Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Roma: Passeggiate coloniali

Non ho ancora letto Roma negata, di Igiaba Scego, ne ho solo sentito parlare stamane alla radio, ma conosco i suoi libri e la ricordo quando, da studente, veniva a studiare nella biblioteca di quartiere dove io ero stato assegnato dal Comune di Roma. Qualche osservazione però posso farla già da ora. Intanto la memoria della storia coloniale italiana a Roma è praticamente relegata alla toponomastica del c.d. quartiere africano: viale Libia, piazza Gondar, via Migiurtina, via Giuba, via Macallè e così via. Il resto è stato rimosso dagli edifici pubblici – penso al comunicato ufficiale di Badoglio che entra nel 1935 ad Addis Abeba – oppure è visibile nel Circolo Ufficiali, come il ritratto del Duca d’Aosta o il quadro d’epoca dell’Amba Alagi. Non esiste più il Ministero delle Colonie (dove è ora la FAO) e l’obelisco di Axum è stato restituito ai legittimi proprietari. Da lì iniziava viale Africa, che ora si chiama viale Aventino e giunge fino alla Piramide, che invece non è stata rubata agli egiziani ma costruita da un antico governatore romano. Quanto al monumento ai cinquecento Caduti di Dogali (1887), è ormai privo del Leone di Giuda (restituito anche quello) e non sta più al centro di Piazza dei Cinquecento, ma è seminascosto nel viale di collegamento con piazza della Repubblica. Gli altri reperti del nostro passato coloniale uno se li deve andare a cercare al chiuso: nel cortile del Museo della Civiltà Romana è affissa l’ultima carta geografica marmorea dell’Impero che completava il ciclo esposto a via dei Fori, mentre il Museo storico della Fanteria ha invece ereditato la parte militare che stava al già Museo Africano di via Ulisse Aldovrandi, dove invece sono rimaste solo le raccolte di scienze naturali ora organizzate come Museo civico di Zoologia. Una collezione completa di modellini delle nostre fortificazioni coloniali sta nel Museo storico dell’Arma del Genio, chiuso da anni. Infine, la sede dei Bersaglieri a Trastevere conserva gelosamente il labaro della disciolta sezione di Mogadiscio. Come si vede, gli unici a ricordarsi ancora dell’Africa coloniale sono i militari. Dunque Igiaba Scego – giovane e affermata scrittrice italiana di ascendenze somale – ha ragione: il passato coloniale italiano è stato rimosso e i giovani non ne sanno niente. A dire il vero, che non fossimo stati santi ed eroi l’ho imparato tardi, dai libri di Angelo del Boca, il primo storico italiano a sfatare, documenti alla mano, l’immagine dell’Italia coloniale foriera di civiltà (vedi la bibliografia). Ma per motivi anagrafici – ho 60 anni – prima vedevo le cose in modo diverso : tutti in famiglia abbiamo avuto almeno un parente che ha combattuto in Africa, l’ultimo è stato mio nonno nel 1940 (nella foto). Ricordo poi benissimo somali, etiopi ed eritrei che si davano appuntamento per gruppi alla Stazione Termini; le donne somale erano vestite in modo stupendo e colorato. E poi rivedevo ogni tanto i nostri parenti nati all’Asmara, dove erano poi rimasti come imprenditori. Ricordo anche i giovani ufficiali somali che venivano addestrati a Cesano anche dopo la fine dell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (1949-1960), a noi assegnata nel dopoguerra dall’ONU. E ricordo ancora il monopolio delle banane somale poi distrutto dall’United Fruits in nome del libero commercio. A Roma c’è ancora qualche vecchia drogheria del centro che reca sull’insegna la dicitura “generi coloniali”. Aggiungo infine che negli anni Sessanta nessuno a Roma era razzista: le nazioni africane sbocciavano come fiori, le colonie erano un capitolo chiuso, non avevamo avuto come i Francesi la guerra d’Algeria e l’ondata degli immigrati africani era ancora al di là da venire. Chi aveva cantato “Faccetta nera / sarai romana” certo non immaginava che un giorno qualcuno ci avrebbe preso alla lettera, senza peraltro scatenare un’altra guerra coloniale. In realtà tra noi e gli africani già nostri concittadini non c’e mai stata una vera comunicazione, e anche questo era un retaggio: il Fascismo da un lato era razzista, dall’altro imitava le leggi dell’Impero Romano, inclusivo per eccellenza, e noi giovani eravamo figli del nostro tempo. Oggi scommetto che nessuno distingue più le varie identità africane nella massa dell’immigrazione, ma io sapevo riconoscere benissimo i somali dagli eritrei o e li rispettavo come tali. Gli Abissini poi hanno a Roma da sempre le loro chiese cristiane di rito copto. Il vero problema era che nessuno di noi parlava con loro, anche se si sapeva che molti erano cittadini italiani, magari per aver fatto il servizio militare in Italia o perché sfuggiti alla dittatura di Mengistu in Etiopia e di Siad Barre in Somalia. E qui passiamo a dire quello che noi italiani *non* abbiamo fatto dopo il colonialismo. In sostanza, è mancata una politica estera coerente, capace di esercitare una vera influenza nelle aree da noi in precedenza amministrate. Non abbiamo saputo creare una vera democrazia e uno stato moderno in Somalia, dove Siad Barre ha imposto una dittatura (1969-1991) e ha contribuito a sfasciare uno stato tuttora a pezzi. Non abbiamo difeso l’Eritrea dall’annessione all’Etiopia (1962). Non abbiamo saputo difendere gli italiani residenti in Libia e cacciati da Gheddafi (1970). Non abbiamo saputo pacificare la Somalia nel 1992-93 (Operazione Ibis), anche se la colpa va attribuita alla’incoerente politica americana. Infine, nel 2011 Gheddafi non è stato difeso neanche da chi ancora pochi mesi prima l’aveva costosamente ospitato a Roma come grande amico. E infine, finora non abbiamo saputo realmente integrare non solo le masse d’immigrati africani non acculturate che ora affollano a vario titolo città e campagne d’Italia, ma nemmeno le ristrette comunità che avevamo ereditato da un recente passato coloniale, anche se per vari motivi esse erano assai meno influenti e corpose di quelle residenti in Francia o nel Regno Unito. E qui entra in scena il libro di Igiaba Scego, che vede le cose dal punto di vista proprio di quei cittadini con un’identità a cavallo di due culture ma sempre tenuti a distanza dalla diffidente Italia matrigna. Ma ne riparleremo presto.

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Libri Roma negataTitolo: Roma negata
Autore: Rino Bianchi, Igiaba Scego
Editore: Ediesse
Pagine: 176
Prezzo: 13 euro

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100 Bugie

L’ultimo libro di Melissa P. si legge di un fiato ed è una sorta di decompressione dopo l’ebbrezza del successo dei 100 colpi di spazzola (2003), libro ormai lontano anni luce dall’esistenza attuale della scrittrice. La forma-diario qui lascia il posto ad una struttura ellittica: essenziali le descrizioni, frequenti i salti temporali; si passa dalle scene di adolescenza etnea al tempo attuale, ma in modo lieve. In dieci anni Melissa è cresciuta anche stilisticamente, anche se sa benissimo che nessun suo nuovo libro avrà mai la fortuna del primo. Ma è sopravvissuta al suo successo e all’immagine che gli altri hanno voluto di lei e questo è già un risultato. E qui mi viene in mente il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, dove. c’è anche la danza di Salomè davanti a Erode Antipa. Salomè non è la solita sensuale danzatrice orientale, ma una normale ragazzina, che si muove come farebbe appunto una ragazzina a un saggio di danza. Con questo Pasolini voleva significare che l’immagine della donna è solo una proiezione mentale sagomata sulle aspettative maschili. Melissa è venuta incontro allo stereotipo della lolita siciliana, ma lei chi era e chi è ora? Leggiamo dunque il libro.

