Tutti gli articoli di Marco Pasquali

In difesa della geografia

La geografia abolita dai programmi scolastici, persino da quelli dell’Istituto nautico ( !? ) e forse mantenuta (quella economica) in quelli dell’Istituto tecnico per il commercio? Quand’era ministro della P.I. l’on. Berlinguer le cambiò il nome in Scienze della Terra, ma per fortuna non andò oltre. L’ultima assurdità è invece in linea con l’americanizzazione della scuola italiana: se i padroni del mondo sono infatti così notoriamente ignoranti in materia è perché essa viene insegnata solo per due anni alle medie. Si parla ora di introdurre nuove scienze: la geostoria, la geopolitica, la geosocietà, la scienza dei luoghi e delle comunicazioni integrata nell’ora di storia, senza chiarirne il senso e la strutturazione. Sia chiaro: la distinzione dello spazio e del tempo e la loro organizzazione concettuale in geografia e storia, come materie o come discipline diverse (se non addirittura separate) non ha senso, perché chi cresce e apprende le percorre e le costruisce contestualmente. Ma la giustificazione didattica consisterebbe nel fatto che oggi, in un mondo globalizzato, con le comunicazioni fisiche e simboliche sempre più intensificate (i trasporti, i media, il web) lo spazio non è più quello di vent’anni fa…

Il problema in realtà è mal posto: la materia non essendo costituita dallo spazio in sé ma, dalla sua percezione e dalla sua strutturazione simbolica. Prima della motorizzazione di massa gli orizzonti spaziali e temporali della gente erano limitati; nel medioevo lo erano ancora di più, mentre l’uomo del Rinascimento vive in una dimensione nuova. Ricordo uno stupendo film del regista portoghese Manuel de Oliveira, dove due gentiluomini discutevano del Mondo Nuovo. Dietro di loro, a parete, c’era una grande carta geografica, aggiornata con le nuove esplorazioni. E chi è stato a Lisbona, sa che oltre la torre del Belèm c’è solo l’Oceano. Questo per dire che lo spazio geografico o nautico esistono solo se riusciamo a organizzarlo mentalmente, a comprendere qual è il nostro posto e il nostro rapporto al suo interno e verso di esso. Questo spazio possiamo,anzi dobbiamo percorrerlo, ma possiamo anche solo immaginarlo: la geografia medioevale si rifaceva a Tolomeo, ma era ormai congetturale, priva di verifica: gli antichi descrivevano spazi ormai interdetti al viaggiatore, come oggi  per noi sono la Siria o la Somalia. E se il deserto per noi è l’ignoto, per un Taureg o un Tebu esso non ha segreti perché il nomade ci vive da sempre e col tempo e l’esperienza ne ha organizzato mentalmente la struttura, allo stesso modo in cui un nocchiero se la cava in mare aperto, di giorno con venti e correnti e la notte con le stelle. Anche l’astronomia è parte della geografia, si tratta solo di alzare gli occhi al cielo invece che guardare verso il basso o in direzione di quattro punti cardinali. E anche l’astronomia ormai ha ampliato i suoi orizzonti, l’Universo è in continua espansione. Ma la sua strutturazione simbolica era stata già intuita da Giordano Bruno quando parlava apertamente di Infiniti Mondi: la strutturazione simbolica dello spazio può precorrere di secoli la sua verifica scientifica.

