che si è trovato per due volte col battello rovesciato di notte in mezzo alla tempesta. E gli è bastato, visto che non mi risultano successive imprese nautiche di Hannes Lindemann.

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NOTE

(1) Come vincere lo stress e come affrontarlo nella vita di tutti i giorni (1976); Sopravvivere allo stress : guida al training autogeno (1978); Training autogeno : il più diffuso metodo di rilassamento (2003)
(2) https://www.klepper.de/de/
(3) Aleksander Doba nel 2011 in 99 giorni ha percorso in canoa il tragitto dal Senegal al Brasile, ma la sua canoa al confronto di quella di Lindemann è un’astronave spaziale.
(4) Gli incredibili viaggi : seguiti da venti consigli sul come governare una piccola imbarcazione in condizioni di mare difficili, non escluso il tifone : considerazioni sui maggiori disastri navali / di Capitan Voss. Ed. it. 1958, ristampati nel 2014.

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Alone at Sea
by Hannes Lindemann (Author)

ISBN-13: 978-1406750799
ISBN-10: 1406750794

Publisher RANDOM HOUSE

Collection universallibrary

Contributor Universal Digital Library

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Curdi: Il difensore di ben altre frontiere

Nella guerra civile spagnola del ’36 e durante la Resistenza migliaia di giovani sono partiti come volontari per combattere armi alla mano il Fascismo e il Nazismo, ma oggi un giovane che rischiasse la propria vita per fare lo stesso sarebbe considerato uno spostato, un instabile mentale o nel migliore dei casi un disadattato sociale. Purtroppo la prima impressione è quella che conta, e Karim Franceschi – che pur ammiro – non riesce a convincermi: le sue purissime motivazioni ideologiche di figlio tardivo di un partigiano toscano classe 1927 sposato con una donna marocchina e amante della democrazia contro ogni fascismo sono qualcosa di anacronistico. Sia chiaro: ho il massimo rispetto di chi rischia di persona la propria vita invece di fare inutili cortei o firmare inutili petizioni, ma la sua esperienza resta ancora un caso isolato, visto che a fare la guerra noi ci mandiamo gli altri, e visto pure che i giovani non riescono ancora a odiare i tagliagole dell’ISIS più di quanto non sappiano fare con romanisti e laziali.

In realtà Karim, classe 1989, non ha mai fatto il militare e neanche si è iscritto a un poligono: tutto quello che sa sulle armi lo ha imparato sull’Internet. E’ sportivo, attivo nel sociale e in contatto con gruppi politici che aiutano i profughi e la resistenza dei curdi, di cui esalta il progetto politico democratico, egualitario e federalista. Vede nell’ISIS (che lui chiama IS o Daesh) una forza politica contraria alla pace, alla democrazia e alla tolleranza, e fin qui nessuno gli darebbe torto. Ma da qui a partire volontario per combattere in prima linea a Kobane assediata ce ne corre, e Karim lo fa. Non sa il curdo ma parla inglese e arabo (è nato e vissuto a Marrakech prima di tornare con la famiglia a Senigallia) e in fondo è una personalità borderline: troppo italiano in Marocco, troppo marocchino in Italia, ma difensore di ben altre frontiere. Varcare quella fra Turchia e Siria è facile, si direbbe che è fin troppo porosa, mentre quella vera passa per Kobane assediata, città fin troppo vicina al confine turco ma difesa dai soli curdi, visto che al governo turco fa comodo che qualcuno elimini sia i curdi che il governo siriano. Ma i guerrieri di Al Baghdadi a Kobane hanno trovato pane per i loro denti. A suo tempo ho descritto in un mio articolo il modo di fare la guerra degli arabi: tattica fluida gestita da piccoli gruppi ben addestrati, mobili e determinati, organizzati sulla base di rapporti personali. Ma è esattamente quello che fanno anche i curdi nei cui ranghi si arruola il nostro eroe. Al fuoco di copertura ci pensano gli aerei e i droni americani, mentre i collegamenti sono assicurati da radio, telefoni cellulari e staffette. L’organizzazione dell’Ypg (la milizia curda) è informale ma efficiente: le squadre dipendono da un capo e sono coordinate a livello superiore da un ufficiale esperto, ma è normale il passaggio di combattenti da un gruppo all’altro secondo le esigenze del momento. Le donne combattono da sempre come gli uomini e sono rispettate da tutti. Gli arabi le temono, anche perché essere uccisi in combattimento da una donna significa perdere il “bonus” delle vergini a disposizione in paradiso. L’armamento è buono – comprende anche visori notturni per i fucili – ma non ci sono mezzi pesanti, mentre Daesh ha pure cannoni e carri armati di fabbricazione russa. E la situazione a Kobane è disperata, tant’è vero che Karim viene addestrato in una settimana (!) e mandato in prima linea. I volontari stranieri non tengono famiglia, quindi sono i più esposti da entrambe le parti. Fatto sta che Karim se la cava sia nelle guardie che nel combattimento, anche se un fucile vero l’ha visto solo pochi giorni prima. Sente freddo, ha fame e dorme poco come tutti i soldati, ma dimostra di saper combattere e di essere disciplinato. Vede cadaveri ovunque, spesso mutilati dagli arabi (lo facevano anche i marocchini sul fronte italiano, ndr.). Ha comunque fortuna, perché alla fine tutto quello che ha visto può raccontarlo.