Alcuni dettagli si sapevano o si intuivano, altri sono inediti. Intanto, strana famiglia, la sua, invasiva e assente allo stesso tempo. Se si dovesse fare una tesi sul declino della figura paterna nella cultura siciliana, ecco un padre gran lavoratore ma assente, e una madre frustrata ma forte, ora complice, ora invidiosa della figlia. Ricordo il suo sguardo deciso quando ho avuto modo di conoscerla. E’ con lei che avviene sempre il confronto, anche violento. E quando in casa si scopre la sua attività di scrittrice, è un trauma: i suoi forse accettano la precoce sessualità della figlia, ma non la divulgazione delle sue imprese. E qui per la prima volta Melissa è posta davanti al doppio stereotipo contro cui dovrà lottare per sempre: se quanto scrive è vero , è una puttana; ma se non lo è, allora è una bugiarda. In realtà la letteratura non è solo la riproduzione del reale, ma sembra che nessuno lo capisca. Passi per i suoi genitori, ma la critica letteraria e i giornalisti non sono da meno: tutti hanno voluto credere a tutto o tutto sconfessare, senza chiaroscuri. Più realistica la reazione dei suoi compagni di liceo catanesi, a cui candidamente legge le bozze di quanto scrive. Ma a scuola lei ha una sola amica, votata per l’atletica come lei lo è per il sesso: Melissa è precoce e i suoi non sanno imporle dei limiti. E come il suo personaggio, sbaglia quando cerca l’amore partendo dal letto: agli uomini basta in realtà la prima parte del discorso. Lasciano però il segno un prof e un certo Matteo, un uomo sposato conosciuto nel forum di Rosso Scarlatto. Ma presto s’impara anche a godere del sesso senza amore, e in questo Melissa mi pare più normale della ragazza protagonista di “Nymphomaniac”, che cerca di fermare il proprio caos mentale andando a letto con gli uomini in base a un comportamento provocato da psicopatologia e non da personale piacere, come se il regista Lars von Trier si debba giustificare davanti a un pastore luterano. Melissa casomai è amorale, non immorale; nel profondo ancorata a una cultura greca ancestrale opposta alle leggi della Polis. Ma in pochi gliel’hanno perdonata, a cominciare da Maurizio Costanzo. Si parla poi molto dell’incontro con l’editore Elido Fazi e del fido Simone Caltabellota, editor e gentiluomo, quello che ha convinto i suoi a pubblicare il libro e lei a riscriverlo da capo. Si parla anche dei diritti cinematografici mal gestiti e svenduti in un brutto film. Ma è un peccato che Melissa nulla scriva del turbine dei tour promozionali in cui è stata inserita in Italia e all’estero dal suo editore, che non si è fatta certo sfuggire la pollastra dalle uova d’oro. Melissa è stata capace di affrontare anche quaranta interviste al giorno, anche se le domande erano sempre quelle. In poco tempo ha però viaggiato quanto noi in dieci anni e conosciuto da vicino scrittori e artisti, a fianco del fedele Thomas. Già, Thomas. Che si fosse messa insieme al figlio del suo editore lo scrisse per primo il quotidiano israeliano Haaretz, dimostrando ancora una volta l’efficienza di certi ambienti. Eppure era amore, non calcolo, e la relazione è durata diversi anni, incrinata però dalla scorrettezza di papà Fazi. Ma di questo non si parla nel libro, che educatamente sorvola sui panni sporchi. Rivediamo infatti Melissa già impoverita, costretta a cambiar casa e ridimensionata nei suoi obiettivi. Vive ormai a Roma da più di dieci anni e naturalmente continua a scrivere.

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Libri 14040202 La bugiarda 978-88-6044-390-8_LaBugiardaTitolo: La bugiarda

Autore: Melissa P.

Edizioni: Fandango Libri, 2013

Pagg. 222

E-book EPUB

Lingua: Italiano

Prezzo: 15 €

 

