Tutti gli articoli di Marco Pasquali

(Pre)Potenza Militare

Sentendo la radio e leggendo giornali e blog devo prendere atto che genitori e insegnanti si stanno mobilitando contro quella che ritengono una militarizzazione delle scuole, sempre più spesso invitate a cerimonie o visite o iniziative promosse dalle Forze Armate, le quali in realtà queste attività le svolgono da sempre. Dunque ne è cambiata la percezione collettiva, finora genericamente pacifista, ora realmente “disarmata”, costretta a prendere coscienza della dura realtà della guerra. Negli ultimi trent’anni i nostri militari sono stati proiettati in missioni di pace (?) in terre lontane, ma impegnando a rotazione reparti formati da professionisti, con perdite esigue e un certo ritorno d’immagine. La guerra in Ucraina ora ha cambiato la scena e questo è stato un trauma per tutti. Iraq e Afghanistan sono stati dimenticati, esiste solo il buco nero di una guerra in Europa, ma chi aveva rimosso il problema ora è in crisi.
La guerra in Ucraina dura da un anno, ma nasce da lontano. Facile descrivere la scena attuale: trincee, distruzioni, armi e proclami politici, mentre il fronte rimane fermo come nella prima guerra mondiale. Meno facile capire cosa ha innescato una guerra nel centro dell’Europa dopo settant’anni di equilibri strategici armati ma nel complesso stabili (ex-Jugoslavia a parte, ma ci torneremo). Come al solito bisogna partire dalla caduta del Muro di Berlino (1989) e seguire lo sfaldamento dell’Unione Sovietica. Il vuoto di potere così creato non ha portato a un nuovo equilibrio, quanto piuttosto a uno squilibrio permanente nelle relazioni fra stati. La NATO, nata come struttura difensiva, si è allargata a Est a spese dei paesi soggetti al Patto di Varsavia, realizzando il Drang nach Osten tanto caro ai Tedeschi e suscitando le frustrazioni della Russia, in quel periodo troppo debole per reagire. L’adesione delle nazioni alla NATO è stata libera, quanto rapida è stata la loro accoglienza. Purtroppo la fine della Guerra Fredda e l’allargamento della NATO furono presentati come una vittoria sul nemico, mentre più logico sarebbe stato sciogliere un’alleanza difensiva in favore di una nuova agenzia di sicurezza che coinvolgesse anche la Russia, perlomeno la parte europea. Il resto lo sappiamo: la Russia di Putin vuole riprendersi il maltolto, ma strategicamente la guerra l’ha già persa; può vantare successi tattici, ma l’obiettivo iniziale non è stato raggiunto e per ora la situazione ricorda la prima guerra mondiale.
Ora, in Italia esiste da anni una discrasia fra una linea di Governo allineata con la NATO e un’opinione pubblica scettica o pacifista, la quale comunque poco incide sulla politica estera. Meno palese è che molte analisi puntuali e fuori del coro si devono invece proprio ai militari, in genere ufficiali superiori ora in pensione ma con lunga esperienza sul campo. Spesso esposti in prima linea, hanno informazioni di prima mano sulla realtà al di là della narrazione ufficiale e delle immagini televisive. Purtroppo il loro atteggiamento critico è privo di influenza sulle decisioni politiche nazionali. Vale però la pena di leggere i libri che scrivono. Consiglio L’uso della forza. Se vuoi la pace comprendi la guerra , del generale Carlo Jean (1996) e La NATO nei conflitti europei, ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi , del generale Biagio Di Grazia (2022). Il primo analizza realisticamente (e quindi senza l’ipoteca dell’ideologia) non solo cosa significhi scegliere la guerra come strumento di politica nazionale, ma il motivo per cui una classe dirigente deve per prima cosa chiarire quali sono gli interessi nazionali o internazionali. L’Italia è sempre stata opportunista, senza una condivisa strategia di lungo periodo; da qui avventure coloniali o post-coloniali, entrate in guerra decise la sera prima, guerre lampo impantanate o insabbiate per mesi a seguire e – più recente – un’ansia di presenzialismo e visibilità purché sotto comando statunitense.
Il libro del generale Di Grazia è diverso: forte della sua esperienza nell’ex-Jugoslavia, analizza i meccanismi perversi attraverso i quali l’ONU è stata scavalcata dalla NATO dopo la caduta del Muro di Berlino e oggi si permette di alimentare una guerra (in Ucraina) senza ufficialmente farla. La disgregazione della ex-Jugoslavia è stato il banco di prova durante il quale le varie missioni ONU si sono dimostrate poco capaci e prive di strumenti operativi: basti il paradosso di un Consiglio di sicurezza dove ha diritto di veto anche chi è parte in causa di un conflitto. Ma la NATO, forzando i regolamenti, in pratica si è da quel momento arrogata il diritto di gestire in proprio le crisi locali o addirittura di proiettare verso l’esterno quella che era nata come alleanza puramente difensiva, trasformando dopo l’attacco alle Torri gemelle (2001) l’articolo 5 della NATO (se un membro dell’alleanza viene attaccato tutti lo devono difendere) in un mandato in bianco per guerre contro tutti: i Serbi, il Terrorismo internazionale, Saddam, i Talebani. Con non poche incoerenze: l’indipendenza del Kosovo confligge con i principio dell’inviolabilità delle frontiere e ha dato esca legale al Donbass. Ancora: in Bosnia gli Stati Uniti hanno appoggiato uno stato islamico per poi combatterlo altrove, col risultato di impegnare per vent’anni anni tempo e risorse in paesi musulmani che nel profondo disprezziamo, refrattari come sono alle influenze esterne. La morale? L’importante è avere sempre un nemico, il che ricorda quel film di Alberto Sordi: Finché c’è guerra c’è speranza. In realtà sia la Serbia che la Russia, sia pur indeboliti, potevano essere ottimi alleati, a prescindere dal loro sistema di potere, ma per ora la saggezza non è di questo mondo.


