Tutti gli articoli di Marco Pasquali

Un sogno lungo un porno

Le italiche luci rosse hanno una storia tutta loro: sdoganate con la rivoluzione sessuale e il rilassamento della censura ma subito sfruttate dai mercanti, sono state per anni la pietra filosofale che trasformava in oro i vili metalli di discarica. Oggi è l’epoca del porno in rete fai-da-te, ma per almeno vent’anni le piccole produzioni hanno girato a basso costo e rivenduto in VHS l’orgia (esattamente) dell’immaginario erotico maschile. Ma si è arrivati anche – anomalia tutta italiana – a promuovere Cicciolina in Parlamento col Partito dell’Amore e a ricevere Moana nei salotti buoni televisivi. E mentre nascevano nuovi eroi nazionali o immigrati, come Rocco Siffredi ed Eva Henger, negli anni ‘90 l’industria hard aprì le porte agli aspiranti per abbattere i costi di produzione e sfruttare in nero la manodopera specializzata. Questo libro infatti raccoglie un’antologia di lettere di autopresentazione di italici stalloni o sedicenti tali. Le donne – italiane e straniere – lo fanno per soldi, gli uomini sognano invece l’affermazione sociale e sperano di far l’amore gratis con donne bellissime. Rocco Siffredi è un eroe nazionale e- a giudicare dall’entusiasmo con cui ne parlano – Eva Henger ha forse lavorato oltre le cinque ore e mezza dichiarate in pubblico. E se l’italico porno è caratterizzato da cattivo gusto e bizzarra cura formale, l’immagine del suo fan club è speculare: le lettere sono deliranti, piene di strafalcioni, squilibrate tra il rozzo e il barocco:

“Scrivo questa lettera tenendo in considerazione il mio alto interesse per l’arte pornografica”

“Il sottoscritto 23nne, nubile, alto,  simpatico ed eloquace…

“Vorrei suggerire alcuni titoli di film: Ce l’ho di 28 e mi vien duro come un lingotto, Capo d’ano

“Cara Eva, non limitarti a soli 5 ragazzi , arriva almeno a 10  o  12 sarebbe stupendo” < !!  >

“Siamo 6 amici e purtroppo siamo nani, sarebbe bello se interpretassi un film tipo Biancaneve”

“Siamo disposti a trasferirci subito a Roma io e la mia ragazza, non vedo l’ora di fartela scopare”

“Rocco, scegli sempre le migliori donne belle, sia Interne che Isterni”

“Ho anche un tatuaggio vicino al pisello e uno dietro la spalla”

“Se avessi la fortuna di poter fare questo mestiere  sarei fiero di dire ‘sono un attore porno’ ”

“Trombarsi delle splendide ragazze ed essere anche pagati per farlo!”

“Ho visto tutti i tuoi film operati proprio a opere d’arte. La mia preferita è La conchiglia violata

“Mi interessa partecipare. So’ solo che farò un sacco di Miliardi e sarò un uomo Ricco”

“Ti allego una mia foto formato tessera che potrete farla vedere alle vostre delizie amiche”

“Ti stò scrivendo mentre guardo un tuo film Ti presento mia moglie

“La donna dovrebbe essere vestita elegante e non da puttana poi la diventa mentre scopa”

In appendice a questa spassosa antologia di sognatori, uno studio grafologico sul loro modo di scrivere. Operazione in fondo superflua: che gli aspiranti stalloni fossero frustrati repressi o fanatici l’avrebbe capito anche un bambino: tra le righe salta sempre fuori il desiderio di autoaffermazione sociale o semplicemente la speranza di pareggiare il conto con le ragazze mai avute prima o con la propria moglie o fidanzata, inadeguata alla propria libido e al Nuovo Mondo preconizzato dalla rivoluzione sessuale e mai realizzato se non in certi ambienti o per classi di età. Quello che è peggio, in Italia non è mai decollata una vera educazione sessuale – ma neanche un’istruzione scolastica di anatomia e fisiologia – col risultato che il porno è stato per molti la prima o unica fonte di conoscenza del corpo femminile e delle molteplici pratiche sessuali. Sorta di teatro sperimentale del sesso, se vogliamo, ma spesso irrealizzabile in privato, il sesso senza la cultura del sesso ha portato a risultati diversi: consumo sessuale delle donne, prostituzione a basso prezzo, club per coppie scambiste, prossimità con ambienti malavitosi, ma anche una certa creatività e disinvoltura nei comportamenti sociali. Sorprende però la relativa povertà degli studi su una cultura di massa ormai stabilizzata. La pornografia è dilagata senza che la società crollasse per questo, eppure l’accanimento contro la rappresentazione del sesso esplicito ha marcato decenni di censura cinematografica, trascurando invece rappresentazioni simboliche molto più pericolose, come quella della violenza. Lo scrivo a ragion veduta, avendo fatto parte per quattro anni di una commissione di revisione del Ministero e avendo a suo tempo seguito o curato i convegni cattolici in argomento, dai quali non usciva mai un rapporto diretto tra pornografia e crimine sessuale. In sostanza, la violenza sulle donne esiste solo laddove i rapporti sociali sono improntati alla violenza, il porno essendo piuttosto vissuto e rielaborato dal singolo in una dimensione tutta mentale, onirica, su cui torneremo.

