Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Fury

Fare un buon film di guerra non è facile: per garantire lo spettacolo si deve spendere molto, le ricostruzioni devono essere attendibili e le battaglie realistiche. In più la guerra non è più un valore, almeno nella nostra società, quindi è difficile dare oggi un assetto ideologico accettabile a un genere di film ormai messo in discussione dal pacifismo. Da qui la tendenza a mostrare il lato brutale della guerra ed eroi rosi dal dubbio sulla loro missione. Qui in Fury l’impianto dato dal regista David Hayer è in realtà è relativamente tradizionale: siamo nel 1945 e le truppe alleate hanno ormai varcato il Reno e sono entrate in Germania, ma devono scontrarsi con la dura resistenza tedesca, che ormai difende casa propria. Qui seguiamo un plotone di carri armati Sherman della seconda Divisione corazzata americana, veterana dello sbarco in Normandia e della controffensiva delle Ardenne (che al cinema significa: Il giorno più lungo, Bastogne e Salvate il soldato Ryan) ma messa ora in seria difficoltà dai carri tedeschi Pantera e Tigre, tecnicamente superiori e tatticamente meglio utilizzati. Capo carro è il sergente Don “Wardaddy” Collier (Brad Pitt), mentre il resto dell’equipaggio è formato da veterani rozzi e induriti. Come rimpiazzo del quinto carrista arriva il giovane occhialuto Norman Allison, classica recluta da scozzonare, e infatti il confronto coi veterani è immediato. Confronto che si farà più drammatico quando riprende l’avanzata: per colpa di Allison,durante un’imboscata il carro conduttore viene distrutto e il capo plotone Parker ucciso. A quel punto il nostro sergente di ferro decide di iniziare il novizio alla realtà della guerra e lo prende sotto la sua ala. E’ un educatore discutibile, visto che lo obbliga ad uccidere un prigioniero a sangue freddo, ma la sua teoria è che i soldati tedeschi vanno ammazzati tutti. Diciamo pure che l’allievo impara subito e quasi ne gode, ma neanche il nemico fa sconti. Per fortuna anche la guerra ha i suoi intervalli: durante l’occupazione di un borgo, sergente e carrista conoscono per caso due ragazze tedesche e con una delle due – Emma – il nostro novizio ci va anche a letto. La colazione è purtroppo rovinata dalle provocazioni degli altri carristi – soldatacci induriti se non criminali – e da un bombardamento che uccide le due donne. Si riparte su ordine del duro capitano Wagoneer, stavolta per presidiare l’incrocio di una carrabile che dovrà essere poi occupata dalla fanteria. Purtroppo dopo un duro scontro con una batteria anticarro e un panzer Tigre (autentico, prelevato da un museo, ndr.), di quattro carri ne resta uno solo: il nostro, soprannominato “Fury” . Ma è solo l’inizio: una volta giunti all’incrocio, di notte, lo Sherman si pianta colpito da una mina e in più si scopre che c’è una compagnia di almeno duecento tedeschi in transito. Che fare? Non c’è tempo per riparare il cingolo e il buon senso suggerisce di abbandonare il carro e nascondersi fin quando il nemico è passato. E qui – come nel Soldato Ryan – dal realismo si passa all’assurdo. Mentre nel primo film la pattuglia attacca battaglia con tutti invece di nascondersi, qui si decide di chiudersi nel carro armato a mo’ di fortezza e di resistere fino all’arrivo dei rinforzi. Insomma, la classica missione suicida. E i tedeschi, nonostante siano dure Waffen SS, vengono decimati dal tiro del cannone e delle mitragliatrici di bordo. Ma l’assedio non può durare a lungo: le armi anticarro scalfiscono la fortezza d’acciaio e le munizioni scarseggiano. Collier sarà colpito da un cecchino e resta a bordo, mentre Allison si salverà uscendo dalla botola di sicurezza (che sfiata sotto il pavimento del carro, ndr.). Nascosto nella buca aperta dalla mina, viene scorto da un tedesco, il quale per pietà fa finta di non vederlo. I tedeschi se ne vanno, lui aspetterà poi dentro al carro il suo destino, ma per fortuna arriva la fanteria, che ha dunque trovato la strada ormai sgombra. Infatti i tedeschi si sono mortalmente accaniti su quel carro invece di procedere fino a presidiare le posizioni assegnate. Nell’ultima scena Allison guarda per l’ultima volta il suo carro dal finestrino dell’ambulanza. Una panoramica dall’alto riprende lo Sherman con attorno pile di cadaveri. Tra parentesi, l’ottima direzione della fotografia di Roman Vasyanov ha dato al film un tono cupo, tutt’altro che solare, mentre lo scenografo Andrew Menzies ha saputo creare ambienti complessi, ricordandoci che la guerra moderna è fatta di uomini, ma anche di macchine e altri prodotti industriali. In più il film alterna spazi aperti all’universo claustrofobico dei carri armati, pari solo a quello dei sommergibilisti di U-Boot 92. Eppure quei cinque carristi chiusi dentro quella scatola di acciaio che li sballotta ogni momento si sentono come a casa loro, a modo loro l’hanno persino arredata, anche se quello spazio puzza di sudore e carburante e sanno benissimo che rischiano di finire arrostiti. E siccome molte inquadrature sono riprese in soggettiva, dentro quel carro ci siamo anche noi spettatori.