L’ uso della forza. Se vuoi la pace comprendi la guerra
di Carlo Jean
Editore: Laterza, 1996, pp. 140
EAN: 9788842049579
ISBN: 8842049573
Prezzo: € 7.75


La NATO nei conflitti europei. Ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi Condividi
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: Delta 3, 2022, pp. 184
EAN: 9791255140481
Prezzo: € 16,00


PUTIN lo ZAR

Fra tutti i libri usciti in argomento, questo è finora il più completo e attendibile. In quasi 800 pagine, complete di indici e centinaia di note, viene riscostruita la carriera di Putin e dei suoi collaboratori, alcuni dei quali erano finora persino ignoti. Autrice ne è la giornalista inglese Catherine Belton, già specialista del Financial Times e corrispondente da Mosca, la quale si vale di fonti tutte documentate anche se spesso coperte da anonimato per comprensibili motivi di sicurezza: la gestione Putin ha lasciato fin dall’inizio una serie di “suicidi” eccellenti. Ma proprio perché giornalista del Financial Times, la Belton segue fin dall’inizio le piste del denaro: fondi neri accumulati all’estero dal KGB (ora FSB, ma poco cambia) già al tempo dell’Unione Sovietica tramite società di comodo, intermediari e tangenti varie. All’epoca non era solo un modo per aiutare l’economia socialista, ma anche per fare pressioni su governi, partiti e movimenti dei paesi occidentali o finanziare movimenti di liberazione africani e sudamericani. Questo traffico era gestito dal KGB, che rispetto agli uomini del Partito aveva uomini più colti, preparati e inseriti nelle società capitalistiche. Anche se le versioni ufficiali sono tante, su un punto le fonti concordano: Putin ha fatto carriera in Germania Est (DDR), a stretto contatto con la STASI (i servizi di sicurezza DDR) ed è tornato a San Pietroburgo una volta caduto il Muro di Berlino, come del resto tutti i suoi colleghi. Nel frattempo, dopo le coraggiose quanto maldestre riforme di Gorbaciov il Partito Comunista (PCUS) cerca di riconquistare il potere ma non riesce neanche a fare un colpo di stato decente, col risultato di sparire del tutto e di far salire al potere Boris Eltsin. Semplificando molto, avviene in breve tempo il passaggio da un’economia socialista a un capitalismo d’assalto gestito da una ristretta cerchia di imprenditori, banchieri privati, mafiosi ed ex-dirigenti del Partito, i quali a prezzi ribassati si accaparrano gli enti di stato attraverso aste riservate, mentre i prezzi di beni e servizi finora calmierati schizzano in alto in un libero mercato, per il quale la gente non è assolutamente preparata. Lo Stato è in bancarotta e dunque cede quote di aziende e stock di materie prime a pochi oligarchi e a prezzi stracciati, mentre la gente fa la fame. Nessuno pensa ad un azionariato diffuso e di fatto proprio nella patria del Socialismo si crea una società dove pochi capitalisti detengono il monopolio delle risorse di un paese immenso quanto squilibrato. Quello che è peggio, le risorse così accumulate vengono investite all’estero o nella finanza invece che nell’economia reale e nella ricerca, col risultato che ancora oggi la Russia basa quasi tutta la sua economia sulle esportazioni di materie prime invece che sullo sviluppo di tecnologie e di industrie manifatturiere all’altezza coi prodotti occidentali.
Ma questo si sapeva. Quello che non era chiaro era il modo in cui l’élite del KGB si è ripresa lo Stato non solo occupando il vuoto lasciato dal Partito, ma soprattutto levando di mezzo gli arricchiti nel momento in cui costoro sono entrati in politica e oltre i soldi vogliono anche il potere. E qui il contesto diventa quello di un romanzo criminale: Putin e i suoi non vanno mai per il sottile quando si tratta di richiedere indietro il maltolto, sembra anzi di seguire le gesta di una banda mafiosa. Forte poi dell’appoggio popolare, che vede in lui la rivalsa per ricostruire la Nazione se non l’Impero e ridistribuire le risorse alla popolazione. Promette benessere, purché nessuno si metta in politica. Presto i giornali e le istituzioni culturali scomode sono chiuse una dopo l’altra, tutto sommato senza una vera opposizione popolare. La cronica debolezza della società civile russa in questo aiuta Putin e i suoi, altrimenti non avrebbe potuto sospendere l’eleggibilità dei governatori di provincia (che era riconosciuta dallo Zar) e indebolire l’indipendenza della magistratura. La repressione del terrorismo ceceno (provocato?) fa il resto: per la sicurezza dello Stato diventano legali anche mezzi che in Europa noi non lo diventeranno mai. Questo in una società che, Mosca e San Pietroburgo a parte – città di cui Putin sarà anche sindaco – è sostanzialmente solidale con Putin, il quale conosce bene le aspirