Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Money money money

Confesso che man mano che leggevo questo romanzo mi veniva voglia di scrivere: del rapporto fra donne e soldi poco si parla, eppure alle donne i soldi piacciono e non solo perché servono o fanno comodo, ma perché attraverso essi passano i rapporti di potere e per secoli le donne erano prive di indipendenza economica. C’è chi si mette con un uomo ricco, oppure – nel caso della protagonista e del suo doppio – si ritrova ricca in poco tempo grazie a un best-seller e al film che ne deriva. Ricordo il titolo di un articolo di vent’anni fa: “Guadagnare un milione a 18 anni”. Qui Melissa gioca a carte scoperte: l’io narrante è proprio lei e nulla s’inventa. Di fantasia invece è il suo rapporto con Clara, l’attrice che a suo tempo impersonò il suo personaggio in un film di successo derivato da un suo libro (non è dunque Maria Valverde Rodriguez, che recitò nel mediocre film prodotto nel 2005 da Francesca Neri e Claudio Amendola, diretto da Luca Guadagnino). La giovane attrice da quel giorno divenne famosa, ma qui invece viene immaginata ancor giovane (è quasi coetanea di Melissa) ma povera e sul viale del Tramonto. L’incontro fra Melissa e il suo doppio inizia in modo casuale e si svilupperà fin quando Clara vorrà narrare la sua storia. Anche lei era divenuta ricca e famosa e Lino, il suo agente, gli aveva fatto sposare suo figlio Trevor (chi ha orecchie per intendere intenda), con vantaggi per entrambi: Lino è un ex-povero, duro e spietato ma sa il suo mestiere e Clara è disinibita, ha talento e lavorerà persino con Roman Polansky e Francis Ford Coppola, ma non si accorge che Lino la imbroglia e soprattutto non sa gestire il denaro. Solo le escort guadagnano tanto in poco tempo e sia Clara che Melissa i soldi indirettamente li hanno fatti col sesso, per cui resta dentro di loro un senso di colpa, una mancanza di sicurezza quasi autodistruttiva. In più gli uomini sono abituati da sempre a gestire i capitali, molte donne invece non l’hanno mai fatto. Clara dilapida la sua fortuna e sua madre fa il resto chiedendo sempre soldi, è una madre che prende invece di dare. Un rapporto così ambiguo fra madre, figlia e denaro finora si era visto solo ne L’Amante, il romanzo di Marguerite Duras (1984), dove nell’Indocina francese la madre impoverita accetta che la figlia minorenne sia l’amante di un ricco cinese. Clara vive solo nel presente e Melissa si darà da fare col piglio del commercialista per ricostruire il conto spese di Clara, uno dei pochi modi per conoscere le persone, scoprendo che Clara non ha mai pensato a investire nel futuro. Quando Clara lascerà lo scialbo Trevor per Pietro, archetipo del bel mascalzone ozioso ma bravo a letto, Lino sadicamente rescinderà il contratto con Clara, la quale dovrà trovarsi da sola ingaggi per spot pubblicitari, promozioni di cosmetici e comparsate in tv sperando da vecchia di fare la nonna saggia in