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Fury
Titolo originale Fury

Un film di David Ayer
Con Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal, Jason Isaacs, Scott Eastwood, Jim Parrack, Brad William Henke, Jonathan Bailey, Branko Tomovic, Marek Oravec, James Henri, Laurence Spellman, Kevin Vance, Adam Ganne, Sam Allen
Azione, Ratings: Kids+16
durata 134 min.
USA 2014
Lucky Red

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La famiglia Belier

Siamo nella campagna bretone, dove una famiglia di allevatori manda avanti una fiorente azienda agricola e casearia. I coniugi Belier e il figlio adolescente sono sordi e un po’ strambi, mentre l’altra figlia Paula, una ragazzona sedicenne, è normale ed è un vero angelo: fa da interprete col linguaggio dei segni, lavora in stalla, aiuta i suoi al banco del mercato e frequenta la scuola. Lì si segna al coro non per amore della musica, ma di Gabriel, un compagno di scuola, come confida all’amica del cuore, la sveglia Mathilde. L’insegnante di canto, Thomasson, riconosce subito il talento di Paula e le propone un duetto proprio insieme a Gabriel per il saggio di fine anno. La canzone è un classico francese: “Je vais t’aimer”, di Michel Sardou, e per provarla Gabriel va anche a casa di Paula. L’insegnante ha loro consigliato di provarla abbracciati, ma lei ha le prime mestruazioni. Gabriel lo racconta a tutti e a scuola Paula viene presa in giro. Ceffone per Gabriel. Ma il vero problema è che Thomasson propone Paula per la selezione di Radio France a Parigi. Per lei è una scelta drammatica: significa abbandonare la famiglia, mentre il padre vuole persino presentarsi alle locali elezioni. Finché può glielo nasconde, ma quando è costretta a dirlo, i suoi la prendono male: andare a Parigi è un tradimento. Paula quindi rinuncia, ma proprio Gabriel la convince almeno a tornare alla scuola di canto. Il saggio di fine anno è un trionfo e i genitori di Paula, pur non sentendo la musica, vedono in diretta le emozioni che la loro figlia e Gabriel suscitano nel pubblico. La notte porta consiglio: il padre ci ripensa e Paula arriverà per tempo all’audizione, presente anche Thomasson al piano. Paula canta “Je vole”, sempre di Sardou, e viene accettata. Nella scena finale la famiglia Belier accompagnerà la figlia in partenza per Parigi.
Fare un film sui disabili non è facile e il regista sceglie la commedia, anche se i sordomuti francesi non hanno amato il film (quelli italiani non si sa), affermando che l’immagine che viene data non corrisponde alla realtà. Che dire? La famiglia Belier è in effetti un po’ stramba e certi suoi comportamenti rasentano il grottesco: sessualmente iperattivi, politicamente conservatori, impulsivi e generosi, sono comunque sicuramente simpatici e non si piangono mai addosso. La geniale soggettiva che li inquadra mentre non possono sentire il canto della figlia ma registrano le emozioni del pubblico è un vero pezzo di antologia. Paula è una adolescente che diventa donna e la famiglia le sta vicino quanto lei è vicina a questa insolita famiglia, la quale ha il coraggio di farla volare da sola. In un periodo di nubi oscure e di crisi sistemica, un film come questo ti riconcilia con la vita. E i francesi questi film li sanno fare.

