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QUANDO LA GUERRA È PSICOLOGIA DEMOGRAFICA

La battaglia di Canne (216 a.C.) è stata da sempre molto studiata: esempio tattico perfetto di accerchiamento di un esercito numericamente superiore. La documentazione è ineccepibile grazie a Plutarco e Livio; in ogni caso è un momento forte della storiografia romana antica. Ma l’autore ha imparato la lezione di Keegan, lo storico inglese che ha quasi rivoluzionato lo studio della storia militare: non dare mai niente per scontato e integrare le fonti dopo un controllo ferreo. Intanto, il libro non parla solo dello svolgimento della battaglia, peraltro spesso semplificato a fini didattici (la guerra è meno lineare di com’è descritta nei libri). Si discute del luogo della battaglia, mai identificato con precisione, ma comunque lungo il fiume Ofanto (Aufidus in Polibio e Livio): un esercito antico comprendeva anche migliaia di bestie da soma, che non potevano stare senz’acqua nemmeno una giornata (1). Nel libro si discute dei comandanti e delle loro abilità, della società di cui gli eserciti erano parte (militarista quella romana, mercantile quella cartaginese), della struttura di comando e dei sottoposti. Si discute di ordinamento e di tattica. Ed è infatti proprio all’analisi dei singoli eserciti e alle rispettive tattiche che è dedicata l’altra metà del libro. Anche qui l’analisi delle fonti è serrata e piena di tabelle e di schemi tattici. Altrimenti, troppe volte storici anche bravi hanno dato per scontate informazioni tradizionali, senza preoccuparsi delle incoerenze o persino delle assurdità (una per tutte: la prima linea a scacchiera). L’esercito di Annibale viene scomposto ragionevolmente nelle sue componenti etniche (africane, iberiche, celtiche), mentre l’analisi delle due società in guerra pone interessanti questioni, non ultima quella demografica. Annibale ha infatti condotto una guerra offensiva contro un nemico demograficamente superiore, capace ogni volta di arruolare nuove legioni e di condurre sia battaglie campali che di attrito. Per questo infine ha perso.

L’analisi delle istituzioni militari e degli eserciti in guerra diventa dunque confronto tra società diverse, tra tattiche e armi magari simili, ma sfruttate in base a concezioni strategiche diverse. A questo punto, come descrivere la battaglia vera e propria? La sfida dell’autore è applicare ad una battaglia antica le procedure che Keegan usa ne Il volto della battaglia, opera ormai fondamentale (2). Per le battaglie moderne abbiamo fonti di ogni genere, per l’antichità bisogna lavorare non dico di fantasia, ma integrando fonti archeologiche, letterarie e analogie con fatti d’arme simili. Ne esce un quadro intanto più complesso di quanto uno si aspettava, spesso ipotetico ma plausibile. P.es., come venivano dati gli ordini per farli capire a 40.000 soldati? E come manovravano realmente sul terreno? E come si controlla un campo di battaglia sicuramente meno ampio di oggi, ma non per questo di facile sintesi? Certo, al liceo nessuno si sarebbe preoccupato di analizzare lo “shock da combattimento” di un legionario romano, abituati com’eravamo a pensare ai soldati romani come guerrieri tutti di un pezzo, ma ora sappiamo che in realtà erano uomini come noi, e che la presenza di reclute poco addestrate nei ranghi immediatamente oltre la prima linea spiega il successo schiacciante della manovra di accerchiamento della cavalleria celtica e numidica di Annibale, mentre la più leggera cavalleria africana inseguiva i fuggiaschi (3). Tattica e armi vanno studiate insieme e sicuramente Annibale era un grande tattico, che seppe sfruttare in questo caso due carenze romane: la mancanza di una buona cavalleria e l’inesperienza delle reclute che rimpiazzavano le perdite delle tre battaglie del Ticino, della Trebbia e del Trasimeno. A Canne, Roma lascia sul campo della battaglia 47.500 fanti e 2.700 cavalieri (su 80.000 effettivi), mentre 19.000 sono i prigionieri. Solo 15.000 dei suoi uomini riescono a fuggire (4), tra cui il console Terenzio Varrone, responsabile con Emilio Paolo del piano di battaglia. Annibale a Canne perde 6.000 Galli, 1.500 Spagnoli e Africani e 200 cavalieri: aveva ottenuto la più brillante vittoria della sua carriera di generale e si consacrava uno dei più grandi condottieri della storia, anche se poi le operazioni militari successive sembrano incioerenti. Da sempre si è discusso dell’inerzia di Annibale dopo Canne, ma la spiegazione più ovvia è stranamente sfuggita agli storici: Annibale era semplicemente finito in quella che Clausewitz definisce la zona di esaurimento dell’offensiva.