qualche serie televisiva. Cade dunque in depressione e in effetti ce n’è di che essere depressi: avrà anche un figlio da Pietro, ma non potrà allevarlo e lo affida alla madre. Melissa cerca di aiutarla trovandole un ingaggio, ma è troppo tardi: Clara nel frattempo si è tolta la vita ingerendo monetine da 10 centesimi (chi di noi non conserva gli euro fior di conio fingendo che siano d’oro?). Sapeva che dopo la risalita sarebbe ricaduta un giorno in depressione e non ha avuto il coraggio di vivere. Questo mentre la vita di Melissa prosegue nella routine di lavoro e famiglia, ma dopo il rapporto con Clara non sarà più la stessa.
Questa la trama del libro. Melissa afferma di aver impiegato tre anni a scriverlo, ma già nel 2011 aveva espresso in un’intervista concetti analoghi (1). Nel racconto di Clara vi sono forse velate allusioni autobiografiche, quasi messaggi in codice (Melissa sempre siciliana è) ma è presente anche la coscienza di essere cresciuta troppo in fretta, a suo agio fra sushi, viaggi e interviste, ma impreparata a gestire somme di denaro iperboliche per un’adolescente. C’è anche chi – stordito da fama e denaro – è finito cocainomane, mentre Melissa ha continuato la sua sistematica carriera di scrittrice, ovviamente senza la fortuna del primo libro, ma gestisce una piccola agenzia letteraria, ha un marito e due figli ed è presente in blog e riviste. E vive a Roma, la quale è più che uno sfondo per il romanzo; è una città divisa per caste ma con precisi punti d’incontro e scambio: feste in terrazza con vista sul Centro, locali di tendenza, ristorazione promossa dai social, movida rumorosa, case sempre aperte a tutti. Ma è’ un mondo dove Clara non riesce a governare gli eventi, lei naviga nella corrente ma può anche annegare. E’ una Roma che illude il provinciale, una sorta di Grande Bellezza vista con gli occhi del disincanto, dove coatti, palazzinari, attrici e attricette, politici e cinematografari, nobili romani, stranieri residenti e forse anche qualche camorrista si mescolano ogni sera per sviluppare alleanze temporanee e proporre amicizie interessate. A Roma nessuno è qualcuno, così annota Clara. E’ la Roma già descritta ai tempi di Nerone da Petronio Arbitro nel Satyricon (magistralmente reso da Fellini), dove i personaggi sono coscienti della loro precarietà: erano nulla il giorno prima e possono perdere la fortuna da un giorno all’altro. E’ una Roma effimera, una sorta di Barocco 2.0 dove tutto è apparenza, caducità, se vogliamo è lo spirito della Controriforma. Paradossalmente questo libro pur trasgressivo (infrange un tabù) ha infatti una sua moralità, ripetendo ancora una volta l’idea che il benessere è effimero e i soldi non danno la felicità. Almeno quando sono troppi e – come Melissa e Clara – si è convinti di non aver fatto molto per meritarseli. Chi vive a Roma alla fine ne assorbe lo spirito e impara a superare con lo sguardo le apparenze, altrimenti sarà un perdente.