E qui veniamo a studi più seri. .Consiglio intanto il pratico Luci rosse: guida ragionata ai porno film, del critico cinematografico Daniele Soffiati (Nuovi Equilibri, 1998). Ogni scheda descrive e commenta un film rappresentativo di un periodo o di un genere. Anche se massificato, il porno ha avuto una continua evoluzione ed essendo il mercato ormai molto segmentato, doveroso era distinguerne le varie e spesso curiose articolazioni. Un altro libro ormai vecchiotto si deve allo studioso americano Robert J. Stoller, Il porno: miti per il XX secolo, (Feltrinelli, 1993). che ha intervistato i suoi protagonisti, partendo dall’idea che, pur a livello intuitivo, fossero loro gli unici a conoscere nel profondo i fantasmi del loro pubblico. A metà tra la sociologia e la psicologia, il libro è una lettura interessante quanto amara: attori e attrici sono e si sentono sfruttati: la recitazione passa sempre per il corpo dell’attore, ma qui il rapporto è diretto, brutale; si lavora a ritmi serrati e senz’andare per il sottile (esattamente). Estrema la specializzazione: gli uomini esistono e si proiettano esclusivamente come energia pura, come falli, quasi non esistesse il resto del corpo o si concentrasse in un punto solo. Le donne dal canto loro non sono ‘puttane’, quanto piuttosto esibizioniste: con la prostituzione in effetti guadagnerebbero molto di più, anche se è frequente il doppio lavoro. Piuttosto, sono donne precoci che tendono morbosamente a farsi notare, ammirare, accettare. Apparentemente ricettive (!), hanno in realtà bisogno di attrarre su di sé lo sguardo di un pubblico maschile. Questa tendenza esibizionistica e narcisistica è ora passata anche ai nostri adolescenti, almeno a giudicare dalla fotomania dilagante in rete e difficilmente compresa dai genitori. Ma tornando alle luci rosse: sia uomini che donne sono in realtà fragili: a parte la mancanza di contratti e coperture sindacali e sanitarie, i maschi sanno benissimo che verranno rottamati esaurito il vigore fisico, mentre per le donne c’è una fortissima concorrenza dall’Est e dal Sud del mondo. In più incombe lo spettro dell’AIDS, col risultato che le trasgressioni “extrafamiliari” sono rare. Sembra strano, ma pare ci sia molto più rispetto nell’ambiente del porno che in certi uffici privati. Dico sembra, perché parliamo di un mondo chiuso e reticente a dare informazioni, al punto che è difficile analizzarne costi e fatturato. Almeno in due occasioni ha però elaborato una riflessione su se stesso. Parlo di due film, Il Pornografo (1974) e Boogie Nights – L’altra Hollywood (1997) (1). Nel primo, ambientato negli anni ’30, un attore del muto ormai in crisi accetta di lavorare nel porno, mentre il secondo racconta l’ascesa e declino di un giovane stallone tra gli anni ’70 e ’80. Non mancano accenni espliciti a cocaina e delinquenza, tipici di quell’ambiente borderline che in entrambi i film si rivela per l’altra faccia della fabbrica dei sogni.

E passiamo alla psicoanalisi. Stranamente pochi gli studi specifici, anche se il porno – proiezione in senso assoluto – è un vero e proprio magazzino dell’inconscio collettivo e di tutti gli archetipi possibili. Vedi: Psicoanalisi e femminalità. Gyné, la creatura che crea , di Antonio Imbasciati e altri (Franco Angeli, 1979 e ristampe). Inconscio ora modificato o piuttosto espanso e globalizzato dai mass-media e dalla Rete. Riferendosi al passaggio dalla dura società neolitica e pastorale alle prime forme di benessere, così scrive l’analista Alessandro Zannella:

