Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Filologia Atac-chense

MP Atac IMG_20170206_120113Con tanti attori e doppiatori che abbiamo a Roma, sorprende il tono svogliato e depresso con cui vengono annunciate sulla metro le prossime fermate, come pure l’accento impastato (irlandese?) con cui sulla Metro B una voce femminile annuncia che “the train terminates here”. Ma davvero poi si dice così o non siamo piuttosto ai livelli del “menu to consult” e dell’ “homemade tiramisu” che si legge nei locali del centro?

Ebbene, aggiornatevi. Prendo oggi il 62, la vettura è nuova e una voce annuncia le varie fermate. Eccone una: “Csò Vittorio Emanuele – Argentina”. Proprio così: “csò”. Sul display si legge chiaramente “C.so Vittorio Emanuele – Argentina”. La fermata successiva è addirittura meglio: “Csò Vittorio Emanuele – Nàvona”, con l’accento sulla terzultima sillaba. Già l’altra settimana prendendo il 30 avevo sentito “Piazza Venezia – Aracòili”, pronunciato come avrebbe voluto il latinista Ettore Paratore. A questo punto è chiaro che la ditta che ha subappaltato la lettura dei testi a oscuri immigrati neanche ha ricontrollato il lavoro svolto. E immagino altri possibili annunci: “largo pioxi”, “via di sagnese”, “slorenzo in lùcina”

 

Eroe senza armi

La battaglia di Hacksaw Ridge 53449Dare la medaglia in guerra a un obiettore di coscienza è un paradosso, eppure è successo: nel 1945 il soldato Desmond T. Doss fu decorato con la medaglia d’onore per aver salvato 75 commilitoni durante la guerra del Pacifico senza sparare un colpo. Doss proveniva infatti dalla Virginia rurale ed era devoto di una delle tante bizzarre chiese cristiane riformate americane. Figlio di un agricoltore ubriacone e manesco, rifugge dalla violenza e interpreta la Bibbia alla lettera, ma come il fratello si arruola volontario per combattere i Giapponesi, disobbedendo al padre, un veterano decorato ma rimasto traumatizzato. Ma quando in caserma si rifiuta di prendere in mano il fucile, viene naturalmente preso di punta dal sergente e dai camerati: siamo in guerra e il suo gesto viene interpretato come vigliaccheria. Deferito alla giustizia militare, riesce però a spuntarla grazie all’interessamento di un alto ufficiale amico del padre, col quale aveva combattuto in Francia nel 1918. Andrà dunque in guerra, ma come aiutante di sanità (1). Nel frattempo si era anche fidanzato con una graziosa infermiera locale.

Dopo l’amena Virginia e la dura caserma, il film si sposta dunque nell’isola di Okinawa, dove si combatte da due mesi una serie di scontri sanguinosi con un nemico asserragliato nelle sue posizioni e quanto mai determinato. I nuovi arrivati dovranno attaccare di nuovo le posizioni giapponesi, incavernate in un altopiano roccioso raggiungibile solo dopo aver scalato con le corde un costone a picco sul mare. Non è impresa facile e già un reparto è stato annientato durante il primo attacco. Non va bene neanche ai nostri, che subiscono forti perdite, si trincerano per la notte ma saranno ricacciati indietro da un contrattacco all’alba. I nostri si ritirano, ma sul campo lasciano molti morti e feriti. Sarà il nostro Doss a recuperarne quanti può, uno per uno, calandoli con le corde dal costone roccioso verso le retrovie. Deve anche far presto, perché i giapponesi rastrellano e non fanno prigionieri. Ma una voce interiore gli dice “ Signore, fammene salvare ancora un altro” e lui continua sino allo sfinimento. Nel finale del film i nostri, galvanizzati, conquisteranno finalmente le posizioni dopo durissimi combattimenti. Chiude il film una serie di brevi interviste al vero soldato Doss, al sergente e a chi l’ha conosciuto. Doss è morto pochi anni fa.

Cinematograficamente parlando, il film è molto originale, nonostante sia ormai difficile dire qualcosa di nuovo sulla guerra. Anche se le scene di caserma le abbiamo viste tante volte, l’idea di partenza è unica e dimostra la vitalità di un genere ormai gestito solo dagli americani, visti i costi di produzione. Sono ormai remoti tempi in cui il soldato morente riusciva a dire tutto prima di spirare e i commandos giravano per la giungla senza graffiarsi la divisa: in questo come in altri recenti film di guerra il realismo della battaglia raggiunge livelli impensabili finanche vent’anni fa. Quello che in questo film poi sorprende non è solo la violenza dello scontro, ma il terreno: senza conoscere Okinawa, sembra di stare piuttosto dentro la prima Guerra Mondiale: attacchi a bunker e trincee, combattimenti corpo a corpo, contrattacchi feroci, fragore e confusione ovunque. I Giapponesi non arretrano di un passo e la loro sorte è segnata, ma la vittoria ha un duro prezzo. Furono proprio i combattimenti così sanguinosi ad accelerare la costruzione e il lancio della bomba atomica sul Giappone.

  • Nella versione italiana, erroneamente definito “medico”. Altra perla del doppiaggio, il solito “Esci fuori dalla mia vista!” ( = get off my sight). Ma è davvero tanto difficile dire “Soldato, levati dalle palle” ?******************************

    La battaglia di Hacksaw Ridge coverlg_homeLa battaglia di Hacksaw Ridge
    (Hacksaw Ridge)
    Anno     2016
    Durata     139 min
    Colore     colore
    Regia     Mel Gibson
    Sceneggiatura     Andrew Knight, Robert Schenkkan
    Distribuzione (Italia)     Eagle Pictures
    Fotografia     Simon Duggan
    Montaggio     John Gilbert
    Musiche     Rupert Gregson-Williams
    Scenografia     Barry Robison

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Minoranza veneta, case a San Basilio et alia

societa-mp-minoranza-veneta-case-a-san-basilio-et-alia-2Per non parlar solo del Palazzo e delle snervanti contorsioni politiche italiane, vorrei unire due argomenti solo in apparenza diversi: l’approvazione in Parlamento della legge regionale che riconosce la minoranza veneta all’interno dello Stato nazionale e lo squallido spettacolo romano degli alloggi popolari di San Basilio, dove si sono visti razzisti e abusivi uniti contro una brava famiglia marocchina assegnataria di una casa popolare, già rioccupata stamattina 9 dicembre da chissà chi e con quale aiuto borgatar-malavitoso, ai quali la periferia romana è da sempre avvezza.

Ho sentito per intero un paio di giorni fa l’intervista che un giornalista (Rai o Sole24 ore?) ha fatto al consigliere regionale veneto che spiegava educatamente i motivi per cui chi si identificava nella minoranza veneta poteva essere riconosciuto come tale. Quindi gli elementi sono due: volontà e diritto. Non era una questione linguistica, ma etnica, anche se hanno telefonato trevigiani, padovani, veneziani, vicentini etc. per chiedere come comportarsi. Si citava come precedente il riconoscimento da parte dello Stato italiano delle minoranze altoatesine germanofone e di quelle friulane (ma trascurando gli sloveni, i valdostani, per non parlare di altre minoranze che non hanno nessun diritto speciale solo perché lontane dal confine con nazioni prepotenti: albanesi, grecanici, zingari). Personalmente mi chiedo solo se chi ha approvato questa legge si rende conto della mina che ha innescato: tutti gli stati nazionali sono storicamente un insieme di minoranze aggregate che lavorano insieme per un fine comune e godono degli stessi diritti civili.

Il patto De Gasperi-Gruber (su cui ha fatto un attento riesame l’ultimo numero di Studi Trentini (2016, anno 95, fascicolo 2, pagine 579-605) è in un certo senso anomalo, anche se veniva incontro ad esigenze precise. Ma stiamo parlando di una minoranza etnica germanofona, quindi culturalmente straniera nel contesto nazionale italiano. Ma con questa legge nuova qualsiasi gruppo etnico (?) italofono può creare una mitologia politica e chiedere lo stesso: che hanno di diverso i toscani o i liguri o i molisani dai veneti intesi come minoranza all’interno dello Stato nazionale? Ricordo bene che la Jugoslavia si sfasciò quando i giovani che orgogliosamente dicevano di essere jugoslavi si sono poi definiti croati, sloveni, bosniachi, bosgnacchi e kossovari. Vogliamo questo?

Ma c’è di più. Quando il giornalista gli ha chiesto se per caso societa-mp-minoranza-veneta-case-a-san-basilio-et-alia(grassetto mio, ndr.) il riconoscimento implicava la riserva di posti di lavoro o di case, il consigliere veneto ha detto solo “ci si potrebbe forse adeguare alla legislazione della regione a statuto speciale Trentino-Alto Adige”. Leggi: i veneti chiedono quello che hanno da sempre i sudtirolesi, cioè l’apartheid alla rovescia, o quello che chiedono i ladini del Cadore (che fa parte del Veneto), poco protetti rispetto ai loro fratelli gardenesi o fiemmani. Sono stato in vacanza in val di Fassa e ho scoperto che da quest’anno non solo la lingua ladina, ma anche la matematica è insegnata in ladino: una manna per gli insegnanti della vallata ma un futuro ghetto per gli studenti. E a questo punto salta fuori l’Italia della crisi: ognuno vuole un po’ di protezionismo o semplicemente di protezione, escludendo chi non è della famiglia, italiani o negri non importa.

E passiamo a Roma, dove abito da sempre. Mi ha fatto inc***are l’intervista rilasciata dalla presidente del 4. municipio, da cui San Basilio dipende. Ha iniziato a fare uno stupendo discorso sulla legalità e contro il razzismo, salvo poi dire testualmente “ma spesso chi vive in stato di disagio deve occupare le case popolari assegnate ad altri”. Proprio così, ha detto DEVE, gettando la maschera e non rendendosi conto di quanto pensava realmente. Il resto è retorica.

Per finire, cito quanto diceva un amico istriano conosciuto quando ho fatto la naia a Trieste: il nazionalista è uno che ti vuol fregare la casa.

L’ISIS e i gatti

olo-isis-e-i-gatti-gatto-islamMai più gatti in casa. La notizia di una fatwa – sentenza religiosa – emessa dallo Stato islamico a Mosul, roccaforte irachena del Califfato ora sotto assedio, arriva dal giornale inglese Daily Mail, che cita la tv satellitare Al Sumaria, che la riprende a sua volta da Iraqi News. Andiamo dunque alla fonte.

Testo: (IraqiNews.com) Nineveh – Al Sumaria News reported on Tuesday that ISIS issued a fatwa in Monsul <sic> to forbid indoor cat breeding. Al Sumaria News stated, “The so-called Islamic State’s Central Fatwa Committee issued a fatwa (Islamic legal decree) prohibiting the breeding of cats inside houses in Mosul.” “ISIS called on the residents of Mosul to obey the fatwa and not violate it,” Al Sumaria explained. “ISIS issued dozens of fatwas in Mosul based on its vision, ideology and beliefs,” Al Sumaria added. The Islamic State group (ISIS) relies on a central committee to issue fatwas; it is comprised of influential clerics and figures from the terrorist group.

Dunque la notizia l’ha data per prima la rete televisiva Al Sumaria, la quale ha un sito ufficiale in arabo e in inglese.

Questa rete televisiva è molto professionale e relativamente liberale:

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le speaker p.es. non sono velate, e solo a scorrere i titoli scopriamo che il mondo islamico è molto meno schematico e rigorista di quanto siamo abituati a pensare. Inoltre, il sito è pieno di servizi giornalistici trasmessi da zone dove noi occidentali abbiamo pochi corrispondenti, quindi anche in futuro vale la pena di seguire questa rete simile ad Al-Jazeera. Non sono riuscito però a trovare la notizia sui gatti, anche se è registrata una buffa fatwa dell’Arabia Saudita che vieta dal 2015 i pupazzi di neve perché simili a idoli antropomorfi. Dove trovano la neve per farli non lo spiega. Questo però dà l’idea dello spirito che anima la rete televisiva: rispetto della religione islamica ma spirito liberale. Per saperne di più sulla proprietà, sulla redazione e sui paesi coperti c’è Wikipedia (voce solo in inglese e arabo)

E a rileggere il comunicato riportato da IraqiNews si dice che di fatwe l’Isis ne ha sfornate a dozzine e che a deciderle è un ristretto gruppo di chierici e capi terroristi.

Le principali testate italiane hanno quindi amplificato la notizia, parlando di caccia e sterminio felino dopo la direttiva impartita dagli uomini del califfo Abu Bakr al Baghdadi. In realtà Mosul è sotto assedio e a pochi giorni dalla battaglia finale gli uomini dell’Isis hanno ben altro da pensare che andar per gatti.

olo-isis-e-i-gatti-schermata-2014-08-26-alle-14-15-13-770x721-copiaAllora è una bufala? Visto che nessuno può andare oggi a Mosul a controllare, proviamo a ragionare. Intanto si parla di divieto ma non di strage felina. Strano: il gatto non è per l’Islam un animale impuro, come il cane o il maiale. Il presidente afghano Karzai si lamentava con i soldati americani perché entravano a rastrellare le case introducendo i cani, un’offesa grave per loro ma incomprensibile per noi. Purtroppo non m’intendo di teologia o diritto islamici e quindi non posso dire nulla sui gatti, ma è anche vero che l’Isis ha p.es. trasformato quest’anno il ramadan, mese della preghiera, del digiuno, della meditazione e della purificazione in un mese di guerra santa agli infedeli. E’ una radicale innovazione – eretica o fondamentalista – che dovrebbe aver suscitato anche discussioni all’interno dell’Islam stesso. E i gatti? Non è rara all’interno dell’islam la tendenza a smorzare quei tratti culturali che possono essere sentiti come identità altra rispetto alla loro. E qui più che il Corano conta la stratificata tradizione del diritto consuetudinario islamico, fatto di migliaia se non milioni di sentenze, detti, prese di posizione dei saggi e leggi tribali.

Ma il problema è che l’informazione da noi si è fatta subito propaganda: delle vittime civili nello Yemen o ad Aleppo o a Mosul infatti poco ce ne cale, ma guai a toccare gli animali. E qui voglio aprire una parentesi forse sgradita.

“Poche idee, primitive, ma ripetute di continuo e amplificate dai moderni mezzi di comunicazione”. Non è la descrizione dell’ISIS ma del nazismo, fatta a suo tempo da George Mosse, il maggiore storico della moderna storia politica tedesca. Mentre verso il nazismo la gente normale prova una repulsione istintiva (perlomeno dopo aver visto le immagini dei campi di sterminio o di altri crimini di guerra), lo stesso non si può dire delle violenze perpetrate dal c.d. Califfato nelle zone occupate. C’è da parte della gente comune un atteggiamento misto d’indifferenza, rassegnazione e paura, ma non odio o rigetto. Eppure in televisione e in rete abbiamo visto di tutto, dagli sgozzamenti degli infedeli alla distruzione dei villaggi, dai proclami violenti alla guerra santa, dall’addestramento dei bambini alle bandiere nere. Forse che una parata della Hitlerjugend era diversa? Eppure le reazioni non sono le stesse, anche se è vero che il nostro odio verso il nazismo è maturato dopo una guerra europea e settant’anni di educazione scolastica e civile. Si direbbe invece che l’islamismo radicale non sia stato ancora metabolizzato al punto di creare anticorpi.

