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Mediterraneo, una storia di conflitti

Sulla storia del Mare nostrum c’è una stupenda letteratura: dall’opera di Pirenne a quella di Braudel passando per Matvejevic, Quilici e Cardini (1). Questo breve libro di Luciano Canfora (2016) in meno di cinquanta pagine li sottende e aggiunge di suo. Era in realtà il testo di una conferenza – un po’ come le Lezioni americane di Calvino – e in fondo, diciamolo, i piccoli libri sono sempre i migliori: leggibili, concisi, razionali.
Intanto, il Mediterraneo è un mare chiuso dalle colonne d’Ercole; il canale di Suez prima non c’era, al punto che nella geografia di Tolomeo l’oceano Indiano era visto come chiuso e simmetrico. Platone però affermava (2) che il Mediterraneo è solo una piccola parte della terra, in cui “abitiamo come formiche o rane attorno allo stagno”, dimostrando dunque di vedere molto più in là degli altri. Ma quando è stato unificato il Mediterraneo? Un primo tentativo lo fanno i Greci di Siracusa per eliminare i Fenici dalla Sicilia, seguiti dagli Elleni ateniesi che cercano di conquistare Siracusa (3). Ma Atene e Sparta possedevano risorse limitate: una aveva la flotta, l’altra la fanteria. Con la prima si possono esigere tributi dai porti, con la seconda si tiene il terreno, ma per governare sul serio ci vuole un Impero. La risposta è quindi ovvia: il Mediterraneo diventa un lago quando Roma prima unifica prima l’Italia e poi elimina Cartagine e trasforma lo spazio intorno alla penisola in Mare nostrum. Quando discuto con uno straniero non è facile spiegare per quale motivo l’Italia è da secoli e anche oggi luogo d’invasione invece che padrona di un mare nel quale occupa una posizione assolutamente centrale. E l’ultima figuraccia risale a ieri, quando il nostro vuoto politico è stato occupato dalla Francia di Macron. Ma le invasioni sono di antica data: il Mediterraneo è come un ampio anello le cui rive e isole sono state raggiunte prima o poi da tutte le migrazioni afro-asiatiche. “Rodon”, la rosa, è una parola che i Greci hanno trovato sul posto, e chissà quante altre. Se l’Europa è un concetto medievale, il ratto di Europa è ancestrale: come a dire che ciò che vien da fuori, una volta varcati i Dardanelli diventa altro. Ma proprio sul Bosforo – a Troia – si svolge la guerra più antica di cui abbiamo testimonianza grazie a Omero. L’Iliade è la guerra degli Achei – Elleni, non asiatici – contro i popoli d’Anatolia. Gli stessi Elleni secoli dopo bloccheranno i Persiani di Serse e i loro discendenti romanizzati saranno sconfitti e occupati per sempre dai Turchi solo nel 1453, quando cade dopo mille anni l’Impero Romano d’Oriente. Alessandro Magno aveva orientalizzato il proprio potere per proiettarlo in Asia ma il suo impero fu breve, mentre l’impianto fondato dall’imperatore Costantino si dimostrò ben più solido e duraturo. Questo per dire che il Mediterraneo presenta una frattura originaria che non contrappone solo nord a sud, ma piuttosto ovest contro est. Canfora nota con preoccupazione la recente, progressiva egemonia della Turchia di Erdogan su Siria, Egitto e Libia, sviluppata ora appoggiando l’Isis, ora proponendosi nella mediazione fra le parti in conflitto (è di oggi il vertice di Tunisi), e la vede come una costante: al mare cercano di arrivare i popoli che scendono dalle aride montagne, mentre i popoli civilizzati cercano sempre di combattere i barbari, anche se prima o poi l’esito è scontato. Anche la guerra moderna vive di proiezione ancestrale, e non importa se non sappiamo più combattere e apriamo la porta all’invasore: è il principio quello che conta, la memoria è indelebile. Ovviamente parlo per metafore, quindi nessuno si offenda.
La frattura tra nord e sud si deve invece all’espansione dell’Islam, e qui la tesi di Pirenne, anche se formulata nel 1939, resta valida, nonostante il revisionismo di Cardini, il quale sembra rimuovere il concetto stesso di conflitto per trasformarlo in uno scambio tra culture diverse. E’ vero che certi traffici non si sono mai interrotti del tutto, ma la storia del Mediterraneo è una storia di guerre, di uomini finiti in fondo al mare e di rotte commerciali da difendere o sfruttare a tutti i costi. I secoli bui si devono anche all’interruzione del flusso di cultura e merci tra Oriente e Occidente, come la rinascita segue la ripresa dei flussi arabi che dall’Oriente tornano in Spagna, fin quando i Turchi – musulmani ma alieni – s’impongono prima su Baghdad e poi su Bisanzio. Una storia di lacerazione, ma anche d’incroci e scambi di ogni genere. L’essenza del Mediterraneo è la mescolanza, come diceva il compianto Pino Daniele.
A ricomporre l’unità del Mediterraneo sarà nel secolo XIX il colonialismo europeo: Marocco, Algeria e Tunisia diventano francesi, la Libia italiana, l’Egitto inglese. Ma è un dominio che dura poco più di un secolo, e si dimostrerà per quello che era: superficiale. Come un secolo – dal 1918 a oggi – dura l’assetto del Medio Oriente, seguìto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano (accordi Sykes-Picot) e la nascita di nuovi stati. Fino all’attuale rinascita del Califfato o Daesh che sia, che spazza i confini geometrici tirati sulla carta con squadra e compasso. E una storia non finita, visto che ora si prevede il riflusso dei guerrieri verso la Libia e l’Africa subsahariana. L’autore ovviamente non è un indovino, quindi non può dire come andranno le cose. Fa comunque un’ultima osservazione: la Siria – tirannide minacciata da ben altra tirannide – è il paradigma della fine di un progresso laico, di quel nazionalismo militare modernista che aveva avuto nell’Egitto di Nasser il suo più ambizioso protagonista. Sogno infranto – aggiungo io – dall’unico stato realmente moderno e “occidentale”: Israele.
Infine, è inquietante pensare a una frase di Braudel, già citato: “L’unico destino dell’Africa è invadere l’Europa. L’unico destino dell’Europa è accoglierla”. E’ solo questione di tempo? In mancanza di una vera politica, sicuramente.