Sodoma e Gomorra rappresentano le icone mitiche di questo nuovo mondo, per certi aspetti simile a quanto si va verificando oggi con il nuovo salto in avanti delle tecnologie e del tenore di vita. Si direbbe quasi che lo sviluppo della civiltà sia una condizione necessaria per una maggiore espressione dei desideri preconsci inconsci di origine utero infantile, desideri aggressivo-sessuali onto e filogenetici che passano dallo stato onirico a quello dell’attuazione concreta grazie alle migliorate condizioni di vita che consentono tempo spazio e agio per questa espressività. “Mutatis mutandis” anche oggi internet, ad esempio, insieme alle condizioni di disponibilità di tempo e di relativa sicurezza, serve anche da veicolatore e attuatore di desideri sessuali, come dimostrano i numerosi siti porno, le communities e le chat spesso usate come mezzo per conoscere nuovi partner o per fare sesso on line. Internet è quindi la moderna riedizione di Sodoma e di Gomorra, nel senso ora spiegato. (2)

I simboli? Sempre quelli da quando esiste il mondo. In più, fin troppo facile è accostare lo spettatore al bambino che assiste dall’esterno alla c.d. scena primaria, ovvero l’accoppiamento dei suoi genitori. E se la coazione a ripetere è un altro elemento delle teorie freudiane, il pubblico del porno risulta recidivo: insiste a vedere un prodotto strutturalmente ripetitivo. Comunque, proprio perché legato ad archetipi, il porno può fare a meno della scrittura, né più né meno come il genere Fantasy: nel processo di riduzione simbolica, uomini e donne sono infatti ridotti a mere funzioni. C’è poi la trasgressione che – come nell’Avanguardia – diventa ripetizione se non è capace di ricrearsi, di trovare un limite successivo. C’è infine una continua, infantile esagerazione nelle dimensioni, nelle prestazioni, nel linguaggio. Le orge sembrano invece un continuo rito di fertilità… sterile: nessuno viene mai dentro e le uniche donne incinte sono quelle relegate nell’immaginario fetish, quel sottogenere fortemente ritualizzato dove al posto dei sogni si scatenano gli incubi e il suo pubblico andrebbe protetto dai propri fantasmi invece che incoraggiato. Incubi diversi da cultura a cultura: nei film giapponesi, p.es., c’è un incredibile sadismo formalizzato, unito a fobie tutte nipponiche: il mostro tentacolare, l’inadeguatezza del maschio, compensata nella figura del Samurai che protegge (?) le bambine indifese. Non che l’angoscia di castrazione sia una fobia orientale; tutt’altro: è ovunque, compensata dalla passività della donna, domata anche quando sembra aggressiva o impegna cinque uomini insieme. Basterebbe solo questo per classificare il porno come mitologia: una forma d’arte che nel profondo non descrive la realtà ma la compensa. Ed è proprio la psicoanalisi a chiarire che quel mondo fantastico dove tutti fanno sesso con tutti è in realtà una risposta ad angosce profonde. Chiaro a questo punto che, se le cose andassero come nel porno, non si comprenderebbe la necessità di produrne. Detto in maniera più scientifica:

“Il cammino che porta dal sesso all’intelligenza, dall’Eros al Logos. è lungo e tortuoso: è costellato d’angoscia, vi si insinua l’istinto di morte; di qui la colpa, e gli aspetti sordidi, la pornografia e la violenza, la “pregenitalità”; da questo l’irriverenza e la satira, con cui spesso l’uomo, soprattutto se maschio, ha dovuto rivestire il suo interesse per le donne, come difesa contro ansie profonde”(3).

Note:

(1)  Il Pornografo (orig: The Inserts), 1974, regia di John Byrum con Richard Dreyfuss. Boogie Nights, 1997. Scritto e diretto da Thomas Paul Anderson.

(2)   Fonte http://www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/osservatorio/articoli/osserva1138.htm

(3)   Dalla prefazione di Psicoanalisi e femminalità. Gyné, la creatura che crea , citato.

 

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Libri Porno subito io-speriamo-che-me-la-chiavoIO SPERIAMO CHE ME LA CHIAVO

(I fans scrivono alle pornostar)

