Leggere su Facebook “Mettiti il GPS dove vuoi, così posso sapere dove sei.”, fortunatamente non era indirizzata a me, sembra quasi il titolo di una canzone e potrebbe anche diventarlo, tuttavia mi ha provocato una reazione di fuga: l’istinto mi dice che situazioni simili ti soffocheranno, sono peggio di quei genitori apprensivi che usano il cellulare per tempestare di chiamate il figlio a scuola. Un senso di ansietà fomentata dal manicomio a cielo aperto nel quale ormai viviamo tutti: mi dicono che siamo arrivati allo spionaggio faidate, pieno di profili civetta Facebook, apps localizzatrici sull’Iphone dei figli. Poveri genitori, bisogna capirli: la figlia adolescente vanta 350 amici e loro di faccia ne conoscono al massimo cinque o sei. Il GPS addosso a fidanzati, mariti e amanti ora apre invece un nuovo mercato alla gelosia morbosa, all’insicurezza affettiva della coppia. Il localizzatore inventato nella guerra del Vietnam per recuperare i piloti degli aerei abbattuti ormai è un oggetto d’uso comune e per fortuna ora gli escursionisti non si perdono più come una volta e possono essere rintracciati per tempo. La geolocalizzazione satellitare non era stata inventata dunque solo come strumento di controllo di polizia, anche se è un utile antifurto per il proprio veicolo. A parte l’orrenda eleganza dell’invito (“mettitelo dove vuoi”), tornando al GPS di partenza, mi ricorda tanto il braccialetto elettronico che periodicamente viene rilanciato per diminuire l’affollamento carcerario. Mentre i delinquenti possono sperare nella solita amnistia mascherata, per noi non c’è scampo: la mia saggezza dice che alla fine tutti si abitueranno all’idea di essere geolocalizzati dalla propria donna, esattamente come nessuno potrebbe fare più a meno del cellulare o dell’app che ti preconizza l’arrivo dell’autobus alla fermata. Apprezziamo la tecnologia ma siamo ormai assuefatti al controllo, alla pubblicità non richiesta nelle mail, spesso mirata attraverso le informazioni da noi incautamente concesse. Sappiamo ormai riconoscere le offerte commerciali dagli accenti dialettali delle voci dei call center. Non ci facciamo illusioni: anche se si moltiplicano le leggi sulla privacy, ormai sappiamo ufficialmente che gli statunitensi, come i francesi e tutti quelli dediti a giocare alle spie, controllano tutte le comunicazioni trasmesse in digitale, cioè tutto tranne i pizzini dei corleonesi. Come difendersi? Al prezzo di qualche scomodità, senza prendere il GPS e legarlo al collare di Fido mentre andate da un’altra parte. Semplicemente, l’Iphone e l’Ipad lasciateli agli altri. Per motivi anagrafici so ancora trovare una strada senza il Tom Tom, anche se a Roma riesco ancora a perdermi grazie alla segnaletica insufficiente o mal posta. Mentre c’è chi non sa più distinguere il nord dal sud e consulta l’Iphone per sapere che tempo fa anche quando potrebbe affacciarsi alla finestra. Se avessi figli, prima ancora di sapere cosa fanno mi preoccuperei di sapere cosa pensano. So difendermi dalle truffe in linea, almeno finché le mail chiedono i codici della mia carta di credito, partono da indirizzi ambigui, sono scritte in un italiano dissonante o promettono improbabili eredità. Dico sempre di essere sposato (vero) per non essere molestato da decine di coetanee in cerca dell’anima gemella. Ripulisco ogni sera il computer con Lavasoft, sorta di candeggina elettronica che anche nel nome evoca la sua funzione detergente. Non so quanti sono a conoscenza che i siti più infetti non sono quelli che pensate voi, ma quelli generalisti della serie tutto gratis e quelli di cultura religiosa in lingua inglese. I primi perché troppo affollati, gli altri perché poco curati nella sicurezza. Chi guadagna da un sito ha infatti interesse a non perdere clienti. Ma ritornando alla frase iniziale letta su Facebook, consiglio la prevenzione. Se non sentite il bisogno di controllare la vostra amata, perché accettare il contrario e vivere in regime di libertà vigilata? L’amore è fiducia.
Tutti gli articoli di Marco Pasquali
Nell’oscurità dei Mercati coperti
A Roma un aspetto strano dei mercati rionali coperti è il buio. Contrariamente all’idea di mercato, sono quasi sempre strutture poco luminose e francamente lugubri. A ridare colore ci pensano casomai tutti i banchi abusivi esterni allo spazio assegnato e quasi sempre tollerati. Ne parlavo con un fioraio, senza sapere che era un rappresentante di categoria. Ma lui si lamentava soprattutto dell’ubicazione sbagliata degli stessi mercati coperti romani. Non potevo dargli torto: ogni volta che un mercato all’aperto è stato spostato dentro una struttura chiusa, decisa dal Comune senza ascoltare i mercanti, questa era collocata lontano dal luogo naturale di incontro della gente, col risultato di languire o morire del tutto. Questa è la fine che ha fatto il mercato di Ponte Milvio, ora centro commerciale Euronics. Diverso il caso di spazi programmati coperti fin dall’inizio, come il bel monumentale mercatone all’incrocio tra via Savoia e via Alessandria dietro Porta Pia. Meno riuscita la nuova struttura di via Andrea Doria, forse troppo verticale. Assolutamente tetro il mercato di via Magna Grecia. Ma quella contro i mercati all’aperto è una guerra condotta per anni da quelli di Bruxelles, che nulla sanno del Mediterraneo e del sole. Va detto che da noi si è trovato un compromesso che ricorda la stabilizzazione dei nomadi. Alludo a quegli orrendi e puzzolenti scatoloni di metallo fissati al suolo come se ne vedono a via Orvieto o a via Simeto o dietro la Garbatella o a Trionfale. Sono come quei campeggi dove le tende diventano baracche in muratura e le roulotte perdono la mobilità per radicarsi sul terreno. Anni fa il Comune cercò di far acquistare ai mercanti furgoni attrezzati, ma senza incentivi non se ne fece niente, col risultato che quei cassoni uno attaccato all’altro sono rimasti, sempre più arrugginiti e pieni di cavi elettrici volanti. E la notte non mancano certo i topi.
Ma tornando al pensiero iniziale, vi siete mai chiesti perché i padiglioni della nuova Fiera di Roma non hanno lucernai ma sono illuminati esclusivamente da luce artificiale, nonostante le attività fieristiche si svolgano essenzialmente di giorno? Anche stavolta il progettista si è dimenticato di essere nel Mediterraneo, esattamente come chi ha progettato (o meglio: trasferito acriticamente idee nordiche) i quaranta centri commerciali di Roma e dintorni. Tranne poche eccezioni – come un Outlet sulla Pontina – non prevedono porticati e piazze ispirate all’architettura romana, ma sono enormi bunker ermeticamente chiusi. Se vogliamo, sono esempi di architettura coloniale.
Viae Publicae Romanae
Al nuovo sindaco vorrei chiedere di ascoltare gli automobilisti, magari istituendo una casella email dedicata. Non parlo di via dei Fori Imperiali, difesa chissà perché proprio dagli archeologi, ma del resto di Roma. Per anni non ho mai guidato la macchina perché non ne avevo bisogno: abitavo infatti al centro; poi mi sono sposato e a mia moglie abitare al centro non interessa: come troppi romani ama le comodità e non si farebbe mai tre piani di scale come ho fatto io per anni, né accetterebbe di vivere in un quartiere ormai troppo rumoroso o dove è impossibile trovare parcheggio. Neanche le interessa avere a portata di mano cinema, teatro, musica dal vivo e locali decenti senza dover riprendere la macchina. Ma non è di questo che voglio parlare, ma piuttosto di cosa significa guidare in una città organizzata da tecnici e politici privi di senso strutturale. Per senso strutturale intendo la capacità di affrontare un problema nel suo complesso invece di risolvere la situazione un pezzo per volta. Che senso ha costruire l’enorme ponte della Musica per farci passare solo pedoni e ciclisti? E perché un’arteria importante come la via Ostiense è servita da poche linee di autobus, a differenza della Nomentana? E se non conoscete bene Roma vi chiederete per quale motivo è vietato percorrere alcune strade dall’inizio alla fine. Parlo di via Venti settembre, del lato sinistro del Lungotevere, di tante altre strade a cui è inibita la propria funzione primaria. E spesso vi perderete o almeno finirete da un’altra parte perché le indicazioni sono insufficienti, i cartelli e i semafori sono troppi o messi male. Alla fine di via di Porta Maggiore come interpretare p.es. un semaforo che mostra il rosso e il verde insieme? Poco male: procedete lo stesso, visto che dovete girare attorno a Porta Maggiore invece di passarci dentro, ma evitate di montare sul marciapiede che protegge i binari del tram e soprattutto cercate di infilare l’accesso alla Tangenziale est, mai così cervellotico come su una piazza dove passano due tipi di tram e tutto il traffico per la Casilina. Ma cambiamo quartiere: ormai sono pratico, ma chi potrebbe pensare che dopo Cinecittà è impossibile voltare a sinistra per andare all’ambulatorio dell’IPA, per cui bisogna girare al semaforo prima della Lamaro, cioè un chilometro prima? E provate ad andare alla stazione Tiburtina in Tangenziale est provenendo da San Giovanni: semplicemente l’accesso ancora non esiste. Se poi venite invece dalla direzione opposta, vi ritrovate a girare a destra salendo la rampa, poi riscendete ancora ma solo se riuscite a leggere un cartello piccolo all’inizio della Tiburtina. Ma non era la stazione più importante di Roma, anche se chi l’ha progettata era forse più pratico di aeroporti? E a proposito di cartelli, ma chi aveva l’appalto della segnaletica per l’Auditorium? Quel cartello l’ho trovato anche a Spinaceto. Provate invece a leggere in galleria Giovanni XXII le indicazioni per uscire sulla Trionfale o sulla Pineta Sacchetti: ma fatelo subito senza andare a sbattere sullo spartitraffico di cemento, visto che i cartelli sono piccoli, non sono illuminati e sono messi troppo in alto e troppo vicino agli svincoli. Oggi ho calcolato che, in circostanze normali, quei cartelli sono leggibili solo da sei metri di distanza, una frazione di secondo per decidere. Perché non unificarli con lo standard di quelli della Tangenziale in galleria? Se invece percorrete il Ponte delle Valli provenendo da Conca d’Oro e intendete immettervi nell’Olimpica per andare verso lo Stadio, rallentate per due motivi: il cartello è illeggibile e la curva è a 90 gradi. Chiaramente chi guida spesso queste cose le sa, ma c’è sempre una prima volta. Nella vecchia Tangenziale, p.es., provenendo da Salario, all’altezza del Verano, al cimitero rischiavate di finirci davvero, visto che si aveva solo un decimo di secondo per decidere se andare a sinistra per San Giovanni o a destra a Tiburtino o restare in mezzo addosso al paracarro. Per fortuna ora è tutto in galleria. E a proposito di gallerie, direi che a Roma – e non solo a Roma – manca uno standard di illuminazione e cartellonistica. E che dire di quel fastidioso sfarfallamento che disturba chi guida nel tratto aperto dell’Olimpica tra il Tevere e lo Stadio? E’ dovuto a una copertura a cella d’ape per frangere i rumori. Sì, ma gli occhi?
E passiamo alle barriere. Lunghi guardrail si alternano a marciapiedini bassi bassi, ma perché? Perché mai l’inizio del Ponte delle valli è diviso in due corsie da una barriera continua di cemento per cinquanta metri e poi solo con un basso marciapiede che rischia di fare da trampolino per chi lo strusciasse? Lo stesso sull’Olimpica, che alterna barriere decenti a bassi marciapiedi. E nelle confluenze, quante volte il guardrail – spesso smozzicato e deformato da anni di urti – termina con un basso marciapiede di foggia triangolare che non proteggerebbe da errori di manovra, ma anzi li amplificherebbe? E se poi vogliamo parlare di semafori, ma perché sulla Salaria nel tratto dall’incrocio di viale Liegi fino alla fine di villa Ada – un paio di chilometri – ve sono una dozzina, oltretutto nemmeno sincronizzati? Mai comunque come tra Ponte Vittorio e Porta Castello: ce ne sono quattro in poco più di cento metri. Almeno dopo una cert’ora potrebbero essere anche disattivati, no?
“Giallo” gladiatore
In un torrente vicino Spilimbergo – riva destra del Tagliamento, luoghi che a Roma conosce solo chi ha fatto il militare – viene trovato il cadavere di un uomo, tale Vito Calegaro, pensionato. È stato ucciso con una pistola calibro 9 lungo. Iniziano le indagini, coordinate da Polizia e Carabinieri e quello che sembra un delitto passionale si rivela un vespaio. Chi era realmente questo pensionato? Ha un fratello e una sorella anziani quanto educati e reticenti, ma quella è la facciata: i tabulati telefonici, le testimonianze di un pregiudicato triestino e l’incrocio dei dati rivelano un quadro inquietante e complesso, dove ex miliziani croati e piccola delinquenza frontaliera gestiscono a mezzi un discreto ma lucroso traffico di droga e immigrati clandestini. Il Friuli povero della Guerra Fredda e del Terremoto è diventato prima il ricco e produttivo NordEst, ora con la crisi ripiega su se stesso sfruttando i nuovi traffici balcanici. È una zona di frontiera, dove la Guerra Fredda ha suggerito per anni forme di sopravvivenza che dagli anni ’90 in poi si sono invece evolute a modo loro: ex-partigiani riciclati nella Gladio e poi in busta paga dei malavitosi slavi del dopo Tito; dignitose comunità locali arricchite o impoverite dall’immigrazione e dal traffico frontaliero; piccoli delinquenti a cavallo di frontiere prima chiuse e poi inesistenti. In modo analogo e simmetrico, tagliagole croati arruolati nelle milizie nazionaliste si riciclano come mafiosi locali. Sarà compito degli investigatori cercare di ricostruire il mosaico, che avrà una soluzione inaspettata grazie alla testimonianza casuale di due ragazze. Ma non è una storia criminale, visto che il secondo strato, più profondo, rimanda a Gladio, quella organizzazione paramilitare creata per la Guerra Fredda e poi smantellata con discrezione negli anni successivi. Questi anziani inoffensivi facevano in realtà parte dell’organizzazione, anzi addirittura di quella “autonoma”, addetta alle operazioni speciali, alle quali si accenna in modo vago: gli stessi gladiator conoscevano solo gli agenti di collegamento e nulla dovevano sapere dei livelli più alti. Sicuramente l’autore di questo libro – un giornalista romano profondo conoscitore di quelle zone – ha messo insieme un mosaico di storie (vere o verosimili non importa) e d’informazioni riservate ma ormai stagionate e non più scottanti. Ne esce però un quadro ben diverso della sonnolenta vita di provincia che uno si aspetta girando da quelle parti. Molte le ricostruzioni d’ambiente e i quadri di genere (il circolo della pesca è un pezzo d’antologia); buone le scene di questura, dove gli inquirenti la sanno lunga ma riescono ancora a sorprendersi. Faticosi ogni tanto i dialoghi, dove s’indovina il dialetto sotto un formale e scolastico tagliàn . In più, c’è una certa sproporzione fra alcune parti del romanzo, ora troppo descrittive, ora slegate dall’azione principale. Ma trattandosi di un’opera prima di narrativa, nessuno è perfetto.
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Titolo: Omicidio di un “gladiatore” nella Destra Tagliamento
Autore: Gianluca Scagnetti
Editore: Pubblicato dall’Autore
Prezzo: € 22,00
Collana: La community di ilmiolibro.it
Gialli – Noir
1a edizione 2/2013
Formato 15×23 – Copertina Morbida – bianco e nero
386 pagine
Prezzo edizione digitale formato Kindle: € 3,92
include IVA (dove applicabile) e il download wireless gratuito con Amazon Whispernet
Isbn: 9788891039729
http://www.fisicamente.net/MEMORIA/index-183.htm
Folli i mie passi
Strano libro, simile per alcuni versi al Meraviglioso mondo di Amélie. Una bambina figlia di circensi si innamora a due anni di un lupo che il circo porta al seguito e da quel giorno scappa sempre, inventandosi sempre nuove identità e divertendosi a ingannare poliziotti e assistenti sociali. Quando i suoi genitori sono licenziati dal circo, il padre diventa becchino comunale, la madre fioraia e lei finisce in collegio, dove comunque riesce a sopravvivere. Come? Semplicemente creandosi un mondo parallelo. Avrà per alcuni anni un marito – un giovane rampollo di una dinastia di notai che invece vuole fare lo scrittore a Parigi – per poi avere anche un amante (un violoncellista) e provare l’estasi per l’Omone (Bach e la sua musica). Poi farà la comparsa e poi l’attrice, diventando quello che gli altri vogliono sulla scena, ma nel privato interpretando sempre il mondo a modo suo. Rimane infatti sempre un’autodidatta, contraria ai luoghi comuni e alle frasi fatte, e soprattutto incapace di fare qualcosa che non vuole o non vuole più fare. Il finale a quel punto non può essere che aperto. La prosa – una bella prosa francese ben tradotta – è inevitabilmente ellittica, salta periodi esistenziali e sintattici per lasciare al lettore il piacere di indovinare i pezzi mancanti. Spesso non capiamo all’inizio di una scena – l’amante segreto può essere un acero nel cortile del monolocale parigino – ma alla fine la prosa raggiunge sempre quel livello quasi poetico che manca a tanti romanzi. Questo perché questa eterna bambina vede il mondo con i suoi occhi.
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Titolo originale: La folle allure (Gallimard, 1995)
Autore: Christian Bobin
Traduzione: Maddalena Cavalleri
Edizioni: Socrates
Collana: Paesi, parole
Pagine: 108
Formato: cm 13,3 x 20,5
Legatura: Brossura
Prezzo: € 10,00
Pubblicazione: Maggio, 2013
in coedizione con AnimaMundi Edizioni
ISBN: 978-88-7202-058-6
Ebook: € 5,49