http://www.10righedailibri.it/prime-pagine/bugiarda

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Ricercatori ricercati

Il “colpaccio” è un soggetto frequente nel cinema italiano (L’audace colpo dei soliti ignoti, Prendi i soldi e scappa, Per un pugno di dollari). Qui però a tentare il salto di qualità non sono maldestri pregiudicati o avventurieri, ma ricercatori universitari disoccupati grazie ai tagli alla ricerca. Uno di loro, Pietro, specializzato in neurobiologia molecolare, ha creato un rivoluzionario algoritmo che può essere sfruttato per produrre particolari sostanze di sintesi, ma l’importanza della ricerca non viene compresa dalla commissione universitaria. Una volta a casa, mente a Giulia, la sua ragazza, ma ha un piano diabolico: la sua ricerca servirà per produrre droga sintetica da una molecola non ancora registrata dal Ministero e quindi non ancora illegale. A questo punto Pietro organizza una banda e ne faranno parte le migliori menti disoccupate: Mattia e Giorgio, due latinisti per ora benzinai; Alberto, un chimico che fa il lavapiatti in un ristorante cinese; Bartolomeo, un economista sfigato giocatore di poker; Arturo, un archeologo di Soprintendenza; infine Andrea, un antropologo che cerca lavoro nei cantieri. Tutte intelligenze sprecate, d’ora in poi al servizio del crimine: insieme ottimizzano la produzione e lo spaccio della nuova droga sintetica nelle discoteche e assai presto imparano a comportarsi da delinquenti duri e decisi. Cercano di non dare nell’occhio, ma scivolano subito nell’eccesso e nella cafoneria, presto notata da fidanzate e investigatori. Uno della banda diventerà anche dipendente dalla droga che produce, creando non pochi guai ai compari. Oltretutto Giulia è un’assistente sociale che si occupa di tossicodipendenze, per cui lo scontro con Pietro è inevitabile. Ma ormai il dado è tratto: la banda grazie alla sua fama verrà introdotta negli ambienti che contano. E qui avviene una curiosa ibridazione: trasferendosi nelle terrazze delle feste dei vip,  il film si ricollega idealmente a La grande bellezza, che di feste in terrazza con vista su Roma ne mostra anche troppe. Ma presto si arriva all’attrito di frontiera tra bande, e quelli del “Murena” non scherzano.: troppo tardi ci si accorge di esser finiti in un gioco più grande del previsto. Giulia nel frattempo resta incinta ma caccia Pietro di casa, e alla cena di riconciliazione si presenta “Er Murena”, che ha rapito Giulia. Se la rivuole viva, Pietro deve dargli 20.000 dosi della nuova droga. Nel frattempo Alberto è stato arrestato dopo un incidente, per cui manca la materia prima per produrre le dosi. Che fare? Si rapina una farmacia, ma il farmacista riconosce il prof e rimane anche ferito. Per l’incontro col Murena si sceglie il matrimonio di Bartolomeo con la sua fidanzata zingara sinti perché – testuale – è l’unico posto dove ci sono uomini più pericolosi di lui (alla faccia dell’intercultura). In realtà una sola pasticca è buona, le altre sono  di zucchero e il Murena ci casca e sarà pure incastrato per sequestro di persona: è nel suo portabagagli che ritroveranno il farmacista rapito. Piero infatti ha patteggiato con la polizia: lui dentro, fuori gli altri, e il Murena consegnato in confezione regalo. Il film si chiude a Rebibbia, dove Piero insegna fisica ai detenuti e riceve le visite di Giulia col bambino, sperando di non uscire subito: lo stipendio serve…

Il film è irresistibile e la sua promozione – al passo coi tempi – è avvenuta attraverso il web e i social network. Si è fatto il confronto con I soliti ignoti, ma qui è diverso: anche se la banda è improvvisata, è formata da laureati specializzati prestati al crimine, dove ognuno sfrutta ognuno le proprie competenze professionali. In realtà è un film molto duro e anche un atto di accusa contro uno Stato che investe tempo e denaro per formare i giovani ricercatori e poi li manda per strada o li fa scappare all’estero. Si parla sempre di sprechi di denaro pubblico: ebbene, questo è il peggiore perché spreca talenti e impedisce la formazione di una classe dirigente. Qui nel film sono gli immigrati a dar lavoro agli italiani, il che – se uno gira per Roma – è più che una trovata di sceneggiatura. E sempre Roma rimane la regina indiscussa del cinema italiano, che vede ora un regista esordiente, il salernitano Sidney Sibilia, che si direbbe nato grande: poco più che trentenne, finora aveva fatto solo due buoni cortometraggi e sicuramente tanta pubblicità, almeno a giudicare dal ritmo serrato delle scene. Quello che invece sorprende è il suo atteggiamento verso i giovani, che ne escono proprio male: studenti svogliati, pieni di soldi e impasticcati, nel migliore dei casi volgari e strafottenti. Evidentemente lo stacco fra generazioni ormai si misura in tempi brevi,  ma sorprende un atteggiamento così negativo da parte di un trentenne. Infine, facciamo una scommessa: gli americani compreranno il film per farne subito un remake. Si presta la trama, si prestano i tempi rapidi e l’idea di base, che può essere riambientata a New York o a Los Angeles. A patto che i ricercatori universitari facciano anche lì la fame.

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06 Cinema Smetto quando voglio Locandina-smetto-quando-voglioSMETTO QUANDO VOGLIO

Un film di Sydney Sibilia

Con Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo.

Commedia

durata 100 min.

