Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Le ferite della Grecia

Per capire la Grecia politica attuale è uscito un libro che riporta la memoria indietro di oltre mezzo secolo. Pochi sanno che in Grecia la guerra partigiana è durata fino al 1949. Come in tutti i paesi occupati dai nazifascisti si sviluppò la Resistenza, ma nel 1944 Churchill decise di appoggiare con decisione i partigiani filo monarchici e moderati a danno di quelli comunisti dell’ELA (Esercito Popolare Greco di Liberazione) poi riorganizzati come DSE (Esercito partigiano greco), componente militare del Fronte nazionale di liberazione greco (EAM). Facendo male i calcoli, i comunisti non accettarono le elezioni (diversamente da Togliatti in Italia) né riconobbero la legittimità della monarchia ellenica, compromessa col parafascismo del generale Metaxàs (che invece dovette affrontare l’invasione voluta da Mussolini) e in fondo estranea al popolo: nella casa reale ellenica non è mai scorsa una goccia di sangue greco, ma solo tedesco o scandinavo. Nelle fasi iniziali della Guerra Fredda, la Grecia non poté quindi scegliere il proprio governo, ma divenne il campo di battaglia tra i partigiani comunisti appoggiati esternamente dalla Jugoslavia di Tito e dall’Unione Sovietica contro l’esercito regolare finanziato dagli Inglesi e poi dagli Stati Uniti.
La guerra civile durò fino al 1949, rovinò un paese già povero di suo, causò almeno 80.000 morti, migliaia di profughi e internati e si concluse con la restaurazione della monarchia. Ma per anni la Grecia rimase una nazione divisa e il suo fragile sistema politico ed economico fatica tuttora a trovare un equilibrio. Solo dal 1981 il governo socialista del PASOK consentì agli ex-partigiani del DSE di rientrare in patria, avere una pensione ed essere riconosciuti come combattenti. Dal 1989 quel tragico triennio è definito ufficialmente Emfylios (pòlemon), guerra civile. Esso rivive ora attraverso il diario di un partigiano del DSE, Sotiris Kanellopoulos, che operava nel Peloponneso dove era nato. Copre solo due mesi e mezzo del 1949, ma è un documento di un’intensità incredibile. Man mano che l’esercito regolare chiudeva la morsa, le bande partigiane che operavano a nord in Tessaglia e in Epiro potevano anche ritirarsi in Jugoslavia, ma quelle del Peloponneso si erano messe in un vicolo cieco. Fu così che Sotiris Kanellopoulos e i suoi si asserragliarono – novelli spartani – sul monte Taigeto, la cima più alta della zona, tutta forre e dirupi, dove però alla fine furono accerchiati e annientati. Si vive in condizioni estreme, eppure il nostro guerriero braccato e affamato trova il tempo di scrivere un diario. Si cambia spesso rifugio, spesso un vero buco nella roccia, si parla di neve, di freddo, di fame, di compagni morti o dispersi, ma c’è persino spazio per ben altro: ora si canta o si recitano poesie, oppure leggiamo testualmente: “le pastorelle cantano come sempre, si sente anche il suono di un piffero”. Siamo realmente in Arcadia, ma sorprende l’eterna capacità poetica degli Elleni.
Il diario è stato scoperto in Italia dalla giornalista Silvia Calamati ed ora è disponibile al lettore italiano. Il libro è completato da un’opportuna analisi del periodo 1936-1949 dell’inglese Richard Clogg, studioso di storia greca moderna e contemporanea. Il ruolo svolto dal DSE durante la Guerra civile è invece l’oggetto del saggio di Polymeris Voglis, del Dipartimento di Storia dell’Università della Tessaglia, arricchito dall’introduzione di Caterina Carpinato, professore associato di Lingua e letteratura neogreca all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

 

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NEVE E FANGO PER DISSETARMI
Diario di Sotiris Kanellopoulos, partigiano della Guerra civile greca (1° marzo – 17 maggio 1949)
A cura di Silvia Calamati

Edizioni: Socrates, 2014
Scheda del libro
Pagine: 208
Prezzo: 14,00€
Ebook: € 7,49
ISBN: 978-88-7202-067-8

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00 Libro Neve e fango per dissetarmi Diario di Sotiris Kanellopoulos a cura di Silvia Calamati 01 00 Libro Neve e fango per dissetarmi Diario di Sotiris Kanellopoulos a cura di Silvia Calamati 02

 

 

Medio Oriente: Apprendisti stregoni

Ricordate Fantasia, il film di Walt Disney dove c’era anche Topolino apprendista stregone? Ebbene, i suoi discepoli oggi sono tanti, tragicamente pasticcioni e incapaci di frenare gli sviluppi delle reazioni a catena che hanno incautamente provocato.