Unica nota negativa del libro: la bibliografia. Essa comprende quasi solo libri in lingua inglese, ma di molti esiste da tempo anche un’edizione italiana ed era bene tenerne conto, visto che il libro va in mano a lettori italiani. La revisione di una bibliografia è lavoro che un bibliotecario può fare in una giornata, per cui una negligenza simile non è giustificata.

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NOTE

(1) Alcuni esperti, in seguito a recenti studi basati sull’esame dei documenti storici sulla battaglia di Canne e dei rilevamenti archeologici, hanno suggerito che il luogo della battaglia sia da identificarsi più a nord, sulla riva destra del fiume Fortore in località Ischia Rotonda vicino a Carlantino al confine tra Puglia e Molise (dalla parte pugliese), non molto distante da Campobasso. Tra il luogo identificato sull’Ofanto e questo ci sono 115 km di distanza, pari a 4-5 gg di marcia. Ma ai fini della ricostruzione tattica della battaglia tutto ciò è ininfluente: le fonti parlano di una pianura lungo un fiume, con una serie di colline dall’altra parte, ed entrambi i siti corrispondono alle caratteristiche indicate. Va detto comunque che a Ischia Rotonda sono stati trovate urne con resti incinerati, e sappiamo che i Cartaginesi cremarono i loro caduti, secondo il loro uso..

(2)       Il volto della battaglia / John Keegan ; edizione italiana a cura di Francesco Saba Sardi . Prima ediz. Italiana 1978, più volte ristampato anche in anni recenti. Titolo originale: The Face of Battle : [a study of Agincourt, Waterloo and the Somme] , 1978.

(3)       Un elemento interessante ma non affrontato dall’autore: in sostanza, la tattica della cavalleria africana di Annibale aveva forse a che fare con quella dei Berberi? Nei manuali militari bizantini scritti nel periodo dal VI al X secolo d. C. si prescrive espressamente di non inseguire mai la cavalleria leggera beduina e berbera, in quanto troppo mobile e abituata ad attirare in trappola gli inseguitori con finte ritirate e agguati. A me sembra ovvia una continuità tattica diciamo pure etnica.

(4)       Come a Carrae e in altri casi anche recenti, l’accerchiamento e la distruzione dei reparti non sono mai completi: vi sono sempre contingenti che mantengono il loro ordine di battaglia e possono ripiegare compatti. In più la battaglia di Canne durò almeno 8-9 ore, con frequenti intervalli, ed è verosimile che, se non la cavalleria, sicuramente le fanterie di Annibale erano verso sera allo stremo delle forze fisiche, mentre almeno 10.000 romani erano stati lasciati a presidio dell’accampamento (su 80.000 uomini in totale). Le cifre di Livio sono le più attendibili.

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Titolo La battaglia di Canne
Autore Daly Gregory
Prezzo di copertina € 24,00
Editore: Editrice Goriziana  (collana Le guerre n° 52), 2009

LA RICCHEZZA PER UNA NAZIONE

In Italia prostituirsi non è un reato – altro è lo sfruttamento della prostituzione – ma il settore non è regolato da nessuna legge, con i risultati che vediamo ogni giorno. Lo è invece in Germania, in Austria, Svizzera ed Ungheria, dove chi vuol vendere il suo corpo può farlo solo in strutture regolarmente autorizzate e in precise zone cittadine, registrandosi al commissariato, pagando le tasse e adempiendo a precise norme igieniche. Sono strutture ben diverse dalle case chiuse di una volta: questi bordelli del 2000 sono in genere gestiti senza pressioni criminali, almeno in Germania, dove qualsiasi donna può dunque, in linea di principio, scegliere liberamente di fare la puttana. Quello che nella patria di Lili Marleen fa “Sonia Rossi”, una studentessa siciliana (ci risiamo!) che studia matematica a Berlino alla prestigiosa Università Humboldt (1), ma trova difficile mantenersi agli studi lavorando come commessa o barista, dovendo conciliare gli orari di lavoro con quelli delle lezioni. In più si è portata dentro casa Ladja, un giovane polacco conosciuto in un locale dove lei lavorava. È un tipo senz’arte né parte, né ha fantasia di lavorare: ogni tanto si vende agli uomini, come fa il suo amico Tomas, oppure fa lavoretti saltuari. Ladja dev’esser molto bello e bravo a letto, altrimenti non si spiega perché una ragazza sì dotata vada a infognarsi con un parassita sociale. La nostra Sonia decide quindi in piena coscienza e libertà di lavorare prima in una chat line erotica con video, poi passa ad un salone massaggi con extra, poi a un bordello per immigrati, poi ancora a un night club con camere da letto comprese, poi ancora in un altro salone di massaggi ed extra, e così via. Fa insomma la puttana e lo dice apertamente, anche se la famiglia non sa niente (ovvio) e il fidanzato (poi marito) accetta a malincuore (?) questo sistema capace di mantenere due persone. Che lei lo faccia per soldi è chiaro, anche se arriva pure a chiedere ogni tanto altri soldi ai genitori. Sonia e il suo Ladja devono aver proprio le mani bucate: vivere a Berlino costa meno che a Roma, mentre neanche i soldi fatti scopando bastano per due, al punto di dover accettare alcune faticose quanto ben pagate trasferte in bordelli di lusso tedeschi e svizzeri: la crisi economica tange anche le puttane. E’ vero che così trova il tempo per studiare e seguire le lezioni di matematica e tedesco (il libro è stato scritto in tedesco), ma spesso litiga con il milieu dove lavora. Deve avere comunque un certo stomaco, visto che è la prima a dire che certi clienti e certi locali fanno solo schifo. Come si fa? Noi uomini sappiamo da sempre separare il sesso dal sentimento, e qui semplicemente le donne non sono da meno. E una volta risolto questo problema, risolvere gli altri è facile. Le descrizioni delle puttane e dei clienti sono imparziali: c’è del buono e del marcio da entrambe le parti, e la clientela è uno spaccato della vita sociale berlinese. Ricchi e poveri, operai e professionisti, singoli e sposati, ariani ed immigrati, normali e pervertiti, ma tutti uniti nel frequentare il dopolavoro del Fottistero. Sia chiaro che le puttane hanno spesso un fidanzato, un marito e magari un figlio, ma quel mondo rimane fuori dal lavoro, dove le attese si ingannano giocando a carte, vedendo la tv o consumando rotocalchi. O parlando di uomini. Li conoscono bene? Si, ma attraverso un rapporto professionale. In quattro anni Sonia e le sue amiche saranno andate a letto con almeno mille diversi uomini a testa, ma i sentimenti li lasciano per l’uomo con cui dormono la notte, anche se è un buono a nulla. La nostra Sonia però s’innamora di Milan, un uomo sposato con figli, con cui scopa veramente e ne resta anche incinta (segue aborto con sensi di colpa). L’anno dopo invece rimarrà incinta di Ladja e a quel punto la sua vita cambia: farà i soldi coi clienti che amano il preggo sex e smetterà quando nasce il pupo. I teutonici servizi sociali stavolta le verranno incontro e in seguito troverà un buon lavoro di ufficio, che le permetterà di finire gli studi senza farsi sbattere su un letto. E finalmente caccerà di casa l’irresponsabile marito. Meglio tardi che mai.

E resta una domanda inevasa: di Berlino ormai sappiamo tutto, ma qui a Roma quante sono le studentesse fuorisede che lo fanno? Non esistendo bordelli legalizzati, non lo sapremo mai.

 

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FUCKING BERLIN
Sonia Rossi (pseud.)
Rizzoli, 2009 e ristampe
220 p. 14 euro

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NOTE
(1)    “Sonia Rossi” nel testo dice di essere nata nelle isole Eolie, figlia della locale bibliotecaria. Può darsi che imbrogli le carte, visto che con tali informazioni è troppo facile risalire alla sua ‘identità: l’unica biblioteca pubblica sta a Lipari, né tutti mandano la figlia a studiare matematica a Berlino. L’accento di Lipari viene comunque riconosciuto da un cliente italiano, un professore universitario di linguistica italiana venuto per un congresso. La biblioteca comunale di Lipari fu fondata nel 1958 e oggi ha ben 27.000 volumi. Sito: http://www.sbrmessina.it/comlipari.html#

IN UN NON LUOGO

La nozione di non luogo, fortunata definizione dell’etnologo Marc Augé si attaglia perfettamente ai film di Wim Wenders come alla narrativa di Rosa Liksom, nome d’arte di una scrittrice finlandese di origine lappone già nota in Italia per la raccolta di racconti Memorie perdute (2003). Anche la nuova raccolta, Stazioni di transito (1) presenta personaggi che in sostanza non consistono. Da un lato cioè non hanno consistenza, dall’altro non si fermano mai in nessun luogo, non lo fanno mai proprio. Rosa Liksom per questo può ben figurare in un’antologia del postmoderno, dove nulla è sicuro, dove non c’è ideologia e i rapporti tra le persone sono precari quanto quelli di lavoro o di spazio. I personaggi di Rosa Liksom ti usano ma non comunicano e per questo sono antipatici. C’è di tutto: barboni, studenti, ragazzine scappate di casa o solo cretine, globetrotter, disoccupati. Ma non è la classe sociale a unirli, né in assoluto la marginalità: alcuni hanno una casa e un lavoro, o campano – siamo negli anni 80 – dei generosi quanto inutili sussidi dello stato sociale scandinavo. A unirli è piuttosto un indistinto malessere che non riesce mai a raggiungere la massa critica di una protesta politica o almeno di un’identità collettiva. Nessuno di loro ha un progetto. Sono, tanto per capirci, quelli che per strada ti chiedono i soldi o la sigaretta e neanche ringraziano. I personaggi di Rosa Liksom troppe volte si mettono nelle condizioni di non poter essere aiutati e finiscono in questura per la sciocchezza di turno. Nel cinema abbiamo imparato a conoscere questa umanità nei film dei fratelli Kaurismaki, penso p.es. ad Arvottomat (lett.: i senza valore).

La seconda parte del libro invece ci porta nel profondo Nord, terra che l’autrice conosce bene. Qui, al contrario, nulla sembra si muova, anche se in realtà molti giovani sono andati a lavorare in Svezia (il libro – ricordiamolo – risale agli anni ’80). Se i personaggi della prima parte erano i nomadi del postmoderno, qui tutto ristagna in un universo limitato. Si narra anche di un incesto, che è un classico della povertà di contatti con l’esterno. L’autrice del resto non s’inventa niente: in quei posti ci è nata e anche la cinematografia Sami(così vogliono essere chiamati i Lapponi, ndr.) rimanda sia agli spazi aperti che alla claustrofobia invernale. Ricordo un film del 1974, Maa on syntinen laulu (lett: La terra è una canzone peccaminosa) di Rauni Mollberg, dove una storia d’amore veniva vissuta in mezzo ad alcolismo, cupa fede luterana e allevamento di bestiame.

E qui s’impone una riflessione precisa: davvero i nordici personaggi di Rosa Liksom sono diversi da Brevik, il lucido folle autore della strage di Oslo? Anche i protagonisti dei romanzi di Larsson hanno la stessa caratteristica: sono magari taciturni per anni, poi improvvisamente esplode in loro la carica dell’aggressività repressa, indirizzata verso uomini e animali, ma senza un motivo o un obiettivo razionale apparente. Noi, mediterranei passionali, siamo abituati a esternare i nostri sentimenti; magari litighiamo con tutti, ma non abbiamo di queste impreviste esplosioni di odio. Questo tipo di violenza è da anni la cifra del malessere nordico e la letteratura lo aveva capito da tempo, anticipando come sempre la cronaca.

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Stazioni di transito
Rosa Liksom
Edizioni Artemisia, 2012
145 p.,20 cm
prezzo 15 euro

Disponibile presso la libreria Fahrenheit 451° di campo de Fiori

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(1) In realtà è la prima, essendo uscita in Finlandia nel 1985. Il titolo originale, a tradurlo alla lettera significa: una notte di sosta. La traduzione delle opere di Rosa Liksom si deve all’ottima Delfina Sessa, diplomata all’Orientale di Napoli. Suppongo che sia sua anche la prefazione, non firmata.

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EDITORIA AUTOPRODOTTA

Libro originale, ripercorre attraverso due biografie la storia di due confini: quello tra sudtirolesi e italiani, e quello tra italiani e sloveni. Confini ora tangibili, ora invisibili, modificati nel tempo dalla politica sino a diventare oggi i più aperti d’Europa. Ma con una lunga scia di odio, morte, diffidenza e danni alle persone. L’autore narra due storie emblematiche di gente comune: la storia di Giovanni Postal, cantoniere italiano presso Salorno (dove scorre la linea linguistica che divide da sempre italiani e tedeschi), e di Udo Grobar, pensionato della minoranza slovena di Gorizia con i parenti oltrela Casa Rossa, che all’epoca equivaleva al Muro di Berlino. Il primo salta per aria nel 1961 mentre cerca di rimuovere un ordigno messo lungo la strada dai terroristi tirolesi, l’altro si trova  nel1991 inmezzo alle sparatorie tra milizia slovena ed Esercito federale jugoslavo per il controllo dei valichi di frontiera. Due uomini comuni ed abitudinari, sconvolti e travolti dalla Storia. Di entrambi seguiamo da vicino la vita banale, regolare, fino a quel momento in cui la loro vita cambia o sparisce. Giovanni Postal e Udo Grabar si trovano in mezzo ad avvenimenti più grandi di loro e non hanno la coscienza politica o la cultura per affrontarli. Sono dunque perdenti. Conquistano però il loro posto nella storia, che non è fatta solo di episodi di guerra e trattati di pace. Ma anche nel grande romanzo storico i protagonisti si trovano sempre al momento sbagliato nel posto sbagliato, incapaci di scegliere tra la fedeltà al proprio clan e il nuovo che avanza, e soprattutto poco coscienti del cambiamento epocale. Qui, anche se malconcio, Udo Grobar almeno resta vivo, mentre Giovanni Postal paga caro il suo senso civico e anche la sua imprudenza.