80144 Edizioni, Roma, 2013

pp. 144

€ 9,90

ISBN:9788897203124

Collezionista che fugge dai sentimenti

“In ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico” La trama del film è ormai nota, ma la riassumiamo per chiarezza. Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un quotato battitore d’aste internazionali, nonché raffinato collezionista. Sua “spalla” è Billy (Donald Sutherland), pittore suo amico da sempre, che in accordo con lui riesce sempre a comprare al ribasso tele di grande valore. Collezionista, Virgil custodisce in un caveau della sua villa un’impressionante quadreria di ritratti femminili (1), mentre inesistenti sono i suoi rapporti con le donne vere. Come il pianista Glenn Gould, Virgil è professionalmente perfetto ma non si leva mai i guanti. Ma un giorno le telefona in ufficio Claire, una giovane ereditiera, che chiede una stima per il patrimonio antiquario della cadente villa di famiglia. Virgil accetta, ma le trattative non sono facili: Claire è ambigua e non si mostra mai, al punto di far quasi fallire le trattative. Ma Virgil è attratto dal mistero. Claire gli svela alcuni dettagli di sé: malata di agorafobia, non esce da dodici anni. Virgil cerca di penetrare il mistero e la sua corazza comincia a sfaldarsi. Un giorno riesce a vederla e infine a incontrarla: lei è giovane e bella. Da quel momento la trama si evolve in raffinato romanzo d’amore, amore segreto e infine reso pubblico. In questo lo aiuta Robert, un giovane meccanico riparatore, pratico di donne e di ingranaggi, che diventa suo confidente e ricomporrà un antico automa dai pezzi recuperati in villa. Viene quindi il giorno in cui Oldman batte a Londra la sua ultima asta e sogna il lieto fine. Troverà invece la sua collezione derubata e la ragazza sparita assieme a Robert. Ultima beffa, l’autore del presunto ritratto della madre di Claire altro non è che l’amico Billy. La vera Claire è una donna autistica che staziona sempre al bar davanti alla villa; che gli svela di aver affittato la villa a gente del cinema ( ! ) e di aver visto la ragazza entrare e uscire giorno e notte. Virgil finirà demente in una casa di riposo, ma nell’ultimo flash-back lo vediamo a Praga, ancora lucido, mentre attende invano una donna in un locale dove Claire le aveva confidato di aver conosciuto i suoi ultimi momenti felici. Un locale – per inciso – pieno di ingranaggi e congegni meccanici, in linea con l’orologio della città mitteleuropea. Proprio in una mitteleuropa ricreata ma verosimile è infatti ambientato il film, peraltro poco italiano e direi anche molto anglofilo. Questo però senza scivolare in quello stile c.d. internazionale tipico delle coproduzioni.

Questa la trama, avvincente e resa in modo tale da far trattenere il fiato per le quasi due ore e mezza di proiezione, grazie a una sceneggiatura di ferro, a una regia senza smagliature e all’interpretazione degli attori. Siamo nel mondo delle grandi case d’asta, con pezzi e prezzi da capogiro. La ricostruzione è attendibile; meno credibile è che nessuno prenda informazioni sui clienti, ma il film non lascia mai tregua alla razionalità (2). Ci identifichiamo in Virgil e nella sua morbosa curiosità, e come lui siamo indifesi di fronte alla forza dei sentimenti. La figura del collezionista – uomo maturo, raramente sposato – è stata descritta e sceverata dai collezionisti stessi (penso a Salomon, al barone Barracco, a Helbig), che nelle loro memorie e cataloghi testimoniano una competenza pari al desiderio di possesso esclusivo delle opere d’arte. E sotto il prestigio del rango celano spesso qualità meno nobili: trafficano con tele rubate, sottostimano le opere che vogliono comprare e fanno invece salire le quotazioni di quelle che vendono. In questo Virgil Oldman è da manuale: la sua stima di una apparente copia del Ritratto di fanciulla di Petrus Christus e quella della Nascita di Venere di Bouguerau sono pezzi d’antologia. Purtroppo Virgil, come tanti professionisti che hanno sviluppato in eccesso una parte della loro personalità, è indifeso di fronte al sentimento. Coltiva il mito di Pigmalione, già tante volte visto al cinema (My fair Lady, Tutti i Vermeer a New York), ma finisce lentamente nell’ingranaggio che lui invece crede di controllare. In questo senso l’automa rimontato e oliato con pazienza pezzo per pezzo durante il film – citazione evidente da Hugo Cabret – si rivela fatale quanto la bambola di Metropolis di Fritz Lang (3). Non so se la critica abbia notato comunque questa strana nostalgia per il meraviglioso meccanico nell’epoca dell’elettronico. Ma in fondo l’illusione cinematografica preconizzata da Platone nel mito della caverna è divenuta realtà con la meccanica. Nella scena finale di Hugo Cabret un ex-militare si rialza e solo in quel momento ci accorgiamo della sua gamba meccanica. Ebbene, proprio i fratelli Lumière, inventori del cinematografo, furono decorati per aver progettato una protesi ad ingranaggi per i mutilati di guerra. Anche l’attrazione per l’antiquariato fa parte della modernità. Sappiamo tutto in ogni momento e le nostre sicurezze vengono alimentate in tempo reale dalle informazioni in rete. Ma degli oggetti antichi non sappiamo mai realmente nulla, a meno di non esser specialisti. La figura dell’antiquario rimane per molti tuttora ammantata di un alone di mistero, anche se di misterioso c’è poco: si tratta di cultura, esperienza, fortuna e un intuito per valutare e comprare per tempo quello che un giorno da vecchio diventerà antico e prezioso. E’ l’arte di sfruttare anche il tempo, e infatti il film finisce in un locale pieno di orologi. Il tempo può analizzarlo chi non vive solo nel presente; per questo la gente comune ha dell’antico una coscienza generica, è incapace di distinguere le stratificazioni temporali, le tecniche e i falsi. Quello sui falsi poi è un discorso che riempirebbe un libro. Qui accontentiamoci della stupenda battuta nel film: “In ogni falso c’è sempre qualcosa di autentico”.