Ma passiamo ai fatti. L’Isis o Califfato che dir si voglia, ha effettivamente spiazzato gli analisti. Una volta raggiunta la massa critica, un movimento politico esplode in tutta la sua dinamica aggressività, è normale. Ma perché nessuno se ne era accorto prima? Evidentemente erano stati sottovalutati i segnali, oppure i protagonisti sono stati capaci di dissimulare le loro azioni. Oppure ancora, era difficile mandare giornalisti in zona. Ma esiste un’altra, inquietante interpretazione: gli apprendisti stregoni hanno perso il controllo della loro creatura. Andiamo per ordine.

Quando i sovietici occuparono l’Afghanistan negli anni ’80 del secolo scorso, gli Statunitensi finanziarono Bin Laden e i suoi, armandoli anche con micidiali missili Stinger che poi avrebbero ricomprato a caro prezzo. In seguito, l’Iran finanziò gli Hezbollah per far sloggiare gli Israeliani dal sud del Libano, mentre gli Alleati invadevano l’Iraq senza pensare che la guerra vera sarebbe iniziata una volta entrati a Baghdad e – quello che è più grave – senza avere un piano preciso per il dopoguerra. Dunque, sono proprio gli Statunitensi ad aver addestrato e armato i Talebani per combattere i Sovietici in Afghanistan. Risultato: una volta andati via i Sovietici, il paese presto crolla e viene conquistato proprio dai Talebani, i peggiori invasori che quel paese potesse avere e soprattutto i peggiori nemici per le forze alleate che cercano da più di dieci anni di ricostruire il paese e modernizzarlo. Noi italiani ne siamo usciti ora, ma dopo 13 anni e 53 militari caduti ancora non sappiamo chi ha vinto: nessuno ce lo ha saputo o voluto spiegare.

Andiamo avanti. Recentemente il governo iraniano ha pubblicamente detto all’Onu che il terrorismo islamico è un pericolo per l’umanità. Niente male per chi ha inventato gli Hezbollah ed ora, nel generale rovesciamento delle alleanze, si trova ad essere un fedele alleato degli Statunitensi nella lotta contro i Sunniti del Califfato. Neanche a dire che è stata proprio la miopia settaria dello sciita Al-Maliki a contribuire allo smembramento dell’Iraq, anche se prima di lui Ali Moussa Sadr era andato contro gli alleati senza avere un piano di lungo termine. Ma se pensiamo che in fondo gli Sciiti e i filosciiti sono da sempre iraniani o filo iraniani, non è difficile vedere in questo conflitto l’antica insofferenza dei Persiani verso gli Arabi, musulmani ma disprezzati da una cultura superiore.

Passiamo ora ai Francesi guidati da Sarkozy, i quali nel 2011 s’intromettono d’iniziativa nella guerra civile libica e ci spingono dentro anche gli altri. Berlusconi è amico personale di Gheddafi, ma in quel momento è troppo debole per resistere alle pressioni degli Statunitensi, i quali inventano persino un nuovo concetto giuridico: la guerra umanitaria preventiva. Alla fine Gheddafi viene eliminato, col risultato di creare un vuoto di potere, di espandere a sud la guerra per bande, di far dilagare l’esodo dei migranti verso l’Europa e spaccare il paese in due parti più o meno strutturate, Tripolitania e Cirenaica – una delle quali tendenzialmente islamista – più un enorme deserto crocevia di traffici di ogni genere. Attualmente, in mancanza di un vero procedimento democratico, ci limitiamo ad appoggiare i signori della guerra meno islamizzati o più affidabili, concetto relativo in una nazione gestita tradizionalmente da una quindicina di clan tribali. Il guaio è che noi italiani le coste libiche le abbiamo proprio davanti. La famosa quarta sponda per ora porterà solo guai.

Ma torniamo allo sciita Al-Maliki, presidente dell’Iraq, che riesce a scontentare e dividere il paese sbilanciando il potere a favore della maggioranza sciita e provocando l’unione dei Sunniti a parte del Califfato, realtà stranamente emersa dal nulla ma subito divenuta potente protagonista sulla nuova scena storica. Erano stati spesi dagli Statunitensi 25 miliardi di dollari per ricostruire l’esercito iracheno, che si è decomposto in pochi giorni, facendo finire armi ed equipaggiamenti moderni in mano nemica. Tanto valeva dividere subito l’Iraq in tre stati: sunnita, sciita e curdo.

Due parole anche per Israele, che in anni recenti ha indebolito l’OLP solo per vedere una protesta palestinese sempre più radicalizzata e la frontiera con il Libano gestita dagli Hezbollah. Ne valeva la pena? Erano queste le aspettative della pur esperta e scaltra diplomazia israeliana? Sicuramente in israele contano molto gli equilibri politici interni, ma tutto ha un prezzo.

In ordine di tempo, seguono i Turchi, la cui politica neo-ottomana ha finora appoggiato l’ISIS in funzione antisiriana, sperando che si eliminassero anche i Curdi presenti in loco. Ora il governo di Erdogan lascia passare i guerrieri nati in Europa che vanno ad arruolarsi nelle file dell’ISIS. Ufficialmente la Turchia è un fedele alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo, ma non quando si tratta di dar fastidio ai vicini. Miglior figura fanno i Curdi, che in effetti riescono a contenere l’offensiva dell’ISIS sia a Kobane che nel Kurdistan iracheno. E soprattutto, difendono sé stessi.
Sempre in Siria, riecco gli Statunitensi che, dopo aver finanziato l’opposizione moderata al regime di Assad, scoprono che questa si è unita all’ISIS in alleanza tattica contro il comune nemico, col risultato di eliminare qualsiasi opposizione se non moderata, almeno civile.

Nel frattempo i separatisti ucraini filorussi sono stati armati sottobanco dai Russi, anche se questi negano. Come in Crimea, i miliziani hanno stranamente tutti lo stesso fucile e le stesse giubbe, anche se prive di distintivi. Finora ha funzionato, ma non è detto che il controllo su di loro sia eterno ed efficace.

Infine, Arabia Saudita ed emirati vari, i quali prima finanziano i movimenti islamisti più fondamentalisti e poi temono che la loro espansione minacci la base del proprio potere. E’ curioso vedere l’Arabia Saudita o l’Oman da entrambe le parti del conflitto: come finanziatori di moschee wahabite e come alleati degli Statunitensi contro il terrorismo dell’ISIS. Curioso perché in casa loro quei regimi portano avanti idee molto simili a quelle dei loro nemici. Nemici del loro potere.

Quello che quasi diverte poi è la faccia tosta con cui i presidenti di Turchia e Niger partecipano alla grande manifestazione a Parigi in favore di Charlie Hebdo e della libertà di espressione e poi vietano la diffusione del giornale o delle sue vignette nei loro paesi, non prima però di aver scattato la foto ricordo con i grandi della Terra.

Islamia #NotInMyName La campagna Non in nome mio lanciata da musulmani 6a43421b-2e23-41e8-80f3-6ac33815d973

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Qualcosa di più:
Medio Oriente: Un Buco Nero dell’islamismo

L’islamia: preda e predatrice

Siria: Il miraggio della Pace

Siria: Dopo le Minacce Volano i buoni propositi

00 OlO Islamia Quale Occidente è l'obbiettivo Magazine Charlie Hebdo Parigi era una guerra 3-faces-of-islamophobiaSiria: Continuano i raid aerei per fare altri morti

Siria: Vittime Minori

Siria: continuano a volare minacce

Ue divisa sulla Siria: interessi di conflitto

La guerra in Siria vista con gli occhi di Sahl

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Una morale da “Cecchino”

L’ultimo capolavoro di Clint Eastwood è ispirato alla biografia di Chris Kyle, il cecchino più micidiale delle forze armate americane (163 bersagli centrati), eroe della seconda Guerra del Golfo (dal 2003 in poi) e ucciso nel 2013 a trent’anni da un reduce squilibrato. Il film inizia con una doppia inquadratura, dove vediamo il cecchino appostato e il bersaglio inquadrato nell’ottica del fucile. Una donna con un bambino sta per lanciare un ordigno esplosivo contro una squadra di Marines che rastrellano l’isolato di un quartiere iracheno. Cosa fare, sparare o no? Salvare i propri compagni o uccidere una madre e un bambino? Per scegliere ci sono pochi secondi di tempo e la responsabilità è del singolo. Non siamo di fronte al solito film di guerra: qui l’uomo è posto di fronte a scelte morali che lo marcheranno a vita. Il cecchino è un soldato che uccide a sangue freddo, anche se Kyle non è un franco tiratore ma un militare inquadrato che deve coprire gli altri soldati. Siamo infatti nelle sgangherate periferie di Falluja e di Sadr City e il rastrellamento casa per casa si svolge in un ambiente ostile e pericoloso.
Le scene successive ci rimandano indietro. Chris e il fratello sono ragazzoni texani patriotticamente pieni di adrenalina, per loro arruolarsi nei Marines è una scelta normale. Chris è selezionato per i Navy Seals, gli incursori della Marina, e qui rivediamo le solite scene di addestramento alla Full Metal Jacket. E siccome è un bravo tiratore, Chris sarà addestrato come cecchino e mandato in quattro turni (tre anni in tutto) in Irak. Nel frattempo conosce una ragazza in un locale e la sposa appena in tempo prima di esser mandato al fronte. La moglie del soldato è in America un mestiere duro: si vive per mesi con altre mogli nei quartieri riservati delle basi militari e i bambini il padre lo vedono poco. Kyle ne avrà due e la moglie dimostra una grande abnegazione: in genere il tasso di divorzio nei corpi speciali tocca anche il 90%. Il vero problema è che ad ogni nuovo ritorno dal fronte la moglie capisce sempre meno il marito. Né potrebbe essere altrimenti: Chris non discute mai le sue idee ed è convinto che l’America sia nel giusto, ma la brutalità della guerra segna tutti i soldati, per cui anche lontano dal fronte il cervello è altrove. Tra l’altro c’è un pericoloso e crudele avversario da eliminare, un cecchino siriano ex olimpionico di carabina (storie già sentite in Bosnia), che è una sorta di alter ego demoniaco di Kyle, in una sorta di versione aggiornata di Duello al sole, dove l’Irak è il Far West e i cow-boy si sono arruolati nei Marines. Le ricostruzioni dei combattimenti sono attendibili, ma il film è comunque schematico: se il nostro Kyle si pone problemi etici, i nemici sono coraggiosi ma infidi, rozzi, crudeli e mafiosi, il che non è peraltro una novità: gli americani in guerra raramente sanno capire un’ideologia. Peccato, perché il film mette continuamente in gioco la responsabilità individuale del protagonista, il quale talvolta prende l’iniziativa anche in modo scoordinato dal proprio comandante (nei reparti speciali può capitare), col risultato di scatenare la reazione nemica prima dell’arrivo dei rinforzi, come avvenne a Mogadiscio nel 1993 (ricordate Black Hawk down ?). Memorabile l’esfiltrazione finale dei soldati americani da un isolato sotto assedio durante una tempesta di sabbia, in un inferno di ferro e fuoco dove alla fine si spara a casaccio. “Non puoi sparare a ciò che non vedi” aveva detto un commilitone a Kyle durante un’azione, ma qui è il caos. Kyle ha avuto però il tempo di centrare l’avversario cecchino da una distanza di quasi due chilometri, se il doppiaggio non ha confuso i metri con i piedi (altrove i genieri erano diventati ingegneri).
L’epilogo del film segue la reale biografia di Kyle: una volta a casa inizia a dar segni di squilibrio nervoso e viene mandato in terapia, dove gli consigliano di aiutare gli altri reduci e mutilati di guerra, opera che il nostro eroe fa volentieri. Ma verrà ucciso proprio da uno di loro, afetto da disturbi da stress post traumatico, sindrome che ha colpito migliaia di soldati dal Vietnam in poi. Il film si chiude con le immagini originali dei funerali di Kyle, seguiti da migliaia di americani.