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Mediterraneo, una storia di conflitti.
Della difficile unificazione politica del mare nostrum in età classica (e oggi?)
Luciano Canfora
Editore: Castelvecchi (Irruzioni), 2016, pp. 43.
Prezzo: € 5,00
EAN: 9788869447129

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NOTE
1. Maometto e Carlomagno / Henry Pirenne, 1939 e ristampe; Il Mediterraneo : lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione / Fernand Braudel ; con la collaborazione di Georges Duby, 1987; Breviario mediterraneo / Predrag Matvejevic ; introduzione Claudio Magris, 1988; Mediterraneo / Folco Quilici, 1980; Incontri (e scontri) mediterranei : il Mediterraneo come spazio di contatto tra culture e religioni diverse / Franco Cardini, 2014. – sono cinque libri di cui non si può fare a meno, che e offrono una scelta di documenti e opinioni affascinanti.
2. Fedone, 109 b
3. “Greci” erano chiamati esattamente gli Elleni che avevano colonizzato la Magna Grecia, come dire “Americani” invece che “Inglesi”. Se volete far felici i vostri amici greci, chiamateli sempre “voi Elleni”.

Denis Mack Smith, l’inglese che amava l’Italia

Denis Mack Smith lo vidi quando ero studente di liceo: al ridotto del teatro Eliseo (oggi Piccolo Eliseo) c’era l’abitudine dei Martedì letterari, e lo storico fu invitato a presentare al pubblico italiano la sua Storia d’Italia dal 1861 al 1969. L’opera era stata pubblicata da pochi mesi ma già aveva creato un vespaio: rifiutata dall’Accademia, piaceva invece al pubblico italiano, sedotto dallo stile semplice della narrazione, dalla precisione delle fonti e dal taglio innovativo dell’analisi storica. Ostile invece la casta universitaria e istituzionale, a cominciare dall’Istituto italiano per il Risorgimento e giù a caduta le varie cattedre di storia moderna. Quando feci l’esame di Storia del Risorgimento nel 1973 con la Morelli – non per niente detta “la vedova di Mazzini” – guai a nominare “l’inglese”. Il testo di base era ancora l’Omodeo, dove c’erano frasi come questa: “<Cavour> da giovane si coricava sognando non di diventare un giorno primo ministro del Regno Sabaudo, ma bensì primo ministro del Regno d’Italia”. Niente di strano che noi giovani fossimo invece affascinati da un testo che, oltre ad essere scritto da un allievo di Trevelyan (molto apprezzato da mio padre), guardava la nostra storia dall’esterno e senza pregiudizi: Mack Smith non era in quota a nessuno, non cercava voti dai partiti né una cattedra universitaria in Italia.
Intanto, i protagonisti del Risorgimento erano riportati alla loro dimensione umana. Dalle scuole elementari fino all’università, nelle piazze e davanti ai monumenti ai caduti la storia italiana era stata per cento anni gestita come una religione laica, con tanto di santi, sacrari, reliquie e miracoli. Che l’unità d’Italia fosse stata un miracolo forse era anche vero, nel senso di essere la risultante di un insieme di circostanze eccezionali abilmente (ma non sempre) sfruttate dalle classi dirigenti e dalle forze che animavano la società italiana. Ma si trattava di uomini, non di santi. E qui Mack Smith smonta la retorica di Stato: Vittorio Emanuele non era il re galantuomo della storiografia di corte, ma un rozzo cacciatore di fagiani e di donne analfabete. Ma anche Garibaldi – assai più onesto del suo sovrano – i figli li ha sempre fatti con donne di bassa estrazione sociale. Cavour? Un abile tessitore – e fin