Nota

  1. Intervista del 5 gennaio 2011 per Dagospia

Storia dei miei soldi
di Melissa Panarello
Editore: Bompiani, 2024, pp. 208
EAN: 9788830110052
Prezzo: € 18,00


Putin lo Zar

Putin occupa ormai ogni giorno le cronache, ma a questo punto è interessante rileggersi il saggio che Sergio Romano pubblicò nel 2016, quindi dopo l’occupazione della Crimea ma prima dell’invasione dell’Ucraina. L’autore oltre ad essere un fine analista politico è stato ambasciatore a Mosca dal 1985 al 1989, seguendo l’ascesa e il declino di Gorbaciov (più amato da noi che dai russi), l’implosione dell’Unione Sovietica e il caos che ne è seguito, politico ed economico. Non ci vuole molto a capire che la popolarità di Putin si deve alla sua capacità di mettere ordine, non importa con quali mezzi: la debolezza storica delle istituzioni democratiche e l’accentramento dei poteri in un paese immenso sono elementi russi strutturali. Non si può capire l’ascesa di Putin senza tener conto delle forze centrifughe dei governatori di provincia, delle minoranze musulmane in un paese a egemonia cristiana, e soprattutto della “cleptocrazia” (governo dei ladri) incoraggiata da Boris Eltsin, quando una minoranza di imprenditori e burocrati si è accaparrata in aste riservate gli enti di stato privatizzati e l’azionariato diffuso, ricreando la classe dei boiari come ai tempi di Ivan il Terribile. Putin con le buone o meno li ha costretti a pagare le tasse e a non comprare più tv e giornali per presentarsi in politica, anzi da quel giorno gli oligarchi che hanno provato a farla sono finiti male, come del resto sono finiti male i dissidenti di ogni ordine e grado. Putin proviene dal KGB e non riesce a immaginare una società democratica e infatti ha pure chiuso le istituzioni culturali non allineate. Ha invece favorito la Chiesa ortodossa, vera anima della Russia. Oriente significa divinizzazione del potere e anche qui Putin non fa che rinverdire le strutture profonde di un paese che occupa nove meridiani ma si sente sempre accerchiato. Putin ha ridato dignità a una società traumatizzata, esattamente come Hitler negli anni Trenta. Questo gli ha permesso di sistemare la Cecenia, intervenire in Siria, riprendersi la Crimea e reagire all’allargamento della NATO a Est. Quanto all’ipotesi di aver organizzato i sanguinosi attentati terroristici compiuti in Russia negli ultimi anni, è impossibile dare una risposta senza un’indagine indipendente. Ricordiamo però una frase del filosofo tedesco Jurgen Habermas: il terrorismo non provoca la repressione, ma la legittima.
Il libro si ferma al 2016, quindi non copre ovviamente gli ultimi due anni di guerra, anche se Sergio Romano ha rilasciato interviste (reperibili su Youtube) e curato aggiornamenti del libro (1). Non si parla p.es. della crisi politica causata dall’allargamento a Est della NATO (che del resto non è mai stato sottoposto a negoziato e ha lasciato pochi documenti ufficiali). Si accenna comunque alla crisi del Donbass e agli accordi di Minsk (mai messi in pratica da Zelensky, ndr.). I russi usano ora il termine “ricongiungimento” (in russo: vossoyedineniye) per definire queste operazioni di riconquista dei confini del tempo sovietico e traccia ce n’è persino in alcuni nostri libri scolastici. Storicamente, le uniche operazioni del genere riuscite sono la Reconquista spagnola della penisola iberica e – per duecento anni – la riconquista di Siria e Cilicia da parte dell’Impero Bizantino contro gli Arabi, più l’espulsione dei Turchi Ottomani dall’Europa dopo l’assedio di Vienna del 1683. Fallita invece la politica della Serbia verso il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina, che avrebbe dovuto insegnare qualcosa anche a noi: la Jugoslavia era il paradigma di uno stato federale che dissolto scatena il delirio nazionalista. Naturalmente il cambio di politica ucraino dopo Maidan è stato pagato dagli agenti imperialisti: per Putin e i russi l’autodeterminazione dei popoli vale solo per gli africani. Ma le democrazie occidentali hanno fatto anche grossi errori politici: l’illusione tedesca che il commercio fosse più produttivo della guerra, la troppo rapida espansione di quella che era ed è un’alleanza difensiva, ma non è percepita nello stesso modo dai russi. Sergio Romano chiosa il libro: “dovremmo chiederci se all’origine dell’autoritarismo di Putin non vi sia anche la pessima immagine che le democrazie stanno dando di se stesse”. Ebbene, l’attuale guerra in Ucraina dimostra che Putin l’autoritarismo ce l’ha nel sangue e che se l’immagine delle democrazie è pessima, quella che ha dato lui di se stesso era al di sopra di qualsiasi previsione.


Putin e la ricostruzione della grande Russia
di Sergio Romano
Editore: Longanesi, 2016, pp. 160