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Cinema La-Migliore-Offerta

(1) Si spazia dal XV al XX secolo, in originale o (si suppone) in copia. Si riconoscono nella quadreria: la Fornarina di Raffaello, due opere di Tiziano e due del Bronzino, un Lorenzo di Credi, un Boccacino, un Andrea del Sarto, un Cranach, un Guido Reni, un Durer, un Rubens, un Goya e almeno un paio di Vigée-Le-Brun.. C’è il mediocre Morgan Weistling, ma non manca Dante Gabriel Rossetti e, per il moderno, sono riconoscibili un Renoir e un paio di Modigliani. Ma è una quadreria così affollata da sfidare uno storico dell’arte. (2) Come è inverosimile che durante l’inventario dei beni della villa gli stimatori impieghino al massimo due secondi per identificare e valutare i singoli pezzi, peraltro di ogni genere ed epoca. (3) Vedi alla voce Androide: http://it.wikipedia.org/wiki/Androide

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Cinema La-Migliore-Offerta locandinaLa migliore offerta (The Best Offer)

Trama: Virgil Oldman è un genio eccentrico, esperto d’arte, apprezzato e conosciuto in tutto il mondo. La sua vita scorre al riparo dai sentimenti, fin quando una donna misteriosa lo invita nella sua villa per effettuare una valutazione. Sarà l’inizio di un rapporto che sconvolgerà per sempre la sua vita.

Regia: Giuseppe Tornatore Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore Attori: Geoffrey Rush, Jim Sturgess, Donald Sutherland, Sylvia Hoeks, Philip Jackson, Dermot Crowley, Liya Kebede

Fotografia: Fabio Zamarion Montaggio: Massimo Quaglia Musiche: Ennio Morricone Produzione: Paco Cinematografica Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia Paese: Italia 2012 Durata: 124 Min Formato: Colore

Chi meglio di un ex Assessore?

Umberto Croppi è stato assessore alla Cultura del Comune di Roma per due anni e mezzo, dal 2008 alla notte del 14 gennaio 2011, quando il sindaco Alemanno lo escluse dalla nuova giunta in base ai nuovi equilibri di partito. Ed è proprio da quella notte che parte la narrazione di un pezzo di storia romana recente. L’autore parla di se ora in terza persona, ora in prima, e ci offre una sorta di iniziazione al Campidoglio, chiara e sorprendente anche per chi ci lavora da anni. Ma andiamo per ordine. La prima parte del libro ricostruisce la storia della Destra romana negli ultimi trent’anni, da cui emergono due elementi importanti: il superamento della vecchio neofascismo e l’affermarsi di una cultura diversa, più vicina a una certa sinistra. Come si sa, gli opposti si attraggono. Alemanno fa carriera all’interno di strutture familiari (ha sposato la figlia di Rauti), e Croppi gli organizza la campagna elettorale, forte della sua esperienza di giornalista e direttore della casa editrice Vallecchi. Aperto alle nuove tecnologie, mette su un ufficio stampa in rete e riesce a far rimontare il poco noto Alemanno contro Rutelli. Sul nuovo sindaco sono ora concentrate le aspettative di due milioni di cittadini; saprà egli affrontare i problemi di Roma e realizzare le riforme enunciate nel Patto per Roma? Saprà superare la logica della spartizione e del compromesso nelle nomine di giunta? Ha davvero la Destra una classe dirigente all’altezza della situazione? Le aspettative sono grandi ed è il momento giusto per agire…

Quattro anni dopo i risultati son sotto gli occhi di tutti: si poteva far meglio e di più. Ma cos’è che non ha funzionato? Essendo interno al sistema, Croppi ne analizza i punti deboli, con l’onestà di occuparsi dei soli settori di cui ha avuto esperienza diretta. Ne esce un quadro caratterizzato da uno scoordinamento tra i vari assessorati, peggiorato da un sistema di deleghe, uffici temporanei, attribuzioni di funzioni estranee all’incarico e duplicazioni di altre. In più c’è la galassia delle municipalizzate, alle quali sono da anni delegate funzioni prima gestite dagli uffici comunali, su cui era bene mettere ordine. Dulcis in fundo, il carattere stesso del sindaco, ora indeciso, ora diffidente e autoritario, ma tutto sommato influenzabile e sempre pronto a mediare le forze che debbono in teoria governare un comune grande e popolato quanto una regione. In teoria, perché poi delle deleghe a Roma capitale è finora divenuta realtà solo la carta intestata. Ma alla fine l’accusa di Croppi si riduce a una sola: non aver saputo metter ordine in un sistema politico e amministrativo che invece è stato addirittura esasperato, aumentandone la complessità e le disfunzioni.