Uno dei motivi è sicuramente la distanza culturale. L’Islam è l’ultima grande religione monoteistica e si pone come superamento dell’ebraismo e del cristianesimo, ma delle tre è in realtà la più arcaizzante, e il tentativo dell’ISIS di riportare l’Islam alle sue origini – in realtà è un mito politico – peggiora le cose, visto che la modernità non può essere governata con le leggi che si erano dati gli allevatori nomadi mille se non duemila anni fa.

L’altra osservazione è che il dissenso non ha la reale possibilità di esprimersi in modo corretto. Partiamo dall’espressione “islamofobia”. Perché mai un atteggiamento politico dev’essere ascritto a categorie legate alla psichiatria? Chi dissente è forse un instabile mentale o un “asozielle Element”, come dicevano i nazisti? Nessuno ha mai definito Togliatti e Pertini “fasciofobi”. Come si vede, etichettare il dissenso non porta molto lontano ma fa comodo. Ma nel momento in cui i vari governi occidentali mantengono una sostanziale ambiguità verso chi finanzia il terrorismo internazionale o temono per l’incolumità dei depositi bancari prima ancora che di quella dei cittadini, mantenere basso il livello della polemica è strategico.

Terzo elemento, l’ambiguità di una certa “intelligencija”. I movimenti islamisti sono nati come anticoloniali, a cominciare dai Fratelli Musulmani, che in Egitto sono attivi e ben strutturati almeno dagli anni ’30 del secolo scorso, quindi hanno avuto la benedizione delle forze democratiche internazionali. La rivolta antioccidentale usa la religione in realtà da pochi anni, ma qualcuno sembra essersi dimenticato del laico marxismo-leninismo e sottovaluta l’estraneità della strumentalizzazione religiosa nella costruzione della modernità. In più, l’Islam tutto è meno che una cultura subalterna da proteggere. E’ una contraddizione dalla quale non si è ancora usciti.

Infine, i sensi di colpa per gli errori culturali e strategici recenti: cosa vuole dire “Islam moderato”? E in Siria chi sono realmente i guerrieri finanziati dagli USA? Tutti sappiamo che i Talebani sono stati creati proprio da loro per combattere i sovietici, salvo poi pentirsene amaramente. Se dalla Siria all’Iraq è saltato l’equilibrio raggiunto negli anni ’20 del secolo scorso – equilibrio fissato dalle potenze europee – questo si deve anche all’invasione dell’Iraq e l’incapacità di governarlo realmente o di renderlo autogovernabile. Anche le primavere arabe hanno visto troppi attori esterni entrati in massa e male. Quindi per ora nessuno sembra legittimato a dire l’ultima parola.

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Qualcosa di più:

Islamia: accoliti con benefit

Medio Oriente: un buco nero dell’islamismo

Un anno di r-involuzione araba

Primavere Arabe: il fantasma della libertà

Solidarietà: il lato nascosto delle banche

Donne e Primavera araba. Libertà è anche una patente

Mediterraneo megafono dello scontento

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Missione e Cooperazione

olo-missioni-e-cooperazioneIn una recente serie di documenti ufficiali risalta la differenza tra le spese italiane per la Difesa e quelle per la Cooperazione, fortemente sbilanciate: 9 contro 1 (fonte: Rapporto Sbilanciamoci! 2016). In dettaglio, nel confronto con la spesa militare, negli anni l’investimento nella cooperazione è passato dal 14% all’11%. Mettendo insieme i due settori, l’Italia ha diminuito i fondi del 16,6%. E’ vero che, nel corso degli anni, attraverso il Decreto Missioni, la percentuale delle risorse destinate alla cooperazione è aumentata. Dobbiamo però ricordare che i fondi stanziati con l’atto rappresentano appena il 4% del bilancio totale per difesa e l’aiuto allo sviluppo. Per le missioni militari con il provvedimento si eroga all’incirca 1,3 miliardi di euro all’anno, la spesa militare totale dell’Italia è invece di 23 miliardi. Stesso discorso vale per la cooperazione: per una spesa totale poco sotto i 3 miliardi, con il Decreto Missioni se ne stanzia solamente il 4,57% (136 mln). Un’analisi complessiva rileva dunque la tendenza a diminuire la parte dedicata alla cooperazione, in dieci anni passata dal 14% all’11%. Nel 2005 la spesa totale era di 4,5 miliardi, passata poi nel 2014 ad appena sotto 3 miliardi di euro. Una contrazione del 34%, quasi tre volte quella della spesa per la difesa, che nello stesso periodo di tempo è diminuita del 13%. Quindi, in 10 anni la spesa complessiva è diminuita del 16,6%. L’investimento militare invece è passato dai quasi 27 miliardi del 2005, ai 23,3 del 2104. Ma perché nel frattempo la percentuale programmata per la cooperazione è scesa nel corso degli anni? E come opera nel mondo? Questo almeno è facile vederlo da questo sito specializzato sulla Cooperazione italiana.