Oggi invece molti viaggiano sapendo l’ora di partenza e di arrivo dell’aereo e la direzione del viaggio, ma senza idea alcuna del luogo fisico. E’ la c.d. geografia di punto, svincolata dalla sintesi spaziale, come se le coordinate indicate da un GPS non producessero che un punto assoluto in uno spazio indefinito o al massimo un angolo di rotta che unisce un punto noto ad un punto di arrivo che non ci interessa localizzare in un insieme. Si può anche vivere così, facendo a meno di strutturare lo spazio esterno, ma è consigliabile? Mi è capitato di seguire un giorno una tirocinante di Istituto tecnico per il turismo che lavorava in un’agenzia di viaggi. Ebbene, sapeva tutto sulle tariffe e gli orari per andare a Bologna, ma non sapeva dov’era Bologna. Non era tutta colpa sua, visto che sui muri dell’agenzia non c’erano carte geografiche, ma anche la decenza ha un limite. Si dice pure che la geografia si apprenderebbe pressoché spontaneamente nel contesto sociale, ma allora tanto vale non insegnare più l’italiano perché ormai in casa non si parla più in dialetto. Proprio il paragone con la linguistica insegna invece che il parlante ha competenza ma non coscienza linguistica, quindi deve imparare a conoscere leggi e struttura della lingua madre non solo per trasmetterla ad altri, ma per costruirsi un’identità forte verso l’esterno. Come la linguistica, anche la geografia si occupa infatti di un problema delicato: stabilire i rapporti spaziali e temporali con la realtà esterna, rapporti che necessariamente sono simbolici e devono essere strutturati in modo coerente e razionale. La visione del mondo può cambiare da cultura a cultura, ma ogni civiltà sente il bisogno di organizzarne una, e lo fa scientificamente. Non per niente lo studio della geografia è anche studio della matematica. Il problema quindi non è quello della disponibilità oggettiva di quanto una volta era uno spazio remoto, ma dell’incapacità soggettiva nel saper costruire da soli le coordinate spaziali e la strutturazione dello spazio intorno a noi. L’orientamento forse lo risolvono bussola e GPS, ma lo spazio non è solo un insieme discreto di punti: è Natura, Cultura, paesaggio, insediamento umano, mare, montagna, ecologia, viaggio, campo di battaglia, luogo di commercio…

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Dismissioni: Edifici a nuova vita

Un’operazione che alcune società moderne sembrano incapaci di fare è la ristrutturazione e il riutilizzo delle aree e degli edifici dismessi. Non è un fenomeno solo italiano: ho visto a Pola (attualmente in Croazia) le enormi istallazioni del porto militare oggi totalmente abbandonate e pericolanti . Ma in Italia penso che deteniamo il record: decine di colonie estive in rovina lungo l’Adriatico, decine di caserme chiuse da anni, fabbriche dismesse, enti assistenziali pericolanti, enormi, vecchi magazzini portuali o ferroviari vuoti. È il risultato delle successive ristrutturazioni degli ultimi trent’anni, si dirà: dell’esercito, dell’industria, dell’assistenza sociale, del trasporto merci. Mentre però all’estero (penso ad Austria e Germania) le caserme dismesse, tanto per fare un esempio, sono state subito vendute e riadattate ad alberghi o alloggi demaniali, in Italia stanno sempre lì, quasi un insulto ai soldati di leva che le hanno mantenute a specchio per mezzo secolo, nonostante alcune siano situate in luoghi ormai centrali e urbanisticamente preziosi. Le procedure di alienazione e di ristrutturazione sono così complicate e arcaiche da ritardare o scoraggiare persino l’italica borghesia compradora, sempre che lo Stato decida davvero di disfarsene. È impressionante vedere in che stato sono ridotte le colonie estive, decadute dagli anni ’80 in poi, quando l’individualismo esasperato e il nuovo benessere non prevedeva che i bambini fossero più affidati per l’estate a strutture pubbliche. Quello che è peggio, molti archivi di colonie, ospedali ed enti, pieni di dati sensibili e schede personali, sono ormai allo sbando. E se nelle città a bassa pressione demografica (come Trieste) caserme e magazzini portuali restano spettralmente abbandonati, a Milano, Roma o Torino questi spazi vuoti vengono quasi subito occupati da diseredati, immigrati, centri sociali, senzacasa e altri emarginati. Nel migliore dei casi, quando c’è un minimo di controllo pubblico, lo spazio viene assegnato per quote, contro ogni progetto unitario. A Roma di situazioni simili ve n’è a decine, dall’ex-ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà all’ex-GIL, dalle fabbriche chiuse sulla Tiburtina o sulla Prenestina ai casali della campagna romana.

Una terza via la suggerisce qualche volta la gente stessa, proponendo attività ludiche e artistiche o legate al tempo libero e utilizzando temporaneamente questi vuoti. Penso ai concerti a Forte Prenestino o Ardeatino, alle varie performance di artisti negli spazi ex-industriali, che ben si adattano al gigantismo delle opere di arte contemporanea o alla valorizzazione e riappropriazione del non-luogo. E’ un fenomeno diffuso, che parte dal basso e mantiene un uso comunque pubblico dello spazio demaniale, laddove la svendita ai privati favorisce esclusivamente attività commerciali o legate al turismo e in più creano una serie di barriere interne che frantumano lo spazio e fanno rimpiangere il latifondo.