Italia 2013

01 Distribution

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Allacciati all’anello chiuso

Siamo in Puglia, a Lecce. Il film inizia con una sgradevole scena a una fermata d’autobus, dove una ragazza polemizza con un giovanotto aggressivo e razzista. Elena – questo il suo nome – lavora in un bar ed è fidanzata con Giorgio, un giovane professionista. Anche Elena è borghese; ha lasciato l’università ma frequenta un ambiente colto. Al lavoro e nella vita fa trio con Silvia – l’amica del cuore – e Fabio, il suo coinquilino gay. L’equilibrio si rompe quando Silvia presenta il suo nuovo uomo: Antonio, un meccanico palestrato ma rozzo, che altri non è che l’uomo con cui Elena ha litigato all’inizio del film. In realtà tra Elena ed Antonio nasce una fortissima attrazione sessuale, che avrà il suo culmine in una gita al mare organizzata alle spalle dei rispettivi fidanzati. Nel frattempo Elena e Fabio intendono rilevare una vecchia stazione di servizio per farne un bar alla moda, e riusciranno nel loro progetto. A questo punto il film fa un brusco salto in avanti: dal 2000 passiamo al 2013, e i due festeggiano il tredicesimo anniversario del locale, pieno di amici e di musica. Nel frattempo Elena ed Antonio si erano sposati e hanno avuto due figli, ma il matrimonio risente delle differenze sociali e culturali. E qui irrompe l’imprevisto: Elena scopre di avere un tumore al seno, da curare con la chemioterapia, e da quel momento la sua vita cambia. Amici e parenti le si stringono intorno, Antonio si chiude in sé stesso. Elena deve lasciare il lavoro e il film si sposta fra visite mediche, ospedali e terapie. Ritrova una dottoressa che frequentava il bar e fa amicizia con Egle, sua simpatica compagna di sventura. E qui assistiamo a una scena mai vista prima nel cinema italiano: Antonio ed Elena riscoprono la passione originaria e fanno l’amore in ospedale, nonostante il corpo della donna sia ormai devastato dal male. In seguito Egle muore ed Elena litiga con la dottoressa, che invece la rassicura sul futuro della terapia. Scapperà dall’ospedale e il marito, invece di ricondurvela subito, la porterà sulla stessa spiaggia dove avevano fatto l’amore tredici anni prima. E qui c’è una strana scena: lo scontro evitato per un pelo tra la moto e il suv che vediamo all’inizio del film, viene ora riproposto dal punto di vista del suv. Ma in realtà sia a bordo del suv che sulla moto ci sono gli stessi personaggi – Elena ed Antonio – più giovani / vecchi di tredici anni di loro stessi. E il film non finisce qui: una serie di flash-back chiarirà alcuni antefatti inediti nel legame tra i quattro amici/amanti. Fabio stava insieme al fratello morto di Elena, Silvia si era messa con Giorgio. Come si vede, è un film complesso, molto costruito anche se in un certo senso elementare: mette infatti in scena l’istinto anteposto al raziocinio, la carica vitale contro la morte, gli ormoni prima ancora delle leggi e delle convenzioni sociali. E nel turbine delle relazioni, c’è in realtà un ordine: ogni personaggio struttura un legame forte con un altro, lasciandosi però un ampio margine per lasciarsi andare con altri. Ma quando l’avventura diventa legame, l’equilibrio generale è ristabilito: scopriremo infatti che Silvia si era messa con Giorgio, proprio come Elena aveva fatto con Antonio.

 

La scena dello scontro evitato tra moto e suv merita un’analisi a parte. Non è un flash-back, ma piuttosto una fusione di due tempi diversi vissuti dalle stesse persone da un diverso punto di vista e da un’altra età. Procedimento raro: nel cinema la struttura del tempo non è circolare ma vettoriale, mantiene sempre uno scorrimento lineare, al massimo alternato da flash-back che interrompono ma non negano la linearità del racconto; ne costituiscono piuttosto un ampliamento. Una variante è quella usata da Krzystof Kieslowski fin dal suo saggio di scuola di cinema (Il tram, 1966), sviluppata in Destino cieco (1981) e perfezionata ne La doppia vita di Veronica (1991): due vite possibili e parallele sono offerte ad un unico personaggio. È la struttura poi volgarizzata in Sliding doors (1998) dal regista inglese Peter Howitt. Ma cercare di fermare il tempo è impossibile e in questo senso ricordo uno stupendo film ungherese, Il tempo sospeso (1982), di Péter Gothàr. Ambientato nella Budapest del 1963, mostrava una società artificialmente congelata dal regime comunista, mentre in profondità i giovani continuavano ad amarsi, a crescere, a proiettarsi nel futuro. Il tempo circolare invece è raro: a memoria d’uomo, l’unico film italiano così organizzato è Giulia e Giulia (1987), diretto da Peter Del Monte su sceneggiatura di Sandro Petraglia. Il procedimento è invece più familiare nel cinema di fantascienza: ne La jetée di Chris Marker (1962), nello stesso istante convivono un bambino di otto anni e il suo sé adulto che viene ucciso davanti ai suoi occhi. La visione della propria morte è un anacronismo e se il bambino non avesse visto questa scena, non sarebbe stato selezionato per un esperimento di viaggio nel tempo. Un altro regista, Terry Gilliam ha usato procedimenti analoghi ne L’esercito delle 12 scimmie (1995). È il paradosso temporale che potremmo chiamare anello chiuso.