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La famiglia Bélier
Titolo originale La famille Bélier

di Eric Lartigau
con Karin Viard, François Damiens, Eric Elmosnino, Louane Emera, Roxane Duran, Ilian Bergala, Luca Gelberg, Mar Sodupe, Jérôme Kircher, Stéphan Wojtowicz, Bruno Gomila, Céline Jorrion, Clémence Lassalas, Manuel Weber
Francia 2014
Commedia, Ratings: Kids+13
durata 100 min.
Bim

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Una Guerra che viene da lontano

Nel momento in cui la Libia è fonte d’instabilità in seguito alla maldestra “guerra umanitaria preventiva” del 2011, è interessante capire come ci siamo entrati la prima volta, nel lontano 1911. Gli avvenimenti vengono riscostruiti da due storici, Franco Cardini e Sergio Valzania e l’analisi copre sia gli aspetti bellici che diplomatici ed economici della nostra espansione coloniale nel Mediterraneo. Molte furono infatti le forze che spinsero verso l’avventura libica: le banche, i circoli politici frustrati dall’annessione della Tunisia alle colonie francesi (1881), gli alti ufficiali, i nazionalisti. Tra i politici, Giovanni Giolitti capì sicuramente – come Francesco Crispi prima di lui – l’importanza di una trionfale impresa coloniale ai fini di politica interna: il colonialismo italiano, oltre che tardivo, è sempre stato antieconomico, ma con una forte valenza ideologica sfruttata fino in fondo dalla classe politica borghese e dai militari. Ancora nel 1936 si sarebbe giocata la carta coloniale per risolvere i problemi sociali e politici interni, anomalia tutta nostrana: le potenze europee hanno sfruttato mezzo mondo per arricchirsi, non per deflettere lo scontento sociale, collezionare medaglie o rinforzare un governo di coalizione. E siccome dopo la sconfitta di Adua (1896) pochi volevano sentir parlare di imprese coloniali, fu organizzata la macchina di propaganda. Se la classe dirigente era militarista, la popolazione era nel complesso estranea se non ostile di fronte all’idea di una guerra lontana e priva di una forte motivazione nazionale, come poteva invece essere la difesa dell’arco alpino dagli Austriaci. All’epoca era comunque ancora facile raccontar balle alle masse di contadini analfabeti e alla piccola borghesia urbana, anche se i portuali si rifiutavano di caricare i convogli per la Libia e i ferrovieri di movimentare le tradotte dei soldati. Gaetano Salvemini definì subito la Libia “lo scatolone di sabbia”, e tale rimase fino alla possibilità di estrarre il petrolio, operazione all’epoca tecnicamente prematura.
Ma c’è di più. Nel 1911 l’Italia non fece guerra a un “bey” locale, ma all’Impero Ottomano; il quale, per quanto in crisi, era pur sempre una potenza internazionale. Non prevedere le ripercussioni nei rapporti tra le potenze europee e l’estensione del conflitto ad altre zone del Mediterraneo o addirittura dei Balcani fu una leggerezza imperdonabile. La diplomazia italiana era di buon livello, ma si puntò tutto sulla forza. I Turchi in realtà erano pronti a cedere la sovranità dei porti di Tripolitania e Cirenaica – erano province povere e autonome – ma a patto di salvare la faccia. Se si pensa che l’Egitto, pur gestito dagli Inglesi, rimase sempre formalmente parte integrante dell’Impero Ottomano e addirittura entrò nella Grande Guerra a fianco degli alleati contro i Turchi, è chiaro che una soluzione diplomatica era sempre possibile. Ma Giolitti e il Re volevano proprio la guerra e i nostri marinai nel 1911 sbarcarono a Tobruk, un nome che ancora dice qualcosa a chi ha fatto l’ultima guerra. Seguì l’occupazione di Tripoli e poi di Bengasi, all’inizio con poche truppe e trascurando la reazione della popolazione islamica e la possibilità di una guerriglia alimentata dai beduini che vivono nell’enorme deserto libico. Pensare di tenere la costa senza controllare l’interno fu un errore già fatto dagli antichi Romani. Come spesso avviene nelle guerre italiane, compresa la recente seconda impresa di Libia del 2011, il paese entrò in guerra senza una strategia coerente e soprattutto senza avere una chiara consapevolezza delle sue conseguenze. Noi italiani entriamo in guerra sempre con un assetto militare sottodimensionato e poco energico nella fase iniziale, salvo poi rinforzare il contingente per necessità. La guerra di Libia non smentì questa prassi tuttora consolidata, col risultato di non sfruttare il vantaggio iniziale. Altro calcolo sbagliato fu ritenere che la popolazione oppressa dall’Impero Ottomano passasse dalla nostra parte. A parte che niente fu fatto per associare al potere almeno parte dei notabili di Tripoli e delle altre città portuali, sottovalutare l’Islam e la sua facile presa su masse totalmente analfabete fu un’imperdonabile leggerezza. La guerra santa contro gli infedeli non fu certo inventata nel 1911, e tuttora ne sappiamo qualcosa: soprattutto a Bengasi esisteva ed esiste tuttora una forte componente islamista da non sottovalutare. Alla fine l’esercito italiano si trovò letteralmente insabbiato e privo di quelle capacità di manovra che pochi anni più tardi sarebbe stata offerta dai veicoli a motore. Ma la repressione delle rivolte fu sempre dura e sanguinosa, né ci ha mai fatto onore.
Altra conseguenza fu l’estensione del conflitto fuori della Libia. Per avere Tripoli si finì per spostare il centro di gravitazione della battaglia nell’Egeo e nei Dardanelli, dove la nostra Marina fece miracoli. Ma questo inquinò i fragili equilibri tra l’Impero Ottomano e le varie nazionalità greche e balcaniche, col risultato di preoccupare giustamente Austriaci e Tedeschi. L’Italia faceva parte della Triplice Alleanza e i Turchi erano militarmente assistiti dai Tedeschi, mentre nei Balcani era da tempo iniziata la corsa dell’Impero Austro-Ungarico per subentrare come potenza egemone e frenare le spinte slave che miravano agli stessi obiettivi. Se gli Austriaci avevano sperato che la guerra di Libia stornasse le nostre mire irredentiste, ora trovarono la situazione peggiorata. Difficile capire l’inizio della prima Guerra Mondiale se non si comprende questo scontro tra faglie tettoniche in attrito tra di loro. E la piccola Italia, ultima arrivata fra le medie potenze, dichiarando guerra all’Impero Ottomano offrì per prima l’esempio della capacità di usare le forze armate per ottenere quello che voleva, salvo capire dopo che una guerra costa molto più di quanto ottiene. Giovanni Giolitti se ne rese conto tardi, ma nel 1915 non fu un interventista. Nel resto dell’Europa nessuno capì la lezione.