Tutto questo viene narrato in modo brillante, tra gaffes varie del sindaco e dei suoi collaboratori (Olimpiadi, Formula 1, Metro, rimborsi, Parentopoli Atac e AMA, etc.) e precise analisi d’ambiente. Viene p.es. spiegata la reale dinamica tra Giunta e Consiglio, dove precisi meccanismi dovevano in teoria evitare sconfinamenti tra funzioni diverse e condizionamenti impropri. Ma in particolare meritano una lode la descrizione precisa delle complesse funzioni dell’Assessorato alla Cultura e degli uffici di Sovraintendenza (Roma ne ha due, per chi non lo sapesse: una di Stato e una comunale), al punto da consigliare lo studio di questo libro ai futuri funzionari. Funzioni complesse, vista la ricchezza di beni culturali e la difficoltà di gestirne le risorse. Croppi si fa notare per il suo amore verso l’arte contemporanea, ma non viene sempre compreso. Conflittuali poi i rapporti tra lui e il sovraintendente Broccoli, di cui viene schizzato un impietoso ritratto. Frequenti invece le lodi ai funzionari, che per un basso stipendio lavorano spesso oltre il dovuto. Infatti uno dei pregi del libro è anche quello di descrivere esattamente e forse per la prima volta il funzionamento delle strutture politiche e amministrative di Roma capitale, nome ufficiale con cui si è cercato di inaugurare una nuova epoca senza che ne esistessero i presupposti: la devoluzione di fondi e poteri da parte dello Stato infatti non è stata poi attuata. Per far vedere che esistono, – nota Croppi – i politici cambiano nome alle cose.

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ROMANZO COMUNALE.

I segreti dei palazzi del potere di Roma

di Umberto Croppi e Giuliano Compagno

Roma, Newton Compton Editori, 2012.

Prezzo di copertina: EUR 9,90

Formato Kindle EUR 1,99

Quando la guerra è psicologia demografica

La battaglia di Canne (216 a.C.) è stata da sempre molto studiata: esempio tattico perfetto di accerchiamento di un esercito numericamente superiore. La documentazione è ineccepibile grazie a Plutarco e Livio; in ogni caso è un momento forte della storiografia romana antica. Ma l’autore ha imparato la lezione di Keegan, lo storico inglese che ha quasi rivoluzionato lo studio della storia militare: non dare mai niente per scontato e integrare le fonti dopo un controllo ferreo. Intanto, il libro non parla solo dello svolgimento della battaglia, peraltro spesso semplificato a fini didattici (la guerra è meno lineare di com’è descritta nei libri). Si discute del luogo della battaglia, mai identificato con precisione, ma comunque lungo il fiume Ofanto (Aufidus in Polibio e Livio): un esercito antico comprendeva anche migliaia di bestie da soma, che non potevano stare senz’acqua nemmeno una giornata (1). Nel libro si discute dei comandanti e delle loro abilità, della società di cui gli eserciti erano parte (militarista quella romana, mercantile quella cartaginese), della struttura di comando e dei sottoposti. Si discute di ordinamento e di tattica. Ed è infatti proprio all’analisi dei singoli eserciti e alle rispettive tattiche che è dedicata l’altra metà del libro. Anche qui l’analisi delle fonti è serrata e piena di tabelle e di schemi tattici. Altrimenti, troppe volte storici anche bravi hanno dato per scontate informazioni tradizionali, senza preoccuparsi delle incoerenze o persino delle assurdità (una per tutte: la prima linea a scacchiera). L’esercito di Annibale viene scomposto ragionevolmente nelle sue componenti etniche (africane, iberiche, celtiche), mentre l’analisi delle due società in guerra pone interessanti questioni, non ultima quella demografica. Annibale ha infatti condotto una guerra offensiva contro un nemico demograficamente superiore, capace ogni volta di arruolare nuove legioni e di condurre sia battaglie campali che di attrito. Per questo infine ha perso.
L’analisi delle istituzioni militari e degli eserciti in guerra diventa dunque confronto tra società diverse, tra tattiche e armi magari simili, ma sfruttate in base a concezioni strategiche diverse. A questo punto, come descrivere la battaglia vera e propria? La sfida dell’autore è applicare ad una battaglia antica le procedure che Keegan usa ne “Il volto della battaglia”, opera ormai fondamentale (2). Per le battaglie moderne abbiamo fonti di ogni genere, per l’antichità bisogna lavorare non dico di fantasia, ma integrando fonti archeologiche, letterarie e analogie con fatti d’arme simili. Ne esce un quadro intanto più complesso di quanto uno si aspettava, spesso ipotetico ma plausibile. P.es., come venivano dati gli ordini per farli capire a 40.000 soldati? E come manovravano realmente sul terreno? E come si controlla un campo di battaglia sicuramente meno ampio di oggi, ma non per questo di facile sintesi? Certo, al liceo nessuno si sarebbe preoccupato di analizzare lo “shock da combattimento” di un legionario romano, abituati com’eravamo a pensare ai soldati romani come guerrieri tutti di un pezzo, ma ora sappiamo che in realtà erano uomini come noi, e che la presenza di reclute poco addestrate nei ranghi immediatamente oltre la prima linea spiega il successo schiacciante della manovra di accerchiamento della cavalleria celtica e numidica di Annibale, mentre la più leggera cavalleria africana inseguiva i fuggiaschi (3). Tattica e armi vanno studiate insieme e sicuramente Annibale era un grande tattico, che seppe sfruttare in questo caso due carenze romane: la mancanza di una buona cavalleria e l’inesperienza delle reclute che rimpiazzavano le perdite delle tre battaglie del Ticino, della Trebbia e del Trasimeno. A Canne, Roma lascia sul campo della battaglia 47.500 fanti e 2.700 cavalieri (su 80.000 effettivi), mentre 19.000 sono i prigionieri. Solo 15.000 dei suoi uomini riescono a fuggire (4), tra cui il console Terenzio Varrone, responsabile con Emilio Paolo del piano di battaglia. Annibale a Canne perde 6.000 Galli, 1.500 Spagnoli e Africani e 200 cavalieri: aveva ottenuto la più brillante vittoria della sua carriera di generale e si consacrava uno dei più grandi condottieri della storia, anche se poi le operazioni militari successive sembrano incioerenti. Da sempre si è discusso dell’inerzia di Annibale dopo Canne, ma la spiegazione più ovvia è stranamente sfuggita agli storici: Annibale era semplicemente finito in quella che Clausewitz definisce la zona di esaurimento dell’offensiva.