Già, ma come si combatte a Kobane? Il libro ci fornisce informazioni precise: nella città distrutta la linea di demarcazione fra le fazioni è labile e tra le macerie si combatte benissimo: il panorama è un continuo di cecchini in agguato, punti di osservazione, pattuglie di esploratori, guardie fisse. Di giorno e di notte vanno prevenute le infiltrazioni, mentre un attacco nemico (numericamente superiore) va contrastato immediatamente. E qui, dove non arrivano le bombe americane, è un frenetico spostamento da una zona all’altra, dove squadre coordinate via radio aggirano i palazzi o ci passano dentro per prendere il nemico alle spalle o dar man forte alla squadra in difficoltà. Nessuno sembra mai aver problemi di munizioni e tutte le armi a disposizione sembrano funzionare sempre. Ciononostante anche i nostri amici hanno perdite e anche Karim scopre cosa significa perdere un commilitone. Al resto si direbbe che faccia il callo, anche se non sempre va d’accordo con tutti. In fondo il suo reparto è stato messo su in pochi giorni e non sempre le motivazioni e le personalità del gruppo sono coerenti con le sue. Per fortuna i capi sono esperti e sanno trattare con i loro uomini: come in tutte le milizie tribali, le gerarchie nascono sul campo e non esistono sergenti. In più, ci sono forme assembleari dove tutti i guerrieri riuniti in circolo discutono dei problemi, una specie di consiglio degli anziani allargato. Sono tradizioni ancestrali, ma funzionano anche oggi.

Il salto di qualità Karim lo fa quando gli viene proposto di diventare un cecchino. Sull’argomento c’è ormai una ricca letteratura e cinematografia, quindi inutile dilungarsi, com’è inutile riportare le pagine dove si parla di munizionamento, tacche di tiro e correzioni balistiche. Karim è comunque freddo e preciso nel suo lavoro. Rimorsi? Pochi. Ecco un suo commento: “così il nazista domani non ucciderà il bambino ebreo”. E vai!

Alla fine, alla scadenza del visto turistico di tre mesi, “Marcello” (il suo nome di battaglia) potrà riavere il suo cellulare (intasato di messaggi) e riprenderà l’aereo da Istanbul. Tanto abbiamo capito che quella frontiera è un colabrodo a corrente alternata. Come abbiamo capito che – volontario per la libertà, mercenario, contractor o foreign fighter – chiunque può comprare un biglietto low cost e andare a combattere per qualche mese le guerre che gli eserciti regolari non sanno o non vogliono fare. Che armi e munizioni non mancano da nessuna parte, e in questo papa Francesco ha ragione da vendere. Ragione che sembra ormai merce sempre più rara.

Nota: l’autore donerà parte dei proventi del libro alla ricostruzione di Kobane. Il sito di riferimento, www.helpkobane.com non funziona, ma cercando “help Kobane” su google ci sono siti alternativi.

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Il combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis
Karim Franceschi, Fabio Tonacci
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2016, pp. 350.

Prezzo: € 17,00

EAN: 9788817085540

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