00 Libri  La scintilla Guerra di Libia*************************

LA SCINTILLA
Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale
Franco Cardini – Sergio Valzania

Editore: Mondatori, 2014 – 2015
Prezzo: € 19,00
Pagine: 200
ISBN 9788804648307
EAN:9788804636489

Leggi il primo capitolo
Disponibile come ebook

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Vivere e Morire a Roma: Due piccole storie romane

LAZZARO

Gioco da anni al lotto, sempre un ambo di un euro su una sola ruota. La ricevitoria è sempre la stessa, in via dell’Aracoeli e la gestisce un ragazzone soprappeso. Qualche mese fa subentra un sostituto, dal quale vengo a sapere che l’amico era stato ricoverato in ospedale per una broncopolmonite. Una settimana dopo, la saracinesca della storica ricevitoria è abbassata e il giorno dopo leggo: chiuso per lutto. Quel ragazzone di cui neanche so il nome dunque non ce l’ha fatta e la cosa mi dispiace. Al suo posto subentra un tipo di poche parole, un quarantenne, non saprei dire se italiano o maghrebino, al quale non faccio domande.
Continuo a giocare il mio ambo come sempre prima di entrare in ufficio, quando dopo due settimane dietro al banco rivedo il ragazzone. Non credo ai fantasmi, ma sgrano comunque gli occhi. “No, non sono resuscitato”, mi fa l’amico. E allora? E allora il collega che doveva giustificare la saracinesca chiusa non sapeva che scriverci e gli è venuta in mente la malsana idea di inventarsi quella scritta assurda.
Da quel giorno io lo chiamo Lazzaro.

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00 Due piccole storie romane Marco Pasquali RIP webGIRANDOLA AZZURRA