La vera soluzione? L’urbanistica e la capacità di pensare sui tempi lunghi. Lo dimostra l’esempio dell’Arsenale di Venezia, tuttora di proprietà pubblica ma aperto all’arte. Potrebbero dimostrarlo una serie di spazi dismessi se solo potessero diventare università e luoghi di ricerca. Inizialmente le spese di investimento saranno alte, ma tali strutture possono attirare una serie di forze giovani e di ricercatori internazionali che possono creare nel tempo il valore aggiunto. Mi rendo conto di essere forse un sognatore, ma per ora in mancanza di un’iniziativa pubblica e di un concorso di idee, si rischia solo l’implosione.

e, si rischia solo l’implosione.

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I soldatini di piombo

Letteralmente, Romani di zinco. In Germania. Zinnfiguren sono quei soldatini piatti alti poco più di 3 cm, da noi meglio noti come Norimberga,dal nome della città dove storicamente erano fusi in lega di piombo, zinco e antimonio e poi con pazienza dipinti a mano da artisti locali o dai collezionisti stessi. Ormai in disuso come giocattoli, questi soldatini sono spesso utilizzati dai collezionisti per comporre scene storiche in miniatura, i c.d. diorami. Ebbene, questo libro non solo dimostra l’amore per la Roma antica tanto diffuso nei tedeschi di buona cultura, ma ci guida alla composizione delle scene. I figurini di piombo – legionari, civili, suppellettili, alberi – infatti hanno ognuno un codice e si possono comprare su catalogo presso una antica fabbrica di soldatini tuttora esistente a Berlino, che ho visitato personalmente. Possiamo ricostruire tutto quello che vogliamo: l’assassinio di Cesare, l’assedio di Alesia, la disfatta di Varo da parte di Arminio, un accampamento di legionari, ma anche l’operosa vita di una villa rustica, l’animato mercato di una piazza romana, la costruzione del Limes. L’iconografia d’insieme risente un po’ delle ricostruzioni di maniera, ma noi possiamo sempre metterci la nostra creatività. Che dire? E’ un libro realmente originale. In più, un dettaglio interessante: per essere più facilmente riprodotte, le tavole sono stampate a fogli mobili, accorgimento molto pratico ma raramente seguito da altri editori.

 

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Autore: Friedrich Giesler

Titolo: Römer in Zinn. Römische Geschichte in Zinnfiguren

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Editore: Rheinland- Verlag, Köln, 1992

Dati: Pappband 59

Prezzo: EUR 17,40

ISBN 3792712091

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Nanni Moretti: I primi sessantanni

Rivedere dopo tanti anni Io sono un autarchico (1976) mi ha fatto impressione, era come rivedere una Roma ormai lontana e storicizzata. Eppure Alberto Moravia notò che al Filmstudio, dove il film veniva proiettato, non c’era differenza tra il pubblico e quanto si vedeva nella pellicola. L’identificazione era dunque immediata e questa fu la fortuna del film e del suo giovane regista, che dal superotto sarebbe passato al 35 mm (in realtà un 16 mm gonfiato) con Ecce Bombo (1978), il film con cui ha consolidato la sua carriera. Pochi ricordano Sogni d’oro (1981) ma sicuramente hanno visto Bianca (1984) e i film successivi, cinematograficamente più maturi, che non analizzo in questa sede, ma in cui è facile notare una progressiva estensione a tutta la società italiana dell’analisi partita dal privato, sulla base di un pensiero etico che pochi registi italiani hanno sviluppato in modo così rigoroso. Faccio piuttosto notare che la critica cinematografica, e non solo quella ideologicamente schierata, fu con lui fin dall’inizio molto clemente, mostrando un entusiasmo unico nel suo genere e sorvolando sulle inevitabili smagliature di un’opera prima. Meno fortuna e clemenza ebbero infatti negli anni ’80 le opere dei suoi seguaci, all’epoca indicati collettivamente come morettismo, sorta di commedia all’italiana a passo ridotto sulle inconcludenti giornate e i tic nervosi dei giovani della sinistra studentesca.(1). A far carriera sono stati pochi, e qui mi piace ricordare Daniele Luchetti, Roberto Di Vito e Claudio Fragasso. I primi due sono stati anche aiuto registi, di Moretti, mentre Fragasso , dopo un fortunato inizio realistico (Passaggi, 1979) seguirà strade diverse (Difendimi dalla notte, 1981), sviluppando un reale talento per l’horror (2). Ma anche Luchetti e Di Vito si sono affermati in quanto autonomi e diversi dal maestro; il primo con Domani accadrà (1988) (3), l’altro con creazioni sospese tra realismo e immagine onirica (4). In realtà Roma non era solo la capitale del cinema industriale, ma anche di quello amatoriale, svincolato ormai dalla FEDIC (la gloriosa Federazione dei cineclub) e dal Festival di Montecatini che li valorizzava. I cineclub romani sono tutti figli del ’68 (Filmstudio, Politecnico, Occhio Orecchio Bocca, Cineclub Tevere poi Labirinto) i quali, oltre a proporre il cinema che non si vedeva in sala, incoraggiavano tutti noi a prendere in mano una cinepresa e a mettersi in gioco. Ricordo benissimo, p.es., la stagione dell’Underground,  che, pur entro i limiti di una cultura di importazione, resta un episodio degno di essere ricordato. Era l’epoca d’oro del cortometraggio e ne avrò visti centinaia, italiani e stranieri. Negli anni ’80 assistiamo invece a un fenomeno strano: il cinema italiano ha proposto in sala almeno 450 esordienti in dieci anni. Tenendo conto che nello stesso periodo la televisione privata stava divorando il cinema italiano per poi digerirlo, tuttora è poco chiaro come facessero tanti autori finanche privi di scuola di cinema a sfornare opere prime, totalmente scollate dalle strutture produttive e distributive, festival esclusi. C’era ancora l’articolo 28 (una legge del Ministero dello Spettacolo che finanziava il cinema d’autore), ma la distribuzione era già al collasso e di troppi autori non si è saputo più nulla. Di quel periodo ricordo bene solo un film: I ragazzi di Torino sognano Tokyo ma vanno a Berlino (1985), per la regia di Vincenzo Badolisani, che oggi lavora in tv senza troppa gloria. Di tanti altri non riesco a ricordarmi che poche scene o alcune frasi di dialogo, mai incisive e caratterizzate come quelle di Nanni Moretti, ormai divenute proverbiali. Solo lui infatti è riuscito a diventare paradigma, cioè modello di riferimento, magari odiato dalla cultura di destra, che non vedeva i suoi film ma si gratificava nel contemplare dall’esterno il declino dell’intellighencija. Altri lo ignoravano come lo ignorano tuttora: semplicemente non lo capiscono. E a rivedere Io sono un autarchico, si notano gli stessi pregi e limiti dei film successivi: idee originali sviluppate con ritmo ponderato, la tendenza dell’autore a rubare la scena, il minimalismo e soprattutto il primato della parola sull’immagine. Nel complesso, nessuno ricorda i film di Nanni per i movimenti di macchina o per la fotografia: il suo è un cinema fortemente concettuale, incapace forse di partire da un’immagine, ma capace però di anticipare i tempi invece di registrare quanto esiste. Habemus Papam (2011) è un film emblematico: la sua tesi era considerata con scetticismo dall’Osservatore romano, fino a quando due anni dopo la realtà ha superato la fantasia. Nanni Moretti è lentamente cresciuto come regista quando è passato dalla descrizione del quotidiano all’analisi profonda della società italiana. E non sono molti tutto sommato i registi che hanno l’Etica come fondamento della loro cinematografia.

  Nanni Moretti index

 

 

 

 

 

 

 

 

Note.

 

 

 

 

 

 

 

  • (4) Roberto Di Vito è il vero cineasta indipendente, impossibile collegarlo a scuole o maestri o capire a cosa sta pensando. Quando girava in superotto, non di rado gli prestavo io le attrezzature necessarie e sono contento che abbia fatto carriera. Tra me e lui è rimasto un grande rapporto di amicizia. Assistente alle riprese per due film di Nanni Moretti (Bianca e La messa è finita). Segretario di edizione del film La setta di Michele Soavi. Regista, operatore e montatore video di backstage di importanti spot pubblicitari, tra i quali tre per la Banca di Roma diretti da Federico Fellini. Lavora sui set di Phenomena, Opera e Due occhi diabolici di Dario Argento. Esordisce ufficialmente alla fine degli anni Ottanta con un cortometraggio thriller La notte del giudizio, anche se in realtà ha cominciato a quindici anni girando una quarantina di cortometraggi in super8, alcuni dei quali devono molto all’estetica autarchica del primo Nanni Moretti. Ma è con Sole (1994), vincitore del premio del pubblico al Festival di Capalbio 1995, che si delinea una cifra autoriale più precisa: «Questa volta si tratta di un thriller esistenziale, psicologico, in cui la paura si alimenta di se stessa» spiega Di Vito. «La protagonista si lascia prendere dall’angoscia in una situazione di assoluta normalità. La casa, da rifugio ovattato, da “casa dolce casa”, si trasforma a poco a poco in un luogo ostile, pieno di rumori e presenze inquietanti. Sono stati d’animo che riguardano ognuno di noi, anche in età adulta. Quante volte, di notte, ci svegliamo improvvisamente con la sensazione che qualcuno sia entrato nella nostra camera da letto?». Ma se qualcuno ha voluto etichettare l’allora trentatreenne come uno dei nuovi cineasti horror, si è sbagliato di grosso. A Di Vito interessano gli spazi, i luoghi, gli stessi corpi attoriali che tendono all’astrazione. «Astrazione non vuol dire però sperimentazione estraniante, concettuale e noiosa. Io punto all’opposto, vorrei commuovere, emozionare e far sognare non partendo solo dalla storia o da quello che si dice ma anche da quello che non si dice. Da questo punto di vista, l’ambizione espressiva è alta: arrivare al cinema “commerciabile” ma puro, senza un grande intreccio narrativo». Il cortometraggio successivo, forse il capolavoro del regista, Ai confini della città, è un amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, completamente svuotata, pronta alla desertificazione, molto vicina ai paesaggi apocalittici di Ciprì e Maresco.Vincitore di svariati premi, tra i quali il Globo d’Oro nel 1998, segna anche il passaggio verso un approfondimento di tematiche sempre più personali: l’attenzione verso gli ultimi, condito da un realismo magico ambientato in luoghi mai banali, dal corto comico, interpretato da Stefano Masciarelli, Il parco (2000), all’astratto Righe (2001) e all’intenso L’angelo (2004). Per arrivare poi all’agognato esordio al lungometraggio Bianco, rielaborazione dell’omonimo cortometraggio del 2001, summa del cinema corto del regista con echi tra Polanski e Antonioni. Dopo aver partecipato al Fantafestival e Bari International Film Festival 2011, arriva finalmente in dvd, distribuito da CG Home Video. «Non è facile imbattersi nel panorama asfittico delle opere prime, molte delle quali terribilmente omologate, in un film come quello di Roberto Di Vito, così attento ai valori plastici e figurativi della composizione, della messa in quadro geometrica e rigorosa di ossessioni visive ed esistenziali, tali da renderlo, al di là del pretesto narrativo, particolarmente adatto ad esplorare i territori del fantastico, da decenni assai poco proficuamente praticati nel cinema italiano». 

(Anton Giulio Mancino).

 

 

Le culture delle persone

Mai come in questo momento in Italia si pone il problema dell’integrazione degli immigrati e lo dimostra da sola l’impressionante serie di insulti al ministro Kyenge. Il dibattito è dunque molto animato, ma da un punto di vista teorico rimane fermo ad una serie di stereotipi, mentre questo libro introduce una tesi nuova. Ma andiamo per ordine. I primi contributi scientifici sul problema appaiono alle fine degli anni ’80, quando ci si accorge che l’Italia da terra di emigrazione sta diventando anche il contrario (1). Si tratta di studi ora originali, ma spesso tradotti dal francese, visto che molti dei problemi erano stati affrontati dagli altri prima di noi. Proprio gli studiosi francesi notavano la debolezza del pensiero antirazzista – vagamente umanitario – nel confronto con il razzismo quotidiano del francese medio verso i suoi ex popoli colonizzati Il primo s’ispira a princìpi etici universali, il secondo tira le somme di una convivenza forzata (2). Da quel giorno i continui flussi migratori continuano a spostare milioni di persone, alimentando il dibattito nelle nostre società tra chi è propenso ad accogliere l’altro e chi tiene a chiudere frontiere reali e culturali, in nome della sicurezza e della difesa dell’identità nazionale. Si è passati nel frattempo dal concetto di assimilazione a quello di integrazione (3) ed è cresciuto anche il discorso interculturale, fondato sulla valorizzazione della ricchezza dell’altro. Si è però sottovalutato l’impatto che milioni di stranieri possono avere in pochi anni nel tessuto sociale. Giulietto Chiesa, ottimo giornalista e attivista politico, nella sua prefazione a un manuale sulla legislazione italiana verso gli stranieri (4), indica correttamente nella globalizzazione dei processi produttivi e dei mercati la causa dell’accelerazione dello spostamento di popolazioni verso i centri produttivi e ne descrive a lungo le sofferenze umane. Ma non spende una parola per capire cosa pensa il cittadino medio privo di cultura politica o di un ritorno economico diretto, davanti a una massa di estranei con cui è obbligato a convivere. Storicamente, i rapidi spostamenti di popolazione e di risorse provocano sempre conflitto, ma non averne riconosciuto la portata è una carenza teorica pagata con l’affermarsi in Italia e all’estero di formazioni politiche dichiaratamente xenofobe (5).

Ma torniamo al nostro discorso iniziale. Una volta il diverso per essere accettato doveva rientrare nelle categorie del pittoresco e dell’esotico. La prima era riservata agli abitanti della nazione dai costumi arretrati ma interessanti: scugnizzi, briganti, gitane, mangiatori di maccheroni, pastori sardi. L’esotico invece rimandava al favoloso Oriente e all’Africa nera, magari con un pizzico di erotismo. E l’antropologia, dal canto suo, quando non giustificava il razzismo, aveva fino a pochi anni fa il limite di descrivere le varie etnie sul posto dove vivevano. Ma ora sono loro che vengono da noi, e la pretesa scientificità dell’antropologia e della sociologia cede troppo spesso il passo alla politica, scivolando nella propaganda ora in senso razzista, ora integrazionista (6). Walter Baroni ha dunque dedicato il suo studio all’analisi dei discorsi attorno all’accoglienza, al mescolamento delle culture e delle matrici. (7). Il dispositivo di enunciazione interculturale è ricostruito attraverso l’esame di materiali eterogenei, che vanno dalle campagne di comunicazione visiva di governo, Ong e associazioni contro la discriminazione, alle opere degli scienziati dell’intercultura e alla letteratura della migrazione. Al centro dell’attenzione vengono poste le modalità con le quali si produce la trasfigurazione discorsiva dei migranti in carne e ossa nel simbolismo interculturale, sorta di doppione normalizzato dei primi, costretto a un dialogo tra culture che è poco più che un monologo dei professionisti dell’accoglienza.

I risultati? Negli ultimi decenni, all’ombra del discorso reazionario, centrato sulla minaccia dell’immigrato criminale, è cresciuto anche il discorso interculturale, fondato sulla valorizzazione della ricchezza dell’altro. Ma quella che a prima vista potrebbe apparire come un’opposizione, in realtà è una solidarietà segreta, che qui si cerca di mostrare, articolando una scrupolosa analisi delle retoriche dell’accoglienza e dell’integrazione. Si nota intanto l’efficacia – almeno in certi ambienti – delle motivazioni conservatrici rispetto a quelle ideologiche della sinistra e dei cattolici. Il discorso della destra ha uno sfondo economicistico: l’immigrato è forza lavoro, quindi rifiutare oziosi e delinquenti è normale: in fondo nessuna società sente il bisogno di importarne. Ma se un camionista dell’Est accetta paghe più basse e turni di notte, danneggia i padroncini, gli stessi che in realtà gli cedono la licenza in subappalto. Insomma l’immigrato va bene se si integra senza rompere troppi equilibri, tanto che in una delle campagne di comunicazione, quella del Progetto integrazione promosso dal Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, la badante parla veneto e il pizzaiolo napoletano! Evidentemente il centro-sinistra ha cercato di mediare davanti a un’opinione pubblica italiana tutto sommato razzista, accettando la segregazione neoliberista di una società ancora provinciale e poco internazionale, profondamente divisa tra “leghisti” e “progressisti”. Ma proprio qui s’inserisce la tesi dell’autore: gli argomenti dei primi sono basati su concetti economici ed etici, ma quelli dei secondi sono in sostanza una parodia delle motivazioni economiche che combattono. Il discorso produttivo resta – mascherato involontariamente – anche nel discorso umanitario: l’immigrato ti arricchisce (anche quando delinque?); un campo nomadi  produce al suo interno socialità. C’è un razzismo sotterraneo, non dichiarato, più gentile, che s’incardina sull’idea di valorizzazione della cultura altrui. C’è dunque anche un razzismo di centro-sinistra che ritiene che lo straniero sia qualcosa di diverso e vada integrato a tutti i costi: l’idea di alterità è talmente radicata che dell’immigrato facciamo un diverso. L’intercultura è dunque il problema di cui crede di essere la soluzione: questa, in sostanza, la tesi di fondo sostenuta e scrupolosamente argomentata da Baroni:

“In una campagna di Lettera 27 che analizzo nel libro, l’idea di fondo è che queste persone devono venire qua per arricchirci. Non ci passa neppure per l’anticamera del cervello che abbiano dei diritti universali e possano vivere dove vogliono. Così alla fine, a destra il discorso ha uno sfondo economicistico (l’immigrato è forza lavoro), a sinistra c’è un arricchimento simbolico, ma di fatto l’immigrato è sempre visto come qualcuno che deve darci qualcosa, avere una funzione. Quindi in sostanza il discorso non cambia.”

Conclusioni: il 2008 è stato l’anno europeo dell’intercultura, ma essa dovrebbe servire a tutti. Invece i progetti sono finalizzati a minoranze e immigrati, perché dobbiamo aiutarli, farli integrare e comunque giustificarne la presenza sul territorio. Si nega di fatto il concetto che l’integrazione sia una questione di diritti. Le varie campagne enfatizzano l’accettazione della cultura degli altri, ma è un compromesso. Il percorso dovrebbe essere alla rovescia: iniziamo a parlare di diritti (e doveri) e solo dopo facciamo un discorso di accettazione culturale. Perciò è un libro consigliato a tutti, e in particolar modo agli operatori culturali e ai mediatori (spesso in buona fede quanto lo erano i missionari), a chi fa informazione, ma anche ai politici, se interessati a costruire un paese democratico.

 

  *******************************Libro Contro l'intercultura. Retoriche e pornografia_images_cop.baroni

Titolo: Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro

Autore: Walter Baroni

Editore: Ombre Corte, 2013

Collana: Culture, Nr. 104

Pagine: 176

ISBN-10: 8897522424

ISBN-13: 9788897522423

Prezzo: 17 euro

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NOTE:

 

 

(1) Razzismo e antirazzismo tra presente e tradizione Roma : Editori riuniti riviste, 1989 – Fa parte di: Democrazia e diritto : rivista critica di diritto e giurisprudenza

 

(2) Razzismo e antirazzismo / Alain De Benoist, André Béjin, Pierre-André Taguieff  Firenze : 1992 ; Razzismo e antirazzismo : la sfida dell’immigrazione / René Gallissot ; Bari : 1992 ; La forza del pregiudizio : saggio sul razzismo e sull’antirazzismo / Pierre-André Taguieff  Bologna :1994

 

(3) L’assimilazione prevede in una qualche misura l’abbandono della propria lingua e dei propri valori a favore di quelli della cultura egemone, l’integrazione permette l’esistenza di isole culturali aliene, purché non entrino in conflitto coi valori della società di accoglienza.

 

(4) Legislazione stranieri : per comprendere, decodificandolo, un diritto difficile / Lucio Barletta ; con la collaborazione di Domenico Colotta . Roma , 2007.

 

(5) E’ noto che in Europa esistono movimenti ben più estremi della Lega Nord, ma non sempre hanno quel riconoscimento giuridico e morale che in Italia abbiamo permesso ai leghisti, né all’estero un ministro della repubblica verrebbe insultato impunemente in aula e fuori. Il razzismo della Lega fa passare tra l’altro in secondo piano meccanismi istituzionali di separazione ed esclusione ben più radicali e strutturati, come quelli imposti dalla Sud Tiroler Volkspartei in Alto Adige non solo agli immigrati, ma agli stessi cittadini italiani..

 

(6) Il problema è più chiaro se impariamo a distinguere l’informazione dalla propaganda. L’informazione deve essere attendibile, verificabile e completa. La propaganda non lo è. Esiste in realtà una via intermedia, laddove l’informazione è scientifica e attendibile ma non completa. Penso a Lacio drom, la rivista di studi zingari diretta da Livia Karpati, che per diciotto anni è riuscita a parlare di Sinti, Rom e Camminanti senza mai nominare la parola furto; come parlare di Corleone discorrendo di soli agrumi. Eppure il livello scientifico della rivista era ottimo: spaziava dalla politica all’etnologia, dalla giurisprudenza alla sociologia, dalla letteratura al cinema, coprendo zone geografiche vastissime. Ma era viziata dal pregiudizio positivo, ammesso che il termine abbia senso.