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Regia di Clint Eastwood
Con Bradley Cooper, Sienna Miller, Cory Hardrict, Jake McDorman, Luke Grimes, Navid Negahban, Keir O’Donnell, Kyle Gallner, Sam Jaeger, Brando Eaton, Brian Hallisay, Eric Close, Owain Yeoman, Max Charles, Billy Miller, Eric Ladin, Marnette Patterson, Greg Duke, Chance Kelly

USA, 2015 – durata 134 min

Sceneggiatura: Jason Hall
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Produzione: 22 & Indiana Pictures, Mad Chance Productions, Malpaso Productions
Distribuzione: Warner Bros. Italia

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Piani di Guerra

“Un piano funziona finché non viene applicato alla realtà” (Erwin Rommel)

A cent’anni dall’inizio della Grande Guerra si stanno naturalmente moltiplicando gli studi storici e questo libro del col. Filippo Cappellano, (Ufficio storico SME) esplora un campo finora poco esplorato: i piani di guerra del nostro Stato Maggiore. Si parte dal lontano 1861 per finire al 1915, coprendo un arco di oltre mezzo secolo, durante i quali si mantiene un’impostazione difensiva, per poi elaborare piani di attacco che poi non funzioneranno, come del resto non funzionarono quelli tedeschi, né quelli degli altri eserciti. Il pregio del libro, oltre a quello di una precisa documentazione d’archivio, consiste nell’inquadrare il problema geopolitico, per poi collegarlo alle oscillazioni della politica estera italiana.
Cominciamo appunto dalla geografia e dal modo in cui essa condiziona la politica. L’Italia è in fondo un paese fortunato: il mare da tre lati e l’arco alpino sono confini naturali che la Polonia si sogna. Se le coste sono vulnerabili – ma cent’anni fa non esistevano i mezzi da sbarco usati vent’anni dopo dagli Americani nel Pacifico e in Normandia – l’esercito può facilmente difendere la frontiera alpina, e non per niente abbiamo creato gli Alpini. Il problema strategico è identificare il nemico, e qui emerge il limite strutturale della politica estera italiana: la sua discontinuità. Il giovane Regno d’Italia si è dovuto confrontare con l’egemonia francese nel Mediterraneo e con l’Impero Austro-Ungarico per i 600 km che vanno dal Trentino fino a Trieste, arrivando a firmare con quest’ultimo e con la Germania la Triplice Alleanza nel 1882, ma senza mai sentirsi con le spalle coperte, una mancanza di fiducia peraltro ricambiata dall’inizio alla fine dagli Austriaci. In realtà la strategia militare italiana fu impostata quasi sempre sulla difensiva: lo consigliavano le dure esperienze precedenti e la debolezza strutturale italiana. Gli Austriaci combattevano da mille anni ed erano superiori per risorse militari, economiche e demografiche, mentre il giovane Regno d’Italia, anche se militarista, era carente sul piano industriale e ancora poco coeso su quello sociale. Niente di strano dunque che i piani di guerra fossero impostati sulla difensiva e sulla controffensiva, anche se – secondo la situazione politica – poteva cambiare il settore di arco alpino da difendere. Alla fine del 1914, però, col ribaltamento delle alleanze, lo Stato Maggiore dell’Esercito aggiornò la pianificazione operativa in senso offensivo. Il gen. Luigi Cadorna progettò così un ambizioso piano offensivo, mirato all’invasione della Duplice Monarchia che si fondava sulla cooperazione delle forze russe e serbe, nel frattempo entrate in guerra. Si scartò l’invasione del Trentino perché troppo difeso (il nostro esercito difettava di artiglieria e di munizioni adeguate) per concentrarsi sul Cadore e su Gorizia, trascurando il Tarvisio (da cui si penetra a Klagenfurt e poi a Graz) e finendo invece per incunearsi nella lunga valle dell’Isonzo, in modo da puntare su Lubiana e poi ricongiungersi alle truppe russe e serbe. Così descritto un piano del genere sembra quasi realistico, mentre invece era pura follia.
Intanto, se era giusto pensare alla cooperazione con altri eserciti, nel 1915 Russi e Serbi erano già stati fatti a pezzi. Secondo, se le Alpi sono per noi una barriera difensiva, lo sono anche per gli Austriaci. Per chi non avesse chiara la geografia, diciamo che in Austria si può penetrare da pochi valichi: da ovest a est, rispettivamente dal Brennero o la Val Pusteria; dal Cadore via Cortina; dal Tarvisio venendo da Udine, oppure si può risalire la valle del Tagliamento da Tolmino via Caporetto sino a Lubiana. Più facile a dirsi che a farsi: la guerra sul fronte alpino fu qualcosa di unico nella storia militare per l’impegno richiesto a cinque milioni di soldati italiani mandati a vivere e combattere sulle montagne, ma soprattutto fu uno spreco di risorse. Il piano di Cadorna era affrettato e l’autore lo dimostra dati alla mano. Il rovesciamento delle alleanze sorprese dunque anche i militari, abituati da cinquant’anni a una strategia difensiva. Ma nessuno aveva mandato ufficiali osservatori a studiare la guerra sul fronte francese, così la fanteria andava all’attacco con tattiche superate e armi inadeguate, mentre il nemico sbarrava gli accessi alle vallate strategiche. In realtà nessun piano elaborato dagli Stati Maggiori dei grandi eserciti europei funzionò, a cominciare dal collaudato piano Schlieffen dei Tedeschi per invadere la Francia. Si trattava di elucubrazioni di generali nati tutti nell’Ottocento e incapaci di adeguare il loro cervello alla tecnologia del Novecento, fatta di mitragliatrici, cannoni, gas, radio, aerei, camion e mezzi meccanici. Il piano di Cadorna era nel migliore dei casi molto ottimistico, ma in fondo i suoi colleghi europei non erano migliori di lui e quelli che furono all’epoca celebrati come grandi generali, oggi sarebbero rimossi dall’incarico entro un mese. Ma a cento anni di distanza dalla Grande Guerra ancora non abbiamo imparato due lezioni fondamentali: che una guerra costa più di quanto ottiene, e che una guerra nuova non somiglia mai a quella precedente.