Roma è piena di lapidi e altarini nati dalla devozione privata. Purtroppo ricordano sempre vittime di incidenti stradali e stanno un po’ dappertutto, ora visibili, ora seminascosti dalla vegetazione o dalle loro stesse ridotte dimensioni. Un fotografo dovrebbe andare in giro, pubblicarne le immagini e scrivere le storie che ogni altarino racconta. Ci sono ragazzi caduti dal motorino o schiantati su un albero, signore romane o romene falciate mentre attraversavano la strada, pensionati e bambini, tutti ricordati da modeste immagini dove non manca mai un fiore, ma che risultano spesso poco leggibili.
Nomi e date sono sempre scritti su una piccola lapide o su una tavoletta di ceramica, c’è magari una breve dedica che, posta nel punto esatto dell’incidente, non è sempre igienico leggere.
Per sapere il nome della ragazza morta sulla tangenziale est sotto il cavalcavia della Nomentana in direzione San Giovanni ho dovuto cercare in rete. Si chiamava Elisa, aveva vent’anni e si è schiantata il 16 gennaio del 2012 addosso a un cartello stradale all’altezza della Batteria Nomentana, passeggera sbalzata da una moto andata addosso a un blocco di cemento del cantiere. Faccio quella strada ogni giorno e per mesi c’era in effetti quella pericolosa strettoia. Oggi nel punto esatto c’è l’altarino con la foto di Elisa, ma non consiglio a nessuno di fermarsi per vederla da vicino: le lapidi diventerebbero due.
Quello che si nota dalla macchina è però una girandola azzurra, una di quelle girandole con le pale di cellofan che si comprano dai cinesi. Anche quando non c’è vento gira lo stesso, alimentata dall’aria mossa dalle macchine che corrono sulla tangenziale. Se per un giorno è ferma è solo perché le pale si sono spostate. Ebbene, il giorno dopo le ritrovi sempre inclinate verso il vento, segno che qualcuno si preoccupa di risistemarle. Anche questo è un modo di mantenere la memoria di Elisa

 

Islamia: Tattiche e metodi di combattimento

Uscito dieci anni fa, questo libro resta forse l’unico studio organico in argomento; non so se i militari italiani lo conoscono, ma comunque farebbero bene a studiarlo. Scritto da un colonnello dei Marines con lunga esperienza operativa dal Vietnam in poi, analizza il modo di combattere della guerriglia islamista, non necessariamente formata solo da terroristi. Può infatti sorprendere la rapidità con cui non solo l’ISIS ha sconfitto l’esercito regolare iracheno, ma ha creato una vera e propria entità statale, il Califfato, che ora si espande a macchia d’olio fra Siria e Iraq e di fatto ricompone gli equilibri geopolitici fissati un secolo fa da Francia e Gran Bretagna dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano. L’autore è un militare di carriera e analizza esclusivamente il campo di sua competenza, per dedurne che la risposta militare data nel corso del tempo dagli eserciti occidentali non tiene conto proprio degli elementi di base del modo di combattere tipico delle società islamiche, il quale è basato essenzialmente sull’azione coordinata di milizie tribali o semitribali fedeli al proprio capo, armate in modo leggero ma capaci di grande mobilità e adatte quindi alla guerriglia. L’addestramento si adatta alla situazione e la tattica pure. In più conta molto la motivazione: per l’Islam la guerra è un valore e da sempre questo tiene alto il morale dei guerrieri. Mobilità, addestramento e motivazione sono quindi i fattori vincenti di queste forze.

Due parole sul metodo seguito dall’autore. Le tattiche e il modo di combattere della guerriglia islamica vengono analizzati con una serie di esempi storici o attuali ma ben documentati, che vanno dal Libano alla Cecenia, dall’Iraq all’Afghanistan. E’ il classico esempio NATO di “case study”: invece di discutere dei massimi sistemi, si prendono in esame fatti reali documentati, si analizzano e poi si discutono insieme. Queste dunque le conclusioni:
• Il combattente islamico ha una forte motivazione legata alla fede religiosa.
• Il legame gerarchico con il proprio capo tribale è molto forte.
• L’addestramento è strutturato in modo poco accademico ma efficace.
• Viene lasciato ampio margine all’iniziativa personale.
• Armi ed equipaggiamento sono di regola leggeri e la logistica semplificata.
• In attacco si dà la massima importanza alla velocità e alla sorpresa.
• Raramente si attacca in campo aperto un nemico superiore per forze.
• E’ normale ritirarsi momentaneamente per riorganizzarsi dietro le linee.
• Anche storicamente si è spesso registrata la migrazione di guerrieri da un fronte all’altro in nome della Jihad. I “foreign fighters” non sono una novità, la vera novità è che usano l’internet, vivono in Europa e prendono l’aereo.
• La risposta tattica può essere solo l’uso della fanteria leggera.
Viceversa, gli eserciti occidentali – ma sarebbe più giusto definirli “strutturati” – hanno nel loro insieme una mancanza di elasticità mentale e addestrativa e un sovraccarico logistico che li rende poco adatti a combattere unità irregolari mobili. La NATO e il Patto di Varsavia si sono confrontati per anni in maniera simmetrica e le rispettive strutture militari erano state organizzate per un certo tipo di guerra e solo quella. Il problema è che un carro armato da 52 tonnellate e un munizionamento buono per demolire un quartiere risultano poco efficaci o addirittura controproducenti in un ambiente di guerriglia dove risiede anche la popolazione civile o dove l’obiettivo è limitato. E se invece che sulla potenza di fuoco ci si vuole basare sulla sorpresa, difficilmente i nostri eserciti passano inosservati. Per non parlare dei costi di una moderna operazione militare, rispetto ai mezzi tutto sommato modesti usati dall’insorgenza. Mandare un aereo a bombardare una jeep con una mitragliera montata sul cassone costa cento volte più dell’obiettivo distrutto e facilmente rimpiazzabile E infatti l’autore insiste sulla necessità di una fanteria leggera.