qui lo sapevamo – ma anche meschino e arrivista, e neanche tanto rispettoso del parlamento. Ma nel gioco politico sicuramente era più lungimirante degli altri, anche se gli obiettivi erano in realtà più limitati di quanto la storiografia ufficiale avrebbe fatto credere in seguito. E’ come se Cavour, il Re, Mazzini e Garibaldi si fossero trovati a gestire una situazione che loro stessi avevano creato, forse intuendone le dinamiche possibili, ma senza saperne realmente valutare gli sviluppi e le conseguenze di lungo termine. Il risultato si sarebbe visto dopo: coalizioni deboli e quindi instabilità parlamentare, monarchia tutt’altro che super partes, leggi elettorali tardivamente adeguate alla nuova società, mancanza di rappresentatività di alcune classi sociali e dei cattolici, peso eccessivo dei notabili locali, squilibri sociali tra le regioni (ereditati ma non risolti neanche oggi), politica estera altalenante e infine nazionalismo, militarismo e colonialismo sfruttati in modo spregiudicato per compensare le tensioni sociali e defletterle verso l’esterno. Da buon inglese, Mack Smith nota che l’Italia è l’unico paese che con le colonie ci ha perso: infatti le motivazioni coloniali non erano economiche, anche se da Crispi in poi se ne intuisce la forza aggregatrice sull’opinione pubblica. Stesso discorso con i sacri confini della Patria.
Ma il nostro autore avrebbe ancora scandalizzato il belpaese quando si occupò di Mussolini, attirandosi anche gli strali di De Felice e levandogli il monopolio del revisionismo. A leggere Le guerre del Duce (1976) e Mussolini (1982) c’è da divertirsi, se non fosse in realtà una tragedia nazionale. In sostanza, Mussolini era un opportunista ossessionato dal Potere, prigioniero della sua autoesaltazione, padrone dei mass-media dell’epoca, intelligente in politica ma autocratico e incompetente sul piano militare. Dati alla mano, Mack Smith dimostra che il Fascismo (“parola italiana per un’invenzione italiana”) ha sempre cercato la guerra ma non si è mai preparato per farla, coi risultati che sappiamo. Purtroppo Mack Smith non si è mai occupato di Berlusconi. Ha seguito amorevolmente la nostra storia fin dove la sua cultura e la sua capacità di analisi potevano giungere, poi si è fermato. In fondo è stato onesto. E a suo modo ha amato l’Italia.

 

 

Psichiatria e politica

Franco Basaglia ce lo aveva insegnato: la psichiatria afferisce non solo alla medicina, ma anche alla politica. Quello che non poteva immaginare è che si realizzasse anche l’opposto: che fosse la psichiatria a occupare il vuoto lasciato dall’analisi politica. A capo del neonato partito anti-islamizzazione (PAI) c’è infatti uno psichiatra criminologo, Alessandro Meluzzi. La fondazione del suo partito è curiosamente simmetrica e contemporanea a quella del suo omologo, il futuro Partito islamico, che è perlomeno promosso da una persona accreditata: Roberto Hamza Piccardo, l’ex esponente dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii). Il 2 luglio, in via Maderna a Milano, si è riunita la Costituente islamica di cui Piccardo è segretario. Un’assemblea che, secondo l’ex esponente Ucoii, “vuole dare una rappresentanza democratica ai circa 2,6 milioni di musulmani italiani”. Chi pensava di guadagnar voti con l’approvazione dello Jus soli ha fatto male i calcoli: i gruppi etnici o religiosi si organizzano da soli, come del resto proprio in Italia insegna l’esempio della Sudtiroler Volkspartei.

