Tutti gli articoli di Marco Pasquali

W Il libro elettrico!

Tutti quelli che sviliscono l’e-book esaltando il gusto tattile del polpastrello sulla pagina stampata, annusando con voluttà l’aroma della cellulosa intrisa di inchiostro, del sudore assorbito dalla legatura, sinceramente io li trovo ridicoli: il feticismo è una perversione. Ma soprattutto, si continua a confondere la lettura con lo studio e la consultazione. Leggere un romanzo in poltrona non è lo stesso che dover scrivere un articolo entro poche ore su un argomento specializzato o dover mettere insieme o tenere sotto controllo una documentazione derivata dalle fonti più disparate e voluminose. Che poi i dispositivi per la lettura degli e-book sembra siano stati progettati da gente che legge poco è un’altra storia; si arriverà prima o poi a uno standard accettabile anche in quel campo, a patto che gli elettricisti ne discutano con chi i libri li legge sul serio. Solo a quel punto margini, luminosità e leggibilità raggiungeranno livelli civili. Aggiungo pure che un libro in digitale non può essere la semplice fotocopia elettronica della pagina stampata: a parte il diverso formato e orientamento della pagina, le note devono esser risolte con un link ipertestuale.

Io purtroppo la questione la vedo da un punto professionale: sono un bibliotecario e faccio questo mestiere da molti anni, durante i quali le risorse assegnate – spazio, soldi, personale – si sono sempre più assottigliate, sia per la crisi economica, sia per il disinteresse di politici e amministratori. E’ una situazione comune a molte biblioteche specializzate, e la ricaduta negativa sul servizio è disastrosa. E allora, in mancanza di spazio e personale, ben vengano i documenti che non occupano spazio fisico, si possono trasmettere via email in pochi secondi, sono facilmente accessibili, copiabili e stampabili. E basta con le fotocopie che distruggono i libri rilegati, con le raccolte di leggi e leggine che cambiano ogni giorno, con le annate rilegate della Gazzetta Ufficiale: quei tomi non servono a niente. E se una università tedesca o americana decide di trasferire in digitale l’intero corpus della letteratura latina classica e medioevale, benissimo, purché non si valga di edizioni critiche antiquate (per non pagare il copyright). E se le riviste accademiche fossero stampate in pdf invece che su carta, il risparmio sarebbe enorme, a patto di non cedere i diritti a editori monopolisti come Elsevier o Serra, che fanno pagare un’annata quanto un’auto di seconda mano. E invece ogni giorno mi devo sentire l’elogio della carta da parte di chi non deve tenere in ordine 20.000 volumi, tre quarti dei quali non sono mai stati consultati da nessuno. Quindi, almeno per il futuro cerchiamo di occupare meno spazio possibile.

 