Ma se fuori dei confini nazionali spendiamo molto per la componente militare e poco per quella civile, questo rivela un difetto di politica. Da oltre due secoli è assodato che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, mentre il primato della politica già lo aveva preconizzato Machiavelli. Ma è con la teorizzazione del generale prussiano Karl von Klausevitz (1780-1831) che lo strumento militare viene ricondotto sotto l’egida della politica, sorta di ‘ultima ratio’ – visto il suo costo economico e umano – per costringere l’avversario ad accettare le proprie condizioni. Nel caso poi, oggi frequente, di guerre civili e turbolenze esterne al proprio stato nazionale, si mandano i soldati per congelare la situazione sul campo, separando i contendenti o evitando che una parte violenti l’altra. Tutto questo finché non si trova una soluzione politica, altrimenti il presidio militare diventa costoso e indefinito: esattamente quanto avviene in Kosovo, in Afghanistan e in Libano. Sono passati 15 anni dalla nostra presenza in Afghanistan, dove abbiamo perso 53 uomini (di cui 31 militari), speso 6 miliardi di euro, impegnato fino a 4000 soldati per volta (ora sono meno di 1000), con scarsi risultati.  Quando c’erano gli Imperi i conflitti etnici erano una questione interna, oggi gli stati nazionali sono costretti quasi ogni giorno a intromettersi nelle guerre civili altrui per evitare massacri e soprattutto l’alluvione dei profughi alle proprie frontiere. E se l’Impero spostava i propri soldati da una provincia all’altra, gli stati nazionali sono invece costretti a chiedere ai propri cittadini il conto di operazioni militari che nessuno sente come proprie, tant’è vero che vengono sempre presentate come operazioni umanitarie. E se si rientra nelle spese, guai a dirlo! Quando si è saputo che dopo la seconda guerra del Golfo l’ENI aveva ottenuto concessioni petrolifere in Iraq, si è gridato allo scandalo, anche se non sta scritto da nessuna parte che una guerra umanitaria deve essere sempre in perdita, quando nessuno si scandalizza se la Cina cerca di occupare le isole ricche di petrolio del Mar Cinese meridionale in base a teorie simili a quelle dello spazio vitale teorizzato da Hitler in Mein Kampf.

Ho alluso prima alle carenze della politica. Oltre il 70% dei fondi per la cooperazione va ad organizzazioni internazionali e non direttamente ai paesi in via di sviluppo. E il 20% dei fondi per la cooperazione è devoluto a organismi internazionali o bilaterali, il resto viene gestito in proprio dall’Italia per vie dirette con i paesi destinatari. Sono 694 milioni euro. Albania, Afghanistan ed Etiopia sono stati i beneficiari maggiori degli accordi bilaterali, seguiti da Mozambico e Vietnam (dati del 2013). E’ interessante notare che sempre nel 2013 l’Italia ha promosso progetti in 113 paesi nel mondo, ma oltre il 40% delle risorse è stato impegnato entro i confini nazionali per far fronte all’emergenza rifugiati. Come dire che l’idea di aiutarli a casa loro per non doverne andare a prendere troppi davanti alle coste libiche è rimasta una bella idea.