L’iniziativa di Meluzzi ha in realtà un inquietante precedente: anche Radovan Karadzic’ era uno psichiatra. Vi rinfresco la memoria: presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, politico e criminale di guerra condannato nel marzo 2016 a 40 anni di reclusione in primo grado dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per genocidio (a Srebrenica), crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi durante la guerra in Bosnia. Sia chiaro: Meluzzi e Karadzic’ sono due persone diverse (per fortuna!), ma la loro coincidenza professionale è più di una curiosità.

Intanto, il dissenso politico verso l’islamismo è etichettato con una parola che non afferisce alle categorie della politica ma della psichiatria: islamofobia, esattamente come l’ostilità verso i gay è bollata come omofobia. Se io sono contrario all’islam politico perché difendo lo Stato laico, i diritti delle donne e la democrazia parlamentare sono forse un malato di mente? L’unica che affrontò il problema solo apparentemente semantico fu qualche anno fa l’antropologa Ida Magli, oggi ingiustamente dimenticata. In sostanza disse che nelle democrazie post-moderne il dissenso politico non ha un reale diritto di cittadinanza nel conformismo generale. Da qui etichette di comodo, come populismo, che scredita l’avversario ma non ne analizza le reali, profonde motivazioni.

Ma torniamo alla psichiatria. Proprio alla luce delle etichette di cui sopra, la spiegazione del paradosso è definibile come un rovesciamento: se tu non accetti o non capisci la mia opposizione politica e mi screditi come instabile mentale, allora io ti dimostro il contrario: sono uno psichiatra, quindi i pazzi veri li curo io. Le Brigate Rosse, l’OLP e l’ISIS, pur praticando il terrorismo, hanno sempre accusato lo Stato di terrorismo, ribaltando così l’accusa. E Karadzic’ trasformò la sua Bosnia-Erzegovina in un enorme manicomio a cielo aperto, dove l’opposizione al “paradiso” serbo era per l’appunto una malattia mentale.

 

Caporetto – una storia diversa

A ottobre di quest’anno ricorre il centenario della più grande sconfitta militare rimasta nella memoria italiana, e il libro di Claudio Razeto cerca di fare il punto su una vicenda tuttora controversa. Lo fa in maniera molto chiara, seguendo gli avvenimenti dal 1916 al 1918 e oltre, corredando la narrazione con una scelta accurata di mappe e fotografie d’epoca. In questo l’autore è uno specialista, vista la sua esperienza di ricercatore di archivi storico-fotografici e il suo lavoro all’ANSA. La dodicesima battaglia dell’Isonzo – così gli Austriaci chiamano Caporetto – portò il nemico a occupare Veneto, Friuli e Carnia in pochi giorni, fino alla linea del Piave, dalla quale è partita la nostra riscossa finale. Il fronte italiano correva per 600 km lungo l’arco alpino, ottimo per difendersi ma non per attaccare. In più, il Trentino (austriaco) s’incuneava in modo tale da minacciare lo schieramento italiano tutto proteso a est. Per ben due volte – nel 1916 con la Battaglia degli Altopiani o Strafexpedition e nel 1918 con la Battaglia del Solstizio – l’Italia rischiò l’invasione dalle valli del nord. A est le vie d’accesso all’Impero Austro-Ungarico erano solo due: la via per Vienna, cioè il valico del Tarvisio (dove era passato Napoleone) e la via per Lubiana, ovvero Gorizia e le gole d’Isonzo. Trieste era invece naturalmente difesa dal Carso, un ampio, arido rilievo prossimo alla costa ma ben difendibile. Scartato stranamente il Tarvisio, Cadorna per due anni e mezzo attaccherà sistematicamente su due soli punti: verso la val d’Isonzo e verso Trieste. Direttrici obbligate: la valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. La presa di Gorizia (1916) è l’unica conquista significativa: le undici battaglie dell’Isonzo, tutte combattute su due soli fulcri, portarono a guadagni di terreno minimi a fronte di perdite enormi. Trieste non fu mai presa e nell’alta val d’Isonzo – circondata dalle montagne – ci attestiamo già dal 1916 nel saliente fra Caporetto e Tolmino. Ed è dal luogo fisico che dobbiamo partire: Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. Noi, incuneati nel saliente, potevamo al massimo prendere Tolmino e risalire la ferrovia sino a Lubiana, mentre il nemico, una volta sfondato il varco verso Gorizia, avrebbe visto aperta la piana del Veneto, costringendo l’intero schieramento italiano ad arretrare per tutto l’arco alpino. E questo è esattamente quanto avvenne il 24 ottobre del 1917.