Arabia In-Felix

Sull’Arabia Saudita le opere in italiano non sono molte e il libro di Liisa Limatainen riempie un vuoto, visto che il documentato libro di Pascal Menoret, Sull’orlo del vulcano. Il caso Arabia saudita risale al 2004 e ha un taglio accademico, mentre la Limatainen è una nota giornalista finlandese che da anni vive a Roma, ma ha scritto già un libro sull’Iran (non ancora tradotto) ed ora ci offre uno spaccato trasversale dell’Arabia saudita, una nazione strategicamente importante quanto ideologicamente arretrata, ai limiti del medioevale. E se il libro di Menoret si preoccupava delle future conseguenze dell’immobilismo della famiglia reale e della dirigenza religiosa, il crollo del prezzo del petrolio ha messo ora in crisi il patto sociale che manteneva stabile la società saudita: benessere senza diritti civili. Stiamo parlando di un paese dove non esiste parlamento né codice civile e penale strutturato, dove le esecuzioni capitali avvengono sulla pubblica piazza e la polizia religiosa bastona i trasgressori; un paese dove la popolazione ha una scarsa coscienza dei diritti civili e l’estesa famiglia reale ha il monopolio di tutte le attività politiche e produttive. Ma è anche un paese dove più della metà della popolazione è giovane, ma oggi è disoccupata e non può comprar casa. Quanto alla condizione femminile, l’Arabia saudita vieta alle donne di guidare l’automobile e praticamente prevede una tutela continua di un familiare maschio. Peccato che le donne siano ben più colte degli uomini – molte hanno studiato all’estero – e stiano anche lavorando sul Corano per discuterne il reale messaggio sociale. E proprio con molte donne Liisa ha parlato: attiviste politiche, avvocate, impiegate, ma anche donne comuni, pur con il limite di un interprete. E’ stato un lavoro paziente e sistematico, ma alla fine esce un quadro anche diverso da come ci s’immagina una società in realtà molto complessa e diversificata sia per zone geografiche che culturali, ma che continua a confondere la modernizzazione con la modernità e ha re islamizzato un paese islamico pur di battere la concorrenza degli integralisti religiosi. Integralismo che sta alla base dello stato stesso, che non è – si badi – uno stato teocratico, ma condizionato da un’alleanza di ferro fra un clan tribale originario e il clero rigorista wahabita. Ora, per capire la differenza tra questa corrente rigorista e il resto dell’Islam, si tenga presente che la fonte del diritto è naturalmente il Corano e l’insieme dei detti del profeta, ma le scuole coraniche non rigoriste accettano anche l’enorme corpus del diritto consuetudinario che gradualmente si è formato attraverso migliaia se non milioni di sentenze dei tribunali islamici. Questo ha perlomeno adattato alla modernità usi e costumi pensati mille anni fa da una società di allevatori nomadi, analogamente all’interpretazione della Bibbia rielaborata dai nostri teologi. E’ chiaro che il Diritto Romano nulla deve alla divinità, ma stiamo parlando di un altro mondo. Ora, l’interpretazione wahabita non tiene conto proprio delle sentenze del diritto consuetudinario, congelando il diritto alle prime due fonti e di fatto rifiutando la modernità e costringendo la gente ad applicare le regole in modo dogmatico e rigido. E qui subentra la famiglia reale – in realtà un clan tribale superficialmente modernizzato – dagli anni Trenta del secolo scorso è custode dei luoghi sacri del Corano, a cominciare dalla Mecca, e questo dà un prestigio immenso nel mondo musulmano. In più, naturalmente, il petrolio, che ha permesso di stabilire con gli Stati Uniti un patto che risale agli anni Trenta del secolo scorso: protezione in cambio di petrolio e ruolo di mediazione con gli altri paesi arabi. Le forze armate saudite hanno più mezzi che soldati, e proprio ieri gli USA hanno venduto loro armi per 100 miliardi di dollari. Questo non toglie che negli ultimi anni i rapporti tra i due paesi non sono buoni: gli Usa non sui sono mai intromessi nel sistema medievale con cui è governata l’Arabia saudita, ma il finanziamento neanche tanto occulto con cui i salafiti foraggiano il terrorismo islamico e centinaia di moschee integraliste ha provocato reazioni che hanno modificato comunque i rapporti diplomatici tra i due paesi. L’Iran è un antagonista, l’Arabia saudita un ambiguo alleato dell’Occidente, ma anche la pazienza ha un limite. Ma che il paese abbia un peso lo indica il suo ruolo all’ONU nella Commissione per i diritti umani, che è come affidare il ministero degli Interni ad Al Capone. E qui arriviamo al punto nodale: se il livello di civiltà di un paese si misura sulla base del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche – afferma la Limatainen (ma potrebbe dirlo chiunque) – allora l’Arabia saudita è uno degli stati più retrogradi della Terra e in più opprime le donne in maniera patologica, e il libro è pieno di esempi.