EAN: 9788830445147

Prezzo: € 18,00


L’Alto Adige dietro l’immagine dorata

Vi sono scrittori – penso a Sciascia e Camilleri – che cercano di evidenziare quello che la propria comunità cerca di nascondere. Qui non siamo in Sicilia ma a Bolzano e l’autore, FlavioPintarelli, è un copywriter e blogger quarantenne come il suo personaggio, al quale la sua agenzia pubblicitaria commissiona una guida turistica che vada oltre i collaudati stereotipi tradizionalmente diffusi dagli albergatori tirolesi. Alex – questo è il suo nome – a Bolzano ci è nato e cresciuto (ovviamente nel quartiere ex operaio e ora molto composito nella confluenza fra Talvera e Isarco ), ma è un libero professionista e quindi non deve scontrarsi con quella specie di apartheid alla rovescia creata e difesa dalla Provincia autonoma di Bolzano/Bozen. La sua “capa”, Arianna, gli commissiona un lungo reportage sul nuovo volto che sta assumendo l’Alto Adige e lui accetta. Inizia a tavolino setacciando l’archivio di Google Maps, per poi dedicarsi a una serie di elementi per lui interessanti, ma che si riveleranno poco produttivi ai fini promozionali del turismo: la mappatura aerea dello sviluppo industriale, gli effetti dell’innevamento artificiale delle piste di sci, gli sbandati davanti ai giardini della stazione, una manifestazione contro la chiusura e il pattugliamento del Brennero contro i migranti in transito, l’intervista a un motociclista di una banda tipo Hell’s Angels il cui capo fu ucciso dal capobanda rivale, la banda larga e le sue ricadute, la contesa fra nord e sud Tirolo per accaparrarsi le spoglie di Ötzi (trovato in effetti sulla linea di cresta del confine) e farne un’attrazione museale. E infatti Arianna, che pur aveva lasciato ad Alex carta bianca, è perplessa. Eppure ciò è quanto appare sotto la dorata immagine di una terra di confine felice e prospera, capace di mantenere la sua identità storica e culturale conciliandola con la modernità di uno sviluppo razionale che porta ricchezza e benessere. Non per niente in una “performing lecture” si fa riferimento (pag. 150) al Sakoku, termine giapponese (lett. “paese chiuso”) riferito al periodo che termina con l’arrivo della squadra navale americana nel 1853 e l’obbligo del Giappone di aprirsi al commercio. E qui si disvelano, congelate, le due immagini immanenti dell’Alto Adige/Sud-Tirolo: la cultura tirolese resiliente ma modernizzata e l’italianità letteralmente inventata dopo il 1920 dal geografo Tolomei e favorita dal Fascismo (1). In cento anni, col tempo e qualche decina di morti si è arrivati a un civile armistizio, così perfetto che nessuno ha mai imitato le nostre concessioni alla minoranza (?) germanofona. Bolzano è la città delle istituzioni parallele, in realtà una vera integrazione avviene al massimo tra i giovani, anche se chi vuole una casa popolare o un impiego pubblico deve decidere se è italiano o tedesco, alla faccia delle famiglie miste e del multiculturalismo. In un certo senso i due nazionalismi hanno bisogno speculare uno dell’altro, anche se nel libro il massimo dello scontro avviene nel 2017 quando si decide di coprire con un’installazione luminosa i bassorilievi della facciata fascista del Palazzo degli uffici finanziari (2). E’ una frase di Hannah Arendt (bilingue, bilingue…): “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Ed è proprio seguendo questo principio che Alex si licenzia (o è licenziato) inseguito dalle minacce di Arianna. Ma la mia recensione non sarebbe completa se omettessi di parlare di Manfred e di Serena. Il primo è il fotografo d’agenzia che segue Alex come gregario; in realtà sa vivere meglio di lui e solo alla fine sapremo dei suoi problemi familiari (due bambine a carico e una moglie morente). Ha un rapporto con la natura (peraltro molto vicina alla città) migliore di Alex, che ogni tanto raggiunge una sorta di delirio sciamanico confrontandosi con la componente stavo per dire pagana della sua terra, simboleggiata dalle tre “madonne” (o parche?) , Aubet, Cubet e Quere venerate dai contadini. Serena invece è la donna di Alex, non è bolzanina ma vuole la sua parte di amore da Alex e alla fine diventerà anche madre, convincendo il nostro copywriter a cambiar vita e superare il culto del lavoro “glamour”.

Note

  1. Una provincia tutta da inventare. L’annessione dell’Alto Adige all’Italia (1918-1922) / Magda Martini. Carucci editore, 1922.
  2. “Depotenziamento tra le polemiche del fregio mussoliniano di Piffrader sulla facciata del palazzo uffici finanziari”, articolo di Stefano Elena su Il Nordest Quotidiano del 6 novembre 2017. Quello strano “depotenziamento” sembra proprio la traduzione di “Entmachtung”.

Il Velo
di Flavio Pintarelli
Editore: Alphabeta, 2023, pp. 204
EAN:9788872234129


Un anno con due guerre

L’anno che si è appena chiuso sarà ricordato come il peggiore di quelli recenti: alla guerra in Ucraina iniziata nel febbraio del 2022 si è aggiunta nell’ottobre 2023 quella fra Hamas e Israele. Due guerre molto diverse tra di loro, una fra nazioni e l’altra fra una nazione e un gruppo terroristico difficilmente inquadrabile in un’ottica tradizionale: Hamas: per la sua capacità organizzativa e logistica, per il raggio di azione delle operazioni militari del 7 ottobre e per il supporto che riceve da alcuni stati esterni alla Palestina non è inquadrabile come gruppo terroristico di capacità e obiettivi limitati. Piuttosto è l’esercito di uno stato nello stato. In più c’è l’appoggio di Hezbollah dal Libano e degli Houthi dallo Yemen. I primi per ora conducono azioni di disturbo dal sud del Libano, gli altri cercano di disturbare o impedire il traffico navale nel Mar Rosso, per ora contrastati da alcune navi da guerra francesi, inglesi e statunitensi: è impensabile che qualcuno si permetta di sabotare il 12% del traffico merci navale mondiale senza essere prima o poi preso a cannonate.