 

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06 Cinema Allacciate le cinture Ferzan Özpetek Allacciate le cintureALLACCIATE LE CINTURE

Un film di Ferzan Ozpetek

Con Kasia Smutniak, Francesco Arca, Filippo Scicchitano, Francesco Scianna, Carolina Crescentini, Carla Signoris, Elena Sofia Ricci, Paola Minaccioni.

 

Commedia

durata 110 min.

Italia, 2013

01 Distribution

 

http://www.ferzanozpetek.com/

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 06 Cinema ALLACCIATE LE CINTURE cinture3-500x350

 

 

Terapia per un analista

Forse i professionisti della psicoanalisi avranno anche da ridire su questa commedia, ma è uno spasso. Un analista separato deve gestire tre figlie grandi, ognuna più problematica dell’altra. Tutt’e tre giovani e belle, ma pasticcione in amore: una è lesbica ma ora vorrebbe provare gli uomini, la seconda gestisce una libreria e s’innamora di un ladro di libri sordomuto. La terza, infine, va ancora al liceo ma si è messa con un architetto sposato cinquantenne. Troppo anche per un analista, il quale si era almeno abituato ad avere una figlia gay. La quale invece cerca ora goffamente di trovarsi un fidanzato, aiutato dalla sorella libraia. L’ambiente è quello della movida romana: case e locali al centro storico e un’atmosfera tra il colto e il plebeo, con frequenti cadute di tono. Ben diverso dal rarefatto ambiente in cui viene introdotta la sorella innamorata del ladro di libri: costui in realtà lavora come usciere al teatro dell’Opera e si dimostra un ipersensibile intenditore. Per non perderlo, lei imparerà il suo linguaggio, venendone ricompensata con una serata da sogno proprio al teatro dell’Opera, organizzata solo per lei. Resta da risolvere la relazione della terza sorella, poco più che maggiorenne. Al che il padre impone al suo maturo fidanzato di entrare in terapia da lui. In tanta ambiguità, il suo piano è analiticamente corretto: se l’uomo si lascerà alle spalle la relazione con la moglie sarà realmente libero di costruire la relazione con Emma. Ma se invece scoprirà di essere ancora legato alla moglie, lascerà libera Emma di vivere relazioni più adatte alla sua età.

Tutto funzionerebbe se l’analista non fosse innamorato proprio della moglie del paziente. L’identità della donna non gli era nota, ma ormai la commedia degli equivoci si scatena, fino alla ricomposizione finale: il marito torna dalla moglie, due delle tre figlie troveranno davvero l’amore e la più giovane ha comunque una vita davanti a sé. L’unico che rimane spaiato è l’analista, che comunque torna a vivere per le figlie, di cui ha riconquistato durevolmente la stima e l’affetto. Come al solito, attraverso la commedia in Italia vengono “addomesticate” e integrate le varie, successive diversità che fanno gradualmente il loro ingresso nella nostra società: qui il cambio di identità sessuale, la relazione squilibrata per età, la promiscuità sessuale, accanto al più tradizionale triangolo amoroso.

 

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06 Cinema TUTTA COLPA DI FREUD tutta-colpa-di-freudTutta colpa di Freud

Un film di Paolo Genovese

Con Marco Giallini, Anna Foglietta, Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Laura Adriani.

Commedia

Italia, 2014

Medusa

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 06 Cinema TUTTA COLPA DI FREUD Tutta-colpa-di-Freud-1