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Libri Piani di guerra 001Autore: Filippo Cappellano
Titolo: PIANI DI GUERRA dello Stato Maggiore Italiano contro l’Austria-Ungheria (1861-1915)
Editore: Rossato, 2014
Pagine: 168

Prezzo: € 19.00
Isbn 978-88-8130-127-0
Fotografie, cartine e illustrazioni: 71

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Leopardiana

Abbiamo visto il film di Martone e ne abbiamo ammirato il rigore formale, la studiata ricostruzione d’ambiente, la dicotomia tra sublime poetico e miseria fisica, tra l’isolamento del natìo borgo selvaggio e la frenetica corrispondenza con l’Accademia. Un film ambientato per quadri in quattro luoghi diversi: Recanati, Firenze, Roma e infine Napoli, dove il regista gioca in casa e cerca di interpretare l’impatto del poeta con una città per lui diversa e affascinante, in una specie di vertigine che spazia dal magma umano a quello della lava vesuviana. Ebbene, nel 2007 era apparso un piccolo libro di appena 45 pagine edito da Scepsi & Mattana, un piccolo ma coraggioso editore di Cagliari: La luce nel fosso. Tre racconti su Leopardi a Napoli, scritto da Gigi Monello, peraltro autore di altre piccole, preziose opere pubblicate dallo stesso editore (1). Curiosa opera, articolata in tre racconti: Il segreto del cielo di giorno, La strana notte del poeta, Un americano nel golfo. Più che più che nei Canti si pesca nelle Operette morali, nello Zibaldone e persino nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, in una curiosa, manieristica sintesi. Nel primo parla il medico personale del conte Leopardi. Il suo paziente è indisciplinato: mangia in modo sregolato, dorme troppo ed esce poco. Il medico dunque lo convince a fare con lui una passeggiata al sole in carrozza e questa è l’occasione per discutere sulla vita e la morte. Aleggia la minaccia del cholera, di cui neanche il medico conosce la vera natura, mentre il popolo festoso e lazzarone sembra non curarsene, intento a mangiare con avidità qualsiasi cibo. In realtà è una reazione istintiva alla morte e alla precarietà dell’esistenza, e di questo infatti discettano i nostri. Come si concilia il sole del Mediterraneo con l’incombente epidemia, che magari sarà sostituita da un’altra in futuro? Napoli ha vissuto il colera persino nel 1973 e sempre per gli stessi motivi. Per il conte Giacomo l’unica spiegazione è in un Creatore crudele che illude un’umanità, la quale preferisce vivere alla giornata, per incoscienza o consapevolezza. Non sapendo come rispondere, il medico suggerisce un curioso rimedio all’angoscia: il collezionismo. E qui vien introdotto un personaggio forse anche esistito: Beniamino ‘o mortale, un giovane bello e ricco che, una volta vecchio e solo, colleziona funerali, più preciso e sistematico di un necroforo. Di ognuno voleva sapere il modo in cui era morto, ma lui morì in un modo diverso da tutti gli altri. Commento del poeta: “ … in verità viviamo in un universo spalancato, un freddo dirupo sfondato; e chi vuole sognare, sogni pure … Tanto la notte tornerà, e il cielo ci sembrerà di nuovo una domanda, e il mondo la maschera di ciò che non sappiamo.”