Il problema è capire cosa s’intende per fanteria leggera. La US Army sostanzialmente non ne ha. La stessa 7th Light Infantry Division è tale per gli Americani, ma non lo sarebbe per noi italiani. Non ha carri pesanti, ma la sua motorizzazione è ben al di sopra dei nostri standard e la logistica è complessa. Ma non si può considerare fanteria leggera nemmeno l’insieme dei corpi speciali dei vari eserciti: gli incursori possono fare rapidi colpi di mano, ma non sono in grado di tenere il terreno. In più, sono costretti a portare a spalla anche trenta chili di equipaggiamento, il che contraddice lo stesso concetto di leggerezza. Né la fanteria può essere composta solo dagli elementi migliori sottratti ai reparti, col risultato di indebolirne la capacità tattica. Quello che penalizza gli eserciti occidentali in realtà è la loro struttura complessa, organizzata per un conflitto convenzionale e simmetrico. Sui monti dell’Afghanistan i carri armati servono a poco e nei centri abitati è facile uccidere i civili innocenti. D’altro canto, un fucile pensato per sviluppare un alto volume di fuoco sulle brevi distanze (come l’M16 americano) in Afghanistan risulta inferiore a un vecchio Kalashnikov, di calibro superiore e quindi adatto a impegnare il combattimento da un chilometro. In più, a trattare con i civili i nostri Carabinieri sicuramente se la cavano meglio dei Marines. Come si vede, il conflitto asimmetrico richiede una buona capacità di adattamento, diversamente dalla routine dell’addestramento di caserma. Questo è evidente p.es. in un video di Al-Jazeera girato a fine 2014 da un operatore “embedded” tra i guerrieri che assediano Kobane: si vede benissimo come essi siano capaci di abbandonare una posizione dopo il contrattacco curdo, salvo riorganizzarsi mezz’ora dopo. Da notare però che proprio a Kobane i peshmerga curdi stanno realmente tenendo testa ai guerrieri dell’ISIS perché li ricambiano con la stessa moneta, il che dovrebbe dare un’indicazione precisa per il futuro: le milizie tribali vanno combattute da formazioni a loro simili e noi occidentali dovremmo limitarci a fornir loro il contributo della tecnologia, ovvero quelle funzioni di supporto elettronico, sanitario, di fuoco e di comunicazioni che loro non hanno, senza mandare sul terreno fanterie inadatte a quel tipo di guerra. Un’intuizione del genere la ebbe il gen. Petraeus in Iraq quando affidò il controllo del territorio alle milizie tribali sunnite invece che allo scoordinato esercito iracheno.

Infine, un aspetto che sfugge invece totalmente all’autore ma non al lettore italiano è l’affinità tra la guerriglia islamista e la mafia. Per carità, non fraintendete: le motivazioni sono ovviamente diverse, ma abbiamo una struttura piramidale e spesso segreta, più quell’insieme di connivenza, onore, affiliazione familiare, maschilismo e uso della violenza e dell’intimidazione per convincere gli indecisi e creare così una zona di sicurezza interna che rafforza il controllo del territorio. Questo non significa che la guerriglia islamica sia formata da delinquenti, ma solo che strutture e modalità di azione possono essere simili a quelle mafiose e per questo difficili da combattere. Ma purtroppo l’autore, un militare di carriera, poco ne capisce di politica. Il problema è che l’insorgenza si combatte solo con l’appoggio della popolazione locale, per cui bisogna anche essere capaci di capire un’ideologia.

 

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TACTICS OF THE CRESCENT MOON:
Militant Muslim combat methods
by H. John Poole
Publisher: Posterity Press (NC)
Date published: 2005
Price: $14.95

ISBN-13: 9780963869579 ISBN: 0963869574

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