La narrazione delle due storie è preceduta da due introduzioni. Una è di Majda Bratina, l’altra di Oskar Peterlini, rispettivamente per il confine Nordest e per l’Alto Adige/Sud-Tirol. Confine politico ormai disciolto al sole il primo; confine tutto interno alla nazione l’altro, ma non invisibile. Per l’Alto-Adige/Sudtirol, la lunga introduzione del senatore Oskar Peterlini (pp. 14-60) sfora ampiamente lo spazio concesso alla slovena Majda Bratina (pp.7-13), ma è una lettura illuminante. Se ne ricava non solo la storia del Tirolo, che forse pochi italiani conoscono bene, ma soprattutto il punto di vista tirolese. Quanti di noi sanno p.es. che anticamente i Tirolesi erano esentati dal servizio militare al di fuori della loro terra, ma a patto di difendere militarmente i valichi strategici, a cominciare dal Brennero? Gli Schutzen (i miliziani tirolesi) da noi non sono certo amati, ma storicamente in Europa la legalizzazione di milizie regolari autonome è stata concessa solo in casi estremi, come nelle krajne, le province militari balcaniche dell’Impero Asburgico. Questo ha dato col tempo ai Tirolesi una coscienza politica e un’identità particolari, fortemente strutturata e di fatto sottovalutate dai governi italiani che, soprattutto tra le due guerre, hanno cercato di snazionalizzare la zona. Il resto è storia, ben riassunta da Peterlini e scavata nel quotidiano da Scagnetti, che ci illustra anche retroscena poco noti. Chi scrive, se non della Feuernacht si ricorda almeno di Klotz e Burger e della ventina di italiani – militari e civili – vittime del terrorismo sudtirolese, ma anche della capillare presenza militare: c’erano soldati dappertutto. Ma solo dopo abbiamo saputo delle manovre dei nostri servizi segreti e dei circoli pangermanisti bavaresi, tra ambiguità, timori e colpi bassi. Se gestita male, poteva finire come in Irlanda del Nord. Colpisce piuttosto l’aspetto assoluto del punto di vista tirolese. Noi italiani siamo stati cacciati e snazionalizzati dall’Istria e dalla Dalmazia da un governo jugoslavo che concedeva invece l’uso della lingua e un seggio in Parlamento persino agli Zingari, per cui difficilmente riusciamo a capire di cosa possa ancora lamentarsi oggi una minoranza ricca, autonoma e protetta dal bilinguismo amministrativo e dalla riserva dei posti e delle case, che ha di fatto frenato l’immigrazione italiana e creato – almeno in certe zone – una sorta di Apartheid alla rovescia. La speculare autonomia del Trentino non deve ingannare: fu voluta da De Gasperi per bilanciare provvedimenti troppo favorevoli alla parte germanofona. Perché non è questione solo di lingua, ma di culture diverse. Né è facile capire per un italiano medio la figura di Aldo Moro, che sia verso gli Austriaci che gli Jugoslavi (senza contare i Libici) sembra aver concesso tutto in cambio di niente, sbandierando poi i rispettivi trattati come un grande successo della diplomazia italiana. In nome della Pace e su pressione dell’ONU e degli Americani, ma di fatto rafforzando quella destra nazionalista che si voleva eliminare dal gioco politico. Poi, per fortuna – ma l’on. Peterlini ne parla poco – l’unificazione europea ha di fatto superato il concetto stesso di nazione, a tutto vantaggio (paradossalmente) delle regioni storiche. Non però di quelle artificiali, come la Padania, che del Tirolo non potrà mai comprendere e mutuare le strutture profonde.

La minoranza slovena è  invece meno numerosa e meno ricca e istruita di quella sudtirolese, per cui ha una storia diversa, fatta di contadini del Carso, montanari di Carnia e operai inurbati, magari anche agguerriti, ma privi di istruzione superiore. In più, dopo l’ultima guerra questa comunità è rimasta a cavallo della frontiera, politicamente divisa tra Cominformisti (= stalinisti) e titini, osteggiata dai nazionalisti italiani e vista come quinta colonna di un’invasione jugoslava, pur godendo comunque di tutele maggiori di quelle concesse alla minoranza italiana oltreconfine. Attualmente la ricchezza economica raggiunta dalla Slovenia e lo sviluppo del porto di Capodistria stanno modificando i rapporti di forza tradizionali, ma per anni non è stata così. E infatti Udo Grobar lavorava in ospedale a Trieste come umile operaio, prima di tornare – impoverito – al suo borgo sloveno in quel di Gorizia. E’ italiano, ma di serie B. Approfitta della carne e benzina jugo e dei valichi secondari per andare dai parenti, ma non si rende conto della situazione che cambia, anzi precipita. In fondo, nella Guerra Fredda aveva come tanti trovato un equilibrio. Minimalista, ma stabile. Il suo errore è lo stesso delle gerarchie politiche dell’epoca: pensare che tutto questo durasse in eterno, mentre dopo il9 novembre 1989– quando crolla il Muro di Berlino – l’Europa è cambiata per sempre.

Unica nota negativa: l’impianto tipografico. Per un malinteso con l’editore (come abbiamo appurato scrivendogli direttamente) l’impaginazione riproduce in scala la struttura delle bozze in Word, con gli stessi margini e interlinea e microscopiche note in calce. Peccato, perché la distribuzione affidata alle librerie Feltrinelli ha risolto invece il problema di sempre: quante volte un buon libro è rimasto in magazzino per mancanza di una rete distributiva!

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ACCADDE AL CONFINE: STORIE DI GIOVANNI POSTAL E UDO GROBAR
di Scagnetti Gianluca
€ 14,50
Editore Pubblicato dall’Autore, 2012
Collana La community di ilmiolibro.it
5a edizione
pagine 272
Isbn:9788891015044

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