La strana notte del poeta ci porta invece nell’atmosfera descritta anche da Saverio Martone, ma senza scadere nel presepe napoletano. La voce narrante è quella di un anonimo corrispondente di un giornale italiano, estraneo alla città, che scopre quasi per caso dove è morto Leopardi. In città è anche lui è uno straniero, per cui si dà da fare e vien dunque condotto dal Professore, memoria storica del quartiere. Come non pensare a Eduardo ne L’oro di Napoli? Il nostro è incuriosito dalle voci sulle strane abitudini del conte Leopardi, il quale amava effettivamente infilarsi di notte nel ventre molle della città – qui sappiamo che pagava anche un guardaspalle – per quanto di giorno poco amava i solari intellettuali partenopei con cui polemizzava ai tavolini dei caffè. Già, ma cosa cercava Leopardi? Non i bordelli – troppo facile – né emozioni forti come certi borghesi; il suo è più un viaggio dantesco in un mondo che oggi è riuscito a rendere visibile solo il fotografo Salgado: carnalità, impasto di riti del cibo e devozione ai santi, bordelli e tabernacoli; luogo ove tutto s’incrocia: mare, malattia, camorra, sudiciume, leggi; grumo denso e insondabile; pulsare misterioso. Ma non c’è la repulsione di Conrad in Tifone, dove il magma umano dei braccianti cinesi ammassati nella stiva fa solo paura. Qui l’incontro tra il poeta e Napoli è un incontro fatale e paradossale, ambiguo e necessario. Dopo Leopardi, solo Guglielmo Marconi ha capito che per comunicare con l’etere non basta un’antenna, ma bisogna anche fissare una buona presa di terra. Ma resta il distacco dell’osservatore, l’ambigua partita tra festosità ignara della plebe e lucido argomentare del filosofo; intenta, l’una, a vivere la vita, l’altro a mostrare come essa danzi insensata sull’orlo di un fosso, di cui la luce ci oscura la vertigine. E il Professore cosa dice? “Ateo o materialista? Peggio ancora, era scettico”.
L’ultimo racconto ci porta a ridosso della seconda Guerra Mondiale, dove l’interlocutore di turno è Burt, un biologo marino americano incuriosito da Leopardi e ben presto suo entusiasta ammiratore. Sono divertenti pagine piene di domande che quest’atletico ragazzone pone al suo collega napoletano: per lui Leopardi è un genio, anche se poco ne capisce della sua filosofia. Ama però i contrasti, di cui l’Italia è comunque piena. Ma la conversazione trova il suo fulcro a bordo di un battello, dove un anziano marinaio trasporta i nostri scienziati in zona. Monumenti per i morti? A che servono? Quel fondo marino è pieno di camorristi fatti sparire nelle guerre tra bande. Sapremo solo alla fine che uno di loro – don Vito – lo ha ucciso proprio il barcaiolo per vendicare un’offesa. Da quel momento l’equilibrio nervoso dell’americano s’incrina, appena corretto dall’alcool. Viviamo in un mondo senza regole oppure esistono e non le conosciamo tutte? La domanda rimane inevasa: la voce narrante ci informa che Burt è morto nel 1945 nella guerra del Pacifico.

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Titolo: La luce nel fosso. Tre racconti su Leopardi e Napoli
Autore: Gigi Monello
Editore: Scepsi & Mattana Editori, Cagliari, 2007
Pagine: 45
Prezzo: € 6,00
ISBN 978-88-902371-3-3

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Note:
(1) Accadde a Famagosta: l’assedio turco ad una fortezza veneziana ed il suo sconvolgente finale (2006); Voci e viaggi : note, fissazioni e chiacchiere di un sedicente fotografo. (2008); Le conchiglie a Monte Mario: Un doppio enigma nella Roma di Pio 9. : romanzo. (2009); Sonni & viaggi: note sparse tra alberghi e ferrovie di un fotografo a chiacchiere (2011)

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