 

(7) Walter Baroni collabora con il Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Genova. Al centro della sua attività di ricerca sono i processi di soggettivazione e di segregazione discorsiva dell’altro. Ha pubblicato saggi sulla marginalità urbana e sulla differenza culturale, in riviste e volumi nazionali e internazionali.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Razzismo e antirazzismo tra presente e tradizione Roma : Editori riuniti riviste, 1989 – Fa parte di: Democrazia e diritto : rivista critica di diritto e giurisprudenza

 

Bianco su nero : satira e illustrazione su razzismo e antirazzismo / a cura di Elisabetta Cirillo, COSPE, Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti  – Milano : Nuages, 1992

 

 Razzismo e antirazzismo / Alain De Benoist, André Béjin, Pierre-André Taguieff  Firenze : La roccia di Erec, 1992

 

Razzismo e antirazzismo : la sfida dell’immigrazione / René Gallissot ; cura e introduzione di Annamaria Rivera.  Bari : Dedalo, 1992

 

L’ antirazzismo in Italia e Gran Bretagna : uno studio di educazione comparata / Sandra Chistolini ; prefazione di Mauro Laeng.  Milano : F. Angeli, 1994

 

Antirazzismo ed istituzioni : atti dell’incontro-dibattito con la Polizia di Stato SOS Razzismo Italia e SIULP / a cura di Angela Scalzo ; prefazione di Luigi M. Lombardi Satriani. Roma : CentroStampa De Vittoria, 1994

 

Guida per amare i tedeschi / Roberto Giardina.  Milano : Rusconi, 1994, 1995. –  351 p. ; 21 cm Collezione · Problemi attuali. Interventi  In copertina. dopo il tit.: come superare i pregiudizi e smontare i luoghi comuni

 

La forza del pregiudizio : saggio sul razzismo e sull’antirazzismo / Pierre-André Taguieff.  Bologna : Il mulino, 1994

 

Razzismo ed antirazzismo in pubblicita / Maria Laura Mautone ; rel. M. Livolsi  Milano : Istituto Universitario di Lingue Moderne, 1993/94

 

Con quella faccia da straniero … : sussidio per l’educazione alla convivenza interculturale e all’antirazzismo / a cura di Alberto Caldana e Cinzia Sabbatini  – S.l. : s.n., 1995?

 

Il razzismo spiegato a mia figlia / Tahar ben Jalloun. Milano, Bompiani, 1998

 

Rappresentazioni degli immigrati a Torino. Problemi per l’antirazzismo / Laura Maritano  -Fa parte di: Afriche e orienti : rivista di studi ai confini tra Africa, Mediterraneo e Medio Oriente

 

Razzismo e antirazzismo nella cultura europea : tesi di laurea / Michela Fabris ; relatore: Paolo Sibilla  , A.a. 2002-2003

 

Attacco antirazzista : Rapporto sul razzismo e antirazzismo nel calcio / a cura di Mario Valeri. Roma : Associazione culturale Panafrica, ©2006

 

Legislazione stranieri : per comprendere, decodificandolo, un diritto difficile / Lucio Barletta ; con la collaborazione di Domenico Colotta . Roma : Sinnos, 2007.  223 p. ; 21 cm + 1 CD-ROM.

 

Educare al confronto : antirazzismo : aspetti teorici e supporti pratici / Monique Eckmann, Miryam Eser Davolio ; prefazione: Georg Kreis ; presentazione: Concetta Sirna  Milano ; Lugano : Casagrande, 2009

 

Razza, razzismo e antirazzismo : modelli rappresentazioni e ideologie / a cura di Zelda Franceschi  – Bologna : I libri di Emil, 2011

 

Razzismo e antirazzismo : una introduzione / Rita Cavallaro Acireale ; Roma : Bonanno, [2012]

 

Contro l’intercultura. Retoriche e pornografia dell’incontro. / Walter Baroni.  Ed. Ombre Corte, 2013 . Collana: Culture , Nr. 104 ; 176 p.