Un’altra osservazione: tutti sono rimasti sorpresi dalle due impreviste operazioni militari. Ebbene, mi permetto di dire che a guardar bene, l’aggressione russa all’Ucraina e il conflitto fra Hamas e Israele, pur avendo colto di sorpresa gli analisti, rientrano in una continuità storica prevedibile: l’Unione Sovietica / Russia ha sempre impedito con la forza l’attrazione delle nazioni vicine per l’Occidente, mentre Israele è da sempre in guerra con chi vuole distruggerlo. Nel primo caso in quasi cento anni ne hanno fatto le spese i Paesi Baltici, l’Ucraina, la Polonia, la Germania Est, l’Ungheria e la Cecoslovacchia, praticamente tutti tranne la Bulgaria e la Romania (anche se per motivi diversi). Occupare la capitale altrui per impiantare un proprio governo di fiducia ha funzionato per anni a Berlino, a Budapest, a Varsavia e a Praga, e nei piani di Putin avrebbe funzionato anche nell’Ucraina di Zelensky. Il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia di Putin non ha rotto la continuità di una politica estera, almeno una volta ripreso saldamente il timone del potere. Per certo si è sottovalutata la capacità russa di riprendere in mano una situazione di egemonia, ma non si credeva possibile una guerra ad alta intensità in Europa. Era un calcolo sbagliato ma razionale: almeno sul breve periodo, una guerra costa più di quanto puoi guadagnare sul terreno e la globalizzazione del commercio. Si è persino arrivati al paradosso di aggirare l’embargo da una parte e l’altra semplicemente perché l’economia non può fermarsi. Nulla di nuovo: nel ‘600 Spagnoli e Olandesi si facevano la guerra nelle Fiandre ma lasciavano aperto il commercio navale con cui finanziavano i propri eserciti. Anche Venezia e l’Impero Ottomano non bloccavano mai del tutto il traffico navale pur essendo spesso in conflitto aperto.

La guerra in Ucraina ha invece tutti i carismi della guerra classica, del conflitto ad alta intensità, della guerra lampo impantanata in trincee che mio nonno troverebbe familiari. Tipica “Materialschlacht”, attrito di materiali, dove vincerà chi avrà ancora qualcosa da mandare al fronte, sia mezzi materiali che soldati addestrati, ma è verosimile che si verrà a un armistizio: la guerra ha un costo che alla lunga è difficile sopportare per tutti. Ogni giorno si sono scambiati 5000 colpi di artiglieria e tra morti e feriti è verosimile calcolare 300.000 perdite per parte. Una guerra di posizione è come la prima guerra mondiale e come tale finisce per esaurimento di uno dei contendenti o per lo sfaldamento delle alleanze. Ma almeno finirà perché gli obiettivi sono limitati e razionali, mentre il conflitto fra Israele e Hamas con i Palestinesi in mezzo sa il cielo dove porterà: nessuno dei due contendenti è disposto a limitare i propri obiettivi e il conflitto potrebbe allargarsi in modo imprevisto. Difficilmente p.es. si permetterà alle batterie di missili dei ribelli Houthi di disturbare o interrompere il traffico navale nel Mar Rosso, dove passa il 20% di quello che arriva in Europa. Quanto alle Nazioni Unite, si è visto quanto valgono.

Ora qualche osservazione. Lo scopo di una guerra è impadronirsi delle risorse di un altro stato o nazione. L’ideologia crea una giustificazione emotiva più che razionale,, ma alla base le motivazioni sono sempre economiche. Se le guerre non sono frequenti (almeno in Europa) è perché nell’analisi costi-benefici condurre una guerra comporta spese maggiori di quanto si può guadagnare sul campo. La guerra è la continuazione del processo politico con altri mezzi (cito Karl von Clausewitz, un classico), ma altri mezzi possono appunto conseguire gli stessi obiettivi in modo più economico. Questo lo pensavamo ancora due anni fa, ora dovremo rivedere meglio i nostri parametri e le nostre sclerotizzate abitudini mentali