Il lettore intelligente si chiederà a questo punto: ma quanto può durare uno stato simile? La guerra in Yemen è costosissima, l’economia non è diversificata, la metà dei giovani non può comprar casa o trovare lavoro e quindi non può sposarsi subito. Nonostante il petrolio la metà della popolazione vive in povertà, la scuola non prepara i tecnici e la modernità non può essere governata con un codice buono per i beduini. Quello che è peggio, i giovani militarmente addestrati all’estero o in patria, quando tornano diventano i più pericolosi nemici della famiglia reale, e in questo la politica saudita alleva piccoli Frankenstein, come dice la Limatainen. Ma nemmeno la popolazione normale è ferma: pur in un regime di censura, nei soli ultimi cinque anni è esploso il Web, tutti i giovani sono connessi e possono farsi un’idea di come vivono gli altri. Il confronto non è tanto con il corrotto e infedele Occidente, ma proprio con i paesi vicini e affini – Oman, Emirati arabi, Dubai, col risultato di vedere che si vive meglio e con un minimo di diritti civili. Le strade sono dunque solo due: una lenta, progressiva apertura verso una rappresentanza politica delle classi sociali, unita a una modernizzazione legislativa e scolastica adeguata ai tempi. Se la famiglia reale sarà capace di trasformare il potere in una monarchia costituzionale, bene. Altrimenti è facile prevedere una serie di rivolte sanguinose entro pochi anni. Staremo a vedere.

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Titolo: L’Arabia Saudita. Uno Stato contro le donne e i diritti
Autore: Liisa Liimatainen
Titolo originale: Saudi-Arabian toiset kasvot. Rohkeita naisia ja Kybernuoria
Traduzione: Irene Sorrentino
Editore: Castelvecchi, 2016, p. 284
Prezzo: 19,50 euro

EAN: 9788869446498

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Qualcosa di più:

Arabia Saudita: Le donne si ribellano al controllo maschile
I Diritti Umani secondo i sauditi

Un anno di r-involuzione araba
Primavere Arabe: il fantasma della libertà
Donne e Primavera araba. Libertà è anche una patente

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All’estero si va solo in borghese!

Una recente circolare del Ministero della Difesa sospende da oggi le autorizzazioni per l’uso della divisa al personale militare in congedo non in attività di servizio o missione, che vuole recarsi all’estero per significative manifestazioni di carattere militare (gare sportive, incontri di delegazioni militari, raduni, esercitazioni) (1). Finora l’associazione d’Arma di riferimento mandava formale richiesta all’ente o Comando responsabile della manifestazione per il nulla-osta, e tutto poi passava per gli addetti militari d’ambasciata. Ora invece si dice che: “Il mutato quadro geo-politico che ha interessato la comunità internazionale suggerisce di valutare la limitazione dell’uso delle uniformi fuori dal territorio nazionale per i militari in congedo non in attività di servizio. Infatti, negli ultimi anni gli Addetti Militari hanno richiamato l’attenzione circa la necessità di attenersi ai divieti di indossare le uniformi fuori dall’attività di servizio che le autorità internazionali impongono anche ai propri militari”. Terrorismo, dunque: ormai i singoli militari sono diventati bersagli invece che deterrenti, ed è  meglio non creare confusione con la presenza di personale in divisa d’incerta identità, soprattutto all’esterno delle zone militari.