Il libro si apre immergendoci nello scenario che di poco precede la battaglia: si è conclusa la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) e l’esercito austroungarico ritiene di non poter resistere a un’altra offensiva italiana: al 31 agosto ha lasciato sul campo 85.000 uomini contro 144.000 nostri soldati. Abbiamo pagato un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, ma restano ancora le risorse per un altro attacco frontale, mentre le riserve nemiche sono logorate. Il generale tedesco Ludendorff se ne rende conto e decide di intervenire a favore dell’esercito austro-ungarico. La situazione è favorevole: i Russi sono stati sconfitti e usciranno di scena, quindi è possibile spostare truppe dal fronte orientale. La 14° Armata di Otto von Bulow, marciando di notte, manovra dunque verso la Slovenia, mentre il generale austriaco Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo” rinforza le linee difensive. Cadorna insiste da anni con attacchi frontali sempre sulle stesse posizioni e Boroevic’ su quelle resiste e rincalza di continuo le perdite. La sua strategia è puramente difensiva, forse l’unica possibile, ma ha logorato il suo esercito. Entrambi i generali sono duri e privi di fantasia e combattono una guerra moderna col cervello antico. I tedeschi invece sono tatticamente più moderni e l’hanno già dimostrato su entrambi i fronti, coordinando artiglieria e fanteria e addestrando formazioni di assaltatori – Sturmtruppen – capaci di infiltrarsi in pochi punti dello schieramento e penetrarlo in profondità, superando così la guerra di trincea. Proprio nelle trincee di Caporetto regna una calma irreale: lo schieramento italiano è tutto proteso in avanti, la dodicesima battaglia dell’Isonzo sarà combattuta in primavera, ma Cadorna ha buone informazioni e rinforza le difese. Non può sapere però che i Tedeschi hanno mandato il generale Konrad Krafft von Delmensingen, comandante degli alpini tedeschi, l’Alpenkorps. I suoi uomini hanno un ordine preciso: infiltrarsi, trascurare le cime e sfondare a valle; al rastrellamento ci penseranno le successive ondate di fanteria. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (1 ). Il suo reparto alpino di assalto addirittura prende le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetra per chilometri in profondità, mentre il nostro Comando ancora non ha capito la reale portata dell’offensiva. Colpa nostra: il fronte italiano è tutto proteso verso un saliente, ma poco scaglionato in profondità. E’ uno schieramento anomalo: offensivo ma costretto in uno spazio chiuso e serrabile a tenaglia. Ma Cadorna, pur cosciente del pericolo, non accetta di cedere il terreno conquistato a caro prezzo, mentre il generale Capello, a capo della 2° Armata, non è d’accordo e pianifica una controffensiva che non solo va contro gli ordini di Cadorna, ma che non sarà mai sferrata. Sui contrasti fra i due generali è stato scritto molto, ma senz’altro Capello è più moderno del suo capo. Anche Badoglio, comandante del 27° corpo d’Armata, è fiducioso, ma il giorno dopo i suoi cannoni non spareranno neanche un colpo (2). Questo scoordinamento al vertice sarà disastroso.

Nel libro, l’attacco iniziato alle 02.00 del 24 ottobre 2017 viene descritto come in una radiocronaca, citando anche fonti austro-tedesche (3). Bombardamento intenso e preciso, uso dei gas, seguito dalle 06.20 dall’assalto duro e deciso delle truppe d’assalto contro Plezzo (Bovec) da nord e da Tolmino (a sud), favorite dalla nebbia. Questo comunica una nostra postazione avanzata:

Gli austriaci sono usciti dalle trincee, li vediamo, tra la nebbia, che vengono avanti, passano i reticolati. Noi ci ritiriamo.”

Le linee italiane crollano subito e il sistema di comunicazioni entra nel caos; la resistenza si tramuta in rotta e lo sfondamento del fondovalle spalanca al nemico la pianura friulana e veneta. L’artiglieria italiana non spara un colpo e tutto lo schieramento italiano si ritira in disordine. Ai soldati trincerati sulle quote il nemico ci penserà dopo: le avanguardie vanno avanti, senza preoccuparsi dei collegamenti. Gli stessi tedeschi e austriaci sono sorpresi dal successo. Così scrive un ufficiale austriaco, il tenente Weber:

Neppure la notte impedì agli attaccanti di accrescere a ritmo vertiginoso i successi già ottenuti, di trasformare lo sfondamento in un disastro totale, la ritirata del nemico in una fuga”

Il 28 ottobre, quando Udine non era ancora caduta, il generale Cadorna dirama il discutibile comunicato, passato alla storia, nel quale accusava i soldati di viltà:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2° Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.”

Giudizio ingiusto, sfruttato anche dalla propaganda austro-ungarica. Presto ricorretto ma noto a tutti, questo comunicato fu la Caporetto anche di Cadorna, destituito dal nuovo capo del Governo, Vittorio Emanuele Orlando. Il nemico aveva applicato tattiche più moderne, ma il motivo della sconfitta era tutto interno allo Stato Maggiore. Cadorna in realtà non era diverso da Haig, Joffre, Nivelle e Hamilton: tutti i generali della Grande Guerra erano anziani, aristocratici e disprezzavano le masse quanto il parlamento, quindi incolpare la propaganda disfattista e socialista era per loro normale, solo che in Italia nessun movimento politico d’opposizione – Chiesa cattolica compresa – aveva una reale influenza sui soldati e sulle masse. Piuttosto, la vera carenza della politica italiana – e non solo italiana – era lo scarso controllo sui militari: oggi Cadorna e Badoglio sarebbero destituiti entro un mese e la struttura di SM è più articolata. Quanto ai soldati, ormai ci si chiede piuttosto come hanno fatto a resistere per tanti anni in condizioni di vita inaccettabili anche all’epoca. La risposta sta nelle tante, significative foto che Razeto ha scelto per accompagnare la narrazione: trincee, paesaggi devastati, ma soprattutto uomini. E’ impressionante il contrasto fra Sturmtruppen e fanteria di linea, fra i duri volti degli Schuetzen che difendono casa loro e lo sguardo straniato del contadino italiano mandato su un altro pianeta. Ma è proprio quel tipo di soldato – oggi introvabile – che alla fine ha resistito e vinto.

La narrazione continua: dopo l’Isonzo e il Tagliamento, alla fine – è il 9 novembre – resta la linea del Piave. Abbiamo perso circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri (nota: i morti sono 12 volte meno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo) e l’invasore dilaga in tutta la pianura veneta. La ritirata ora si ricompone, l’avanzata nemica ormai raggiunge la zona di esaurimento dell’offensiva. Nel frattempo il comando passa al generale napoletano Armando Diaz, più umano con i soldati. Anche qui Razeto ci fa praticamente marciare insieme ai soldati, con testimonianze di entrambi i fronti. Alla fine del 1918 l’ago della bilancia penderà dalla nostra parte. Per sempre. Ma il regolamento di conti interno al nostro esercito sarà lungo: la commissione d’inchiesta costituita il 19 gennaio 1918 pubblicherà i risultati nel 1919 e i suoi tre volumi rimangono tuttora un documento fondamentale (4). E infatti l’ultimo capitolo del libro s’intitola: Processo a Caporetto.

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Caporetto. Una storia diversa
Claudio Razeto
Editore: Edizioni del Capricorno, 2017, p. 166

Caporetto – una storia diversa

Prezzo: EUR 9,90

ISBN-10: 8877073330
ISBN-13: 9788877073334

EAN: 9788877073334

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NOTE

  1. Fanteria all’attacco / Erwin Rommel . Longanesi, 1982. Il libro uscì in tedesco nel 1937, quando Rommel insegnava all’Accademia militare di Potsdam.
  2. Badoglio, duca di Caporetto / Carlo De Biase. Roma, edizioni del Borghese, 1965
  3. Dal Monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, 1915-1917 / Fritz Weber Milano : Mursia, 1972. L’autore è un tenente di artiglieria austriaco, il quale stima i nostri soldati molto più di quanto non facessero i nostri generali.
  4. Dall’Isonzo al Piave : 24 ottobre-9 novembre 1917 / relazione della Commissione d’inchiesta R. D. 12 gennaio 1918, n. 35 Roma, 1919.    3 volumi: · 1: Cenno schematico degli avvenimenti . 2: Le cause e le responsabilità degli avvenimenti · 3 / relazione della Commissione d’inchiesta

 

Il Vento dei Balcani

Kosava è il nome di un freddo vento balcanico che origina dai Carpazi e attraverso le Porte di Ferro dilaga fino all’Adriatico: metafora del male perverso che sconvolse l’allora Jugoslavia negli anni ’90 e che ora abbiamo rimosso, anche se da anni manteniamo truppe in Kosovo e la ricostruzione civile in Bosnia non è mai realmente avvenuta.

Il libro è complesso, si snoda per 25 capitoli che coprono gli anni dal 1992 al 1999 e scorre su tre livelli paralleli: le vicende di un gruppo di giovani di Sarajevo, una serie di ricostruzioni storiche e infine – in corsivo – alcune note autobiografiche su quanto l’autore ha visto quando era in servizio. Progetto ambizioso; eppure la narrazione scorre agile, integrata da mappe e foto che aiutano a districarsi nel caos balcanico originato dalla fine di quella Jugoslavia che Tito orgogliosamente descriveva: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un partito”. Il libro inizia a Sarajevo nel 1992, quando la Repubblica di Bosnia-Erzegovina decide di staccarsi dalla Federazione Jugoslava, dopo che Slovenia e Croazia l’hanno già fatto l’anno prima senza troppi traumi. Qui conosciamo i nostri baldi giovani: Milan o Milo (serbocroato di Knin), Vesna (croata di Vukovar), Vesely (di Mostar), Alex (musulmano di Sarajevo), Anja (croata zaratina), Miriam (musulmana di Sarajevo), Branko (serbo), Vlady (serbo di Belgrado), Jadranka (kosovara musulmana di Pristina), Ivan (fratello di Milo). Tutti amici o fidanzati tra di loro, prenderanno strade diverse, tragiche, intrecciando e loro vite con la storia di una barbara guerra civile. Questo mi ricorda proprio un film jugoslavo, Okupacja u 26 slika (L’occupazione in 26 quadri), dove tre giovani amici – un croato, un italiano e un ebreo – seguono strade diverse dopo che nel 1941 Ragusa viene occupata (1). Anche qui i personaggi sono di fantasia, ma verosimili. Seguirne le vicende non è facile (sono una decina!), intrecciate come sono nella brutale, confusa storia balcanica degli anni ’90: gli uomini si arruolano nei rispettivi eserciti o milizie, mentre le ragazze seguono strade più tortuose: Vesna, infermiera a Vukovar, viene stuprata dai miliziani serbi (nel 1991 l’esercito croato quasi non esisteva) ma li denuncia; Anja e Miriam sopravvivranno nella Sarajevo assediata per tre anni (la città fu liberata dalla NATO nel 1995), Jadranka andrà a Pristina ma solo per trovare una situazione peggiore (in Kosovo i Serbi rifecero lo stesso errore di ripetere in piccolo la Grande Serbia). Ma lasciamo al lettore il piacere della sorpresa

Se le vicende dei nostri giovani sono intricate, la descrizione degli avvenimenti storici è invece molto chiara: ordinata cronologicamente per paragrafi, rende quasi comprensibile una storia quanto mai complicata. Ma non è un’asettica sinossi scolastica: il nostro generale non fa sconti a nessuno, neanche alla civile Europa che è intervenuta tardi e male. La guerra civile è stata brutale, al di là di ogni standard di civiltà, combattuta da quattro eserciti regolari e un numero imprecisato di milizie canaglia al di fuori di ogni controllo (2). Tito aveva costruito uno stato rispettato da tutti, mentre i vari Tudjman, Izbegovic’, Milosevic’ e Karadzic’ hanno cercato solo di creare impossibili nazioni omogenee, purificate attraverso ‘pulizie etniche’ (3), che hanno anche aperto gli occhi di noi italiani sull’esilio istriano e dalmata. Anja, uno dei personaggi di finzione, è di Zara e attraverso di lei ricostruiamo la storia della sua famiglia, che è poi quella – sorpresa! – del generale Di Grazia.

E con questo passiamo al terzo livello del libro: le memorie personali del generale, il quale ha avuto dal 1991 al 1999 una serie di incarichi di responsabilità nelle zone toccate dal conflitto. Tutti noi lo ricordiamo quando nel 1996 appariva in tv parlando dal comando della brigata „Garibaldi“ a Sarajevo. Ma è stato anche capo ufficio operazioni della inadeguata ECMM (Missione di monitoraggio della Comunità Europea) che doveva controllare gli accordi tra serbi e croati ed è stato addetto militare a Belgrado nel 1999, sotto le bombe anche nostre (4) : per un’alchimia tutta italiana, la nostra ambasciata non ha mai chiuso i battenti. Il nostro generale ha aspettato la pensione per dire la sua, ma è un testimone onesto: scrive solo di quello che ha visto di persona. E ne ha viste di tutti i colori: a Brcko e Velika Kladusa (Krajina) i Serbi non permettono ispezioni nelle zone contese tra Croazia e Bosnia; nel 1996 visita il campo di concentramento di Omarska, teatro di stupri e violenze di ogni genere; descrive le distruzioni di Vukovar, città martire croata nel 1991 ma martire serba nel 1995 (nell’ex-Jugo vittime e carnefici si scambiano spesso le parti) ; nel 1995 viene accolto a Zara come un doge veneziano, mentre a Sarajevo l’aereo deve scendere in picchiata per evitare i cecchini appostati sulle alture (egli.  ispezionerà il „viale dei cecchini“ ad assedio finito, nel 1996). Ispeziona la zona del mercato di piazza Markale dopo la strage (con i giornalisti già sul posto!), per dedurne che non si trattava di un colpo di mortaio ma di una bomba messa di proposito. Riesce a parlare con ambienti vicini ai mujaheddin, i miliziani musulmani stranieri venuti in aiuto di Izbegovic, verso i quali prova un’istintiva diffidenza, ed ora sappiamo di averla scampata bella (5). Non crede alla morte del comandante Arkan o almeno ha ancora qualche dubbio (forse è esfiltrato come Pavelic’). Descrive il tunnel che dall’aeroporto di Sarajevo conduceva alla città e ne permetteva il rifornimento, e che può vedere solo quando diventa vicecomandante del contingente italiano e responsabile di una delle JMC (Joint Military Committee, Commissioni militari miste); descrive il palazzo distrutto del giornale Oslobodjenje (libertà), che continuò fino all’ultimo a informare la gente. Discute spesso con generali serbi peraltro intelligenti ma tarati dall’ossessione della Grande Serbia, mentre invece a Knin i Croati negano che esistano le Krajine (all’origine: marche di frontiera abitate da soldati-contadini serbi). Ma le menzogne si sprecano, soprattutto quando – mappe alla mano – non si capisce dove siano finite centinaia di abitanti registrati in precedenza ma fuori del conto dei profughi: fosse comuni ne salteranno fuori per decenni. Descrive il ponte di Mostar distrutto, simbolo per secoli della convivenza etnica; discute le responsabilità della strage di Srebrenica voluta dal generale serbo Mladic’ (1995), affermando che, anche se i caschi blu olandesi hanno fatto male il loro lavoro, le regole d’ingaggio ONU erano troppo vincolanti (p.es. permettevano l’autodifesa ma non il combattimento), ben diverse da quelle della missione IFOR della NATO, che solo in quel di Sarajevo distrugge 20.000 tonnellate di munizioni. Quelli del nostro generale sono tutti incarichi delicati, del cui funzionamento poco o nulla sapevamo ed ora vediamo descritti dall’interno. Nell’ultima parte del libro gli Italiani proteggeranno i Serbi che lasciano Grbavica, il loro quartiere di Sarajevo: ormai hanno perso, anche se Milosevic’ ci riproverà in Kosovo, dimostrando di non aver capito niente e attirandosi le bombe della NATO. E proprio a Belgrado si consumerà a fine secolo l’ultimo atto della tragedia iniziata dieci anni prima.

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Titolo: Kosava. Vento di odio etnico nella ex Jugoslavia da Tito a Milosevic
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: ilmiolibro self publishing
Collana: La community di ilmiolibro.it
Editore: Pubblicato dall’Autore, 2016
Pagine:264

ISBN 8892312200
EAN:9788892312203

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NOTE

  • https://www.youtube.com/watch?v=oHmSX9Z-5B0&spfreload=10 Il film è del 1978, opera del regista croato Lordan Zafranovic’. L’ho visto in un festival, ma non ha mai circolato in Italia. Ora per fortuna è su Youtube.
  • L’Armata popolare federale (JNA), l’esercito della neo Repubblica di Bosnia, quello della Repubblica Srpska, più quello della Repubblica croata dell’Erzeg Bosnia. Difficile fare invece il conto delle milizie, armate e finanziate neanche di nascosto dai vari attori politici.
  • Pulizia etnica significa trasformare una minoranza relativa in maggioranza assoluta cacciando tutti gli altri. Il termine appare negli anni ‘90.
  • Ufficialmente i nostri Tornado erano ricognitori fotografici
  • http://www.nytimes.com/2009/06/24/world/middleeast/24saudi.html