Ralph Oggiano, il pugliese che stregò l’America

Nulla sapevo di questo grande fotografo, ma per un caso ho conosciuto quest’estate alcuni suoi familiari – le nipoti per l’esattezza – le quali mi hanno parlato a lungo di questo artista nato in Puglia ma presto emigrato in America, dove a New York si fece un nome e si affermò come uno dei più grandi fotografi della prima metà del secolo XX. Figlio di scultori, era nato ad Oria, in provincia di Brindisi (ma all’epoca di Lecce), a 17 anni emigrò nel 1920 per cercare l’America e la trovò a New York. Non avendo soldi si mise in società con un altro fotografo, Herbert Mitchell, finché nel 1934 diventò abbastanza ricco e famoso per mettersi in proprio: era ormai uno dei ritrattisti più noti di Brodway, per poi approdare al successo internazionale, riaffermato in due grandi mostre nel 1940 a New York (344 ritratti fotografici di dive e nomi famosi). Ricevette committenze e tenne mostre in Inghilterra, Austria, Germania, Italia, Yugoslavia. Il suo lavoro si caratterizza per l’espressività, a tratti monumentale, del volto umano, raggiunta attraverso un innovativo e magistrale utilizzo della luce. Simbolo di coraggio e determinazione, esempio di riscatto sociale, la sua vita rappresenta in maniera emblematica la storia dell’emigrazione pugliese nel mondo, ricalcando i passi di migliaia di italiani partiti dal loro paese natale con una valigia piena di sogni e speranze, alla ricerca di una vita migliore, ma allo stesso tempo privati del conforto della famiglia e del legame con la propria terra. Terra di cui Oggiano mai si dimenticò: sposò una calabrese di New York, ebbe figli e comprò ai genitori una villa al paese natìo. In Italia tornò solo due volte: la prima alla fine degli anni ’30, una seconda nel 1949 (morì nel 1962). Del periodo “italiano” ci restano i fotoritratti del Duce e dei suoi gerarchi e – successivamente – un ritratto di Pio XII, per ora disperso. Il ritratto di Mussolini è impressionante: a parte l’uso del flou (tipico della fotografia dell’epoca), è come se Oggiano abbia saputo leggere l’anima del suo uomo, che più che Duce appare più come un padre di famiglia italiano o se vogliamo il capo del villaggio. Nulla della retorica fascista voluta dallo stesso Mussolini, che qui ha riposto assoluta fiducia nel fotografo – è infatti un ritratto ufficiale. Ma cosa caratterizza lo stile di Oggiano, vero mago della luce? I suoi ritratti sono tutti a inquadratura alta (“waist-up”) o facciali, in bianconero con luci di schiarimento e ritocco. I toni – pur contrastati – restano così molto morbidi e sfumati.

In seguito Oggiano è stato dimenticato: la sua fotografia è troppo legata a uno stile culturalmente superato. E’ stato però rivalutato negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti e in Italia attraverso una serie di mostre e studi specializzati (1). In Italia segnalo la collettiva del 2013 a Oria (2, 3) e quella monografica, sempre a Oria, nel 2022, curata dall’architetto Alessio Carbone, dove la famiglia ha contribuito anche con cimeli personali (4). La nipote mi ha parlato della “vecchia” villa dove erano conservati oggetti personali, foto, quadri e documenti, pazientemente riordinati da Alessio Carbone, peraltro concittadino di Oggiano. Della mostra non è stato stampato un catalogo, ma in compenso Oria ha intitolato al suo figlio una piazza. Ma a questo punto propongo un progetto visionario: Ralph Oggiano merita un film o uno sceneggiato televisivo. La sua storia così emblematica ha tutti i numeri per avere successo: il giovane emigrato italiano, la gavetta a New York, il successo, la famiglia e le stesse immagini fotografiche sulla cui elaborazione Oggiano manteneva il segreto per non rivelar nulla ai concorrenti. Anche l’incontro con Mussolini deve essere stato particolare, vista l’innata diffidenza del Duce verso il prossimo. Cosa manca per un film? Almeno tre elementi: un regista (pugliese o italoamericano), un produttore che si muova bene tra l’Italia e New York, più i contributi della regione Puglia, finora ben generosa con chi vuole produrre cinema ambientato nella Regione. E’ un sogno? Anche quello di Ralph Oggiano lo era.

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NOTE:

  1. David S. Shields, Ralph Oggiano, in Broadway Photographs – Art Photography & The American Stage 1900-1930,  (www.broadway.cas.sc.edu)
  2. https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/ralph-oggiano/  
  3. https://news.oria.info/oria-shoots-prestigiosa-mostra-fotografica-presso-palazzo-martini/201325254.html
  4. https://www.brindisireport.it/eventi/mostre/ralph-oggiano-figlio-oria-strego-usa-foto-mostra.html

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