Dopo avervi annoiato, vi chiederete il motivo di tanto interesse da parte mia: ebbene, sono uno di quelli che ha partecipato a gare sportive internazionali indossando la divisa del militare in congedo, e con me centinaia di connazionali che a suo tempo hanno fatto il militare ma amano ancora tenersi in forma. Sia chiaro: nessuno di noi è antimilitarista. Chi è vicino alla frontiera trova molto interessante e poco costoso partecipare con la propria squadra a una gara addestrativa in Svizzera, Baviera, Austria o Slovenia, dove sei accolto dai riservisti locali, ti sposti con mezzi militari, puoi usare armi vere e partecipare ad esercitazioni dure e complesse, entrando in competizione con reparti in servizio e riservisti ben addestrati. Mentre in Italia sei castrato e malvisto dall’inizio alla fine, all’estero hai una dignità. Anche arrivando agli ultimi posti – ma non sempre – la mia squadra si è misurata con reparti di professionisti e nel corso degli anni ha riempito di coppe la nostra sezione del Fante. Altri preferiscono invece andare a sparare nei poligoni militari stranieri perché lì puoi usare armi che in Italia puoi solo guardare anche se sei un carabiniere. Infine, sono venuto a sapere che l’Associazione volontari di guerra (esiste ancora) è assidua frequentatrice della festa della Legione Straniera a Calvi (Corsica). Non stupitevi: chi vuole avere una copertura giuridica spesso s’iscrive ad associazioni morenti, purché riconosciute dal Ministero della Difesa. Il guaio è che spesso non è facile controllare l’assetto formale e la disciplina di certa gente: ho sentito di uno che è andato in giro in mimetica per le vie di Amsterdam, mentre poteva farlo solo in caserma e per la durata dell’esercitazione. Voi direte: per chi sgarra c’è la polizia militare. Ebbene, il problema nasce proprio dallo status dei militari in congedo italiani: esistono associazioni di ex-combattenti e associazioni d’Arma riconosciute dal Ministero della Difesa, ma non esiste la Riserva, quindi giuridicamente i militari in congedo italiani sono solo civili iscritti ad associazioni di diritto privato, le quali accolgono nei loro ranghi anche simpatizzanti che non hanno mai fatto il militare. Partecipare a gare “riservate ai riservisti” senza esserlo è stata una bella acrobazia, finora tacitamente tollerata. Ora la pacchia è finita. So bene che tutto questo piacerà molto alla maggior parte dei lettori e delle lettrici, ma concedetemi – è il caso di dirlo – l’onore delle armi.

 

NOTE

  • La normativa SMD-G-010, sezione VI, regola le disposizioni sui militari in congedo e il regolamento sulle uniformi. La parte riferita all’estero è al paragrafo 31.

Roma Criminale

MP Libri Mala romanaLa mala romana è diversa dalle altre? Beh, intanto non opera una sola organizzazione criminale, come a Palermo o a Reggio Calabria: la capitale è immensa, la periferia è un’ampia zona grigia dove si può essere delinquenti e lavoratori allo stesso tempo e si direbbe che c’è posto per tutti, sia italiani e stranieri. In più, manca una vera gerarchia e la banda della Magliana sembra più un mito che una reale piramide: il malavitoso romano tende a formare bande temporanee, è un anarchico e – tenendo il conto di quanti di loro muoiono poveri dopo colpi milionari – nemmeno è un’aquila. Ma Roma è anche la capitale dei fattacci più neri e questo libro, scritto da un commissario e da un giornalista, oggi entrambi in pensione, ripercorre il peggio della Roma degli anni ’80 e ’90 e oltre. Altri tempi: poca elettronica, centraline telefoniche analogiche e intercettazioni macchinose. Le videocamere erano meno invasive di oggi e il DNA era roba per l’Università. Reperibilità – senza cellulari – significava turni di 24 ore davanti a un fisso e addio moglie. Attualmente la tecnologia è diventata quasi un feticcio e ha permesso in effetti di risolvere casi difficili o “freddi”, anche se la CIA rimpiange i cocktail party d’ambasciata; ma ancora pochi anni fa si lavorava ancora con i sistemi della vecchia scuola: pedinamenti, informatori, torchiate e minacce, ricognizioni suola e tacco e in più quella strana familiarità che c’è sempre stata tra guardie e ladri. La realtà di una questura non è come nei film e chi è stato anche una sola volta a San Vitale se ne accorge subito: si passano ore a buttar giù verbali, interrogare i sospetti, confrontare foto segnaletiche, altro che inseguimenti per strada con la pistola in pugno, che qui comunque non mancano. Un’auto civetta della Mobile viene persino fermata dai Carabinieri per quanto “barabba” sono i poliziotti a bordo. Come al solito, tra Madama e la Benemerita non c’era mai stata una vera collaborazione. Ma andiamo oltre. Montalbano si occupa di un omicidio per volta, ma Roma non è Vigata e la squadra omicidi segue invece anche quindici casi tutti insieme, né è vero che il crimine paga sempre: c’è chi se l’è squagliata col malloppo o non è mai stato identificato, come a via Poma. In più c’è una scia di morti ammazzati forse riconducibili a singoli episodi criminali, ma resta sempre una zona grigia. Infine, in questo libro la magistratura non ci fa bella figura e le polemiche non sono neanche tanto velate. Come dice la mafia cinese, “Testa di dlago e coda di selpente”.