Unica nota negativa del libro: la bibliografia. Essa comprende quasi solo libri in lingua inglese, ma di molti esiste da tempo anche un’edizione italiana ed era bene tenerne conto, visto che il libro va in mano a lettori italiani. La revisione di una bibliografia è lavoro che un bibliotecario può fare in una giornata, per cui una negligenza simile non è giustificata.

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NOTE

(1) Alcuni esperti, in seguito a recenti studi basati sull’esame dei documenti storici sulla battaglia di Canne e dei rilevamenti archeologici, hanno suggerito che il luogo della battaglia sia da identificarsi più a nord, sulla riva destra del fiume Fortore in località Ischia Rotonda vicino a Carlantino al confine tra Puglia e Molise (dalla parte pugliese), non molto distante da Campobasso. Tra il luogo identificato sull’Ofanto e questo ci sono 115 km di distanza, pari a 4-5 gg di marcia. Ma ai fini della ricostruzione tattica della battaglia tutto ciò è ininfluente: le fonti parlano di una pianura lungo un fiume, con una serie di colline dall’altra parte, ed entrambi i siti corrispondono alle caratteristiche indicate. Va detto comunque che a Ischia Rotonda sono state trovate urne con resti incinerati, e sappiamo che i Cartaginesi cremarono i loro caduti, secondo il loro uso..

(2) Il volto della battaglia / John Keegan ; edizione italiana a cura di Francesco Saba Sardi . Prima ediz. Italiana 1978, più volte ristampato anche in anni recenti. Titolo originale: The Face of Battle : [a study of Agincourt, Waterloo and the Somme] , 1978.

(3) Un elemento interessante ma non affrontato dall’autore: in sostanza, la tattica della cavalleria africana di Annibale aveva forse a che fare con quella dei Berberi? Nei manuali militari bizantini scritti nel periodo dal VI al X secolo d. C. si prescrive espressamente di non inseguire mai la cavalleria leggera beduina e berbera, in quanto troppo mobile e abituata ad attirare in trappola gli inseguitori con finte ritirate e agguati. A me sembra ovvia una continuità tattica diciamo pure etnica.

(4) Come a Carrae e in altri casi anche recenti, l’accerchiamento e la distruzione dei reparti non sono mai completi: vi sono sempre contingenti che mantengono il loro ordine di battaglia e possono ripiegare compatti. In più la battaglia di Canne durò almeno 8-9 ore, con frequenti intervalli, ed è verosimile che, se non la cavalleria, sicuramente le fanterie di Annibale erano verso sera allo stremo delle forze fisiche, mentre almeno 10.000 romani erano stati lasciati a presidio dell’accampamento (su 80.000 uomini in totale). Le cifre di Livio sono le più attendibili.