Ma chi sono gli autori e protagonisti di questo spaccato sulla Roma criminale? Il poliziotto è Antonio Del Greco, ex dirigente della Omicidi e di altre sezioni della squadra mobile romana, 88 casi risolti e una sfilza di attestati per il suo intuito e impegno, mentre Massimo Lugli è un giornalista di ‘nera’ e scrittore. Ancora in tempi recenti i cronisti del Messaggero erano di casa in Questura, persino sulla scena del crimine era facile vedersi intorno i curiosi e tra poliziotti e stampa c’era un tacito accordo: le confidenze integravano i “mattinali” e ognuno sapeva fin dove poteva arrivare e quello che si poteva scrivere, pena lo scarico.

Ma torniamo ai fatti, anzi ai fattacci. Anche se gronda sangue e violenza, il libro è persino divertente, tra il noir e la farsa. Grotteschi i “cassettari” catturati mezzi nudi e puzzolenti mentre scappano per fogne e tombini dopo aver tentato il colpo al caveau; pasoliniano il “gattaro” che fa a pezzi il falegname; comiche le scuse dei delinquenti arrestati in flagrante, soprattutto quelli che entrano ed escono da Regina Coeli; pittoreschi da sempre i vari soprannomi dei balordi romani, puntualmente ricamati dal Messaggero. Più subdoli i truffatori, dalle mezze tacche di strada ai Madoff dei Parioli, ma è quasi noiosa la frequenza del loro giro: pezzi di vetro rifilati alle vecchiette, macchine di lusso e appartamenti in asta giudiziaria per la fascia alta. Neanche un rigo sugli zingari, ma parecchio da dire sulla mafia cinese, che aveva da poco iniziato a pelare i propri connazionali ed era quasi impenetrabile: la rete di confidenti della Questura non conosceva certo i dialetti cinesi né le modalità delle Triadi. Né erano ancora dilagati i centri di massaggi, oggi periodicamente chiusi dalla polizia per ovvi motivi.

Alcuni casi ce li ricordiamo benissimo: il Canaro, via Poma, Jonny lo Zingaro, la Banda della Magliana, qui tutti seguiti “sul campo”. E qui saltano fuori documenti inediti, foto scattate dal fotografo Mario Proto sulla scena del delitto, commenti a caldo e la soddisfazione di aver risolto la matassa. Altri casi sono meno eclatanti: l’eredità contesa, i giri di escort all’Hilton, i soldi falsi e altri “bidoni”. A Roma si sparava tanto, ora meno, visto che è più redditizio clonare carte di credito che rapinare un benzinaio o il farmacista, roba da tossici Il commissario e il giornalista sono accomunati dal fiuto e anche dalla competenza di chi vive per strada. E anche da qualche botta diciamo di fortuna.

A margine, si trova anche un utilissimo glossario “poliziese-italiano”, con la spiegazione delle espressioni gergali e giudiziarie, o anche degli “orrori grammaticali”, utilizzati per restituire una narrazione dei fatti quanto più fedele possibile alla realtà.
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Città a mano armata
Massimo Lugli, Antonio Del Greco
Editore: Newton Compton, p. 319, 2017

EAN: 9788822700131
Prezzo: euro 9,90 e-book 4,99

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La Fine dell’Antiquariato?

Così scrivevo tre anni fa parlando del film di Tornatore, La migliore offerta:

RomaCultura Copertina 2007 novembre Roma Porta PorteseAnche l’attrazione per l’antiquariato fa parte della modernità. Sappiamo tutto in ogni momento e le nostre sicurezze vengono alimentate in tempo reale dalle informazioni in rete. Ma degli oggetti antichi non sappiamo mai realmente nulla, a meno di non esser specialisti. La figura dell’antiquario rimane per molti tuttora ammantata di un alone di mistero, anche se di misterioso c’è poco: si tratta di cultura, esperienza, fortuna e intuito per valutare e comprare per tempo quello che un giorno da vecchio diventerà antico e prezioso. E’ anche l’arte di sfruttare il tempo, e infatti il film finisce in un locale pieno di orologi. Il tempo può analizzarlo chi non vive solo nel presente; per questo la gente comune ha dell’antico una coscienza generica, è incapace di distinguere le stratificazioni temporali, le tecniche e i falsi”.

Devo dire che purtroppo le cose a Roma sono cambiate, e non credo solo da noi. Vanno ancora bene monete e medaglie, mentre è crollata la filatelia, ma fatevi una passeggiata al centro: in via dei Coronari restano solo 17 dei 151 antiquari o sedicenti tali che ancora vent’anni fa costituivano una potente associazione di categoria. Basta farsi un giro da quelle parti per vedere le stesse schifezze di altre zone del centro: negozi di souvenir, mangiatoie veloci (in inglese: fast food), bottegucce per turisti poveri e tane per alcolisti notturni, magari gestite da immigrati. Stranieri che vendono a stranieri. A piazza Navona la bottega di stampe Nardecchia ha chiuso per trasferirsi altrove. Anche le case d’aste di livello registrano un calo della richiesta in alcuni settori (i mobili antichi, p.es.), con conseguente riduzione dei margini di guadagno. Ma chi scrive si ricorda di ben altri fasti: negli anni ’70 ogni settimana arrivavano dal Regno Unito i tir pieni di mobili inglesi, prontamente smistati nei negozi o inghiottiti da misteriosi magazzini, dai quali ne usciva un lotto per volta, debitamente restaurato. La classe media allora fiorente comprava a piene mani e si faceva guidare dagli esperti, non tutti onesti a dire il vero: c’era tutto un sottobosco di mediatori, nobili decaduti, artigiani e falsari anche pittoreschi, capaci di trovare il cliente di tendenza – spesso gente legata al cinema e allo spettacolo – e di imporre la moda. Oggi le case sono piccole, i giovani arredano da Ikea o inseguono gli anni ’50 (per loro antichi e rassicuranti nele loro forme arrotondate) e la classe media è stata massacrata da dieci anni di crisi. Appare oggi una nuova clientela: i russi (embargo permettendo) e i cinesi, questi ultimi più interessati a ricomprare (o a rubare, come da un museo norvegese) i tesori prodotti dalla loro cultura. Né si vedono più in giro le icone russe: crollato il comunismo il mercato ne fu inondato per un paio d’anni, poi c’è stato il giro di vite e oggi chi ci prova – antiquario europeo o mercante russo – finisce subito in galera. Come è anche più stringente il controllo dei Carabinieri e della Guardia di Finanza sul commercio delle opere d’arte. Negli anni ’60 e ’70 gli impianti di allarme erano più rari e primitivi, per cui furono svuotate chiese di provincia, archivi, biblioteche e case private. Molte opere non erano state neanche fotografate; da qui le surreali denunce di furto di una “Madonna con bambino” o di un “Ritratto di gentiluomo”. Di suo la Chiesa s’inventò il Concilio Vaticano II, con la conseguente dispersione di un patrimonio di paramenti, abiti talari e suppellettili di arte sacra che finivano a Porta Portese o riciclati come materiali di scena dei teatri sperimentali. Non ha mai decollato invece il commercio delle armi antiche, viste le costose restrizioni imposte dalla legge italiana in materia. Chi cerca armi antiche se ne va in Svizzera o a Londra o segue le aste internazionali.

E passiamo ai libri e alle stampe. Qui purtroppo non parlo da cronista, visto che la bottega di libri e stampe antiche di famiglia aperta nel 1949 ha chiuso per sempre i battenti a gennaio di quest’anno. Quando Walter Benjamin scriveva il suo noto saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), aveva bene in mente le potenzialità dell’industria tipografica, della fotografia e del cinema, ma ovviamente la fotografia digitale e l’internet erano al di là da venire. In questo momento l’offerta d’immagini è un esempio di sovraesposizione. Sia riprodotte che originali. In più le ristampe elettroniche dei libri rari sono all’ordine del giorno.

Che dire? Abbiamo cambiato secolo, anzi millennio, ma non ce ne eravamo accorti.