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Titolo La battaglia di Canne
Autore Daly Gregory
Prezzo di copertina € 24,00
Editore: Editrice Goriziana (collana Le guerre n° 52), 2009

ZINGARATE

Di storie d’amore tra Rom e Gagi – così loro chiamano noi – son pieni letteratura e cinema, caratterizzate tutte dalla forte sensualità delle donne rom e dalla sciocca possessività di noi gagi sedentari, perennemente attratti da Carmen ma incapaci di lasciarla libera. Ebbene, una nota originale la offre un libro autoprodotto e ben poco edificante: Sensazioni pericolose, di un certo Vladimir Casinari (Lulu.com, 2007 – 112 pagine, anche in e-book). E’ la narrazione autobiografica di un italiano che per lavoro viaggia spesso all’est da solo, non disprezzando il sesso a pagamento. In questo libro mi ha incuriosito lo strano rapporto che quest’uomo ha con i rom. In Italia gli zingari tradizionalmente non vendono le loro donne (anche se l’arrivo delle nuove ondate sta peggiorando la situazione), mentre in Romania e dintorni ragazze rom anche giovanissime si prostituiscono per aiutare la famiglia o sfruttate da altri rom. Ora il nostro eroe – ricco tra i miserabili – non si fa scrupolo di andarle a cercare, rischiando di cacciarsi nei guai con poliziotti gaglioffi e prolifiche famiglie zingare, le quali incoraggiano questo straniero nelle sue scelte on the road, sperando in un ritorno economico. Almeno un paio di volte viene ospitato a casa loro – povere abitazioni sovraffollate, prive di servizi ma piene di marmocchi – in situazioni che risultano quasi comiche se non trasudassero miseria morale e materiale. Come in uno sgangherato film di Kusturiza, il nostro eroe viene ogni volta presentato ai genitori, s’intende con le madri ruffiane e si accoppia con queste giovani rom in condizioni di promiscuità, quasi in presenza di tutta la famiglia, la quale però alla fine si aspetta sempre un generoso contributo volontario o addirittura che si porti la figlia in Italia, per loro la terra del benessere. Quando si va in città – musica a tutto volume, come piace a loro – prima si va tutti a ballare, poi si fa la spesa e lui paga tutto, alimentari e regali. Ma spesso lui fa il tirchio e si offende pure, neanche pensando ai rischi che corre. In una scena da film, dopo che ha dormito con una delle sorelle praticamente davanti a tutti, i fratelli e la madre non lo fanno uscire e battono le mani sulla sua macchina chiamando “soldi-soldi” e facendo il gesto delle banconote sfogliate. A quel punto lui paga, risparmiandosi forse una coltellata. Come molti gagi, è affascinato dal mondo rom ma nel profondo non lo capisce affatto. P.es., un’altra volta conosce due sorelle e va con entrambe, ma è quella più giovane che vuole rimanere incinta: l’altra ha già un figlio. Comportamento bizzarro? No, perché in quel mondo povero un figlio è comunque una ricchezza, mentre lui ragiona da impiegato. Un’altra famiglia rom che gli ha concesso la figlia vorrebbe che lui intestasse loro un pozzo. Si, un pozzo: vivono in un tugurio in campagna e quella sarebbe già una ricchezza. La miseria materiale descritta nel libro è infatti impressionante; quella morale ne è una conseguenza, ma il protagonista la sfrutta e apprezza l’allegra vitalità di queste famiglie, nonostante facciano una vita da cani. Una volta percorse strade sconnesse e prive di segnaletica e giunto a destinazione, ammira i bei tappeti che ornano le loro povere stanze – spesso un unico ambiente separato dalla cucina – e nota la bellezza delle persone, anche se da un anno all’altro questa sfiorisce precocemente. Con la vita che fanno, non c’è di che stupirsi. Quanto a lui, è un vero nomade ad honorem, non riuscendo mai legarsi a una donna per troppo tempo. Alcune di esse vorrebbero venire con lui in Italia e magari amano veramente questo gagio incosciente. Una sua amante rom alla fine lo saluta sconsolata, ma la sua reazione è unica:

Quando mi chiamò vagabondo provai immenso piacere, perché detto da lei, una zingara, lo considerai un grande complimento, un onore, un valido riconoscimento al mio modo di intendere il viaggio.

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SENSAZIONI PROIBITE
di Vladimir Casinari
Editore Lulu.com, 2007
http://www.lulu.com/it
Formato Paperback
Pagine 108
Prezzo di vendita € 14,00 (ma disponibile anche in e-book a 5.90euro)
Lingua Italiano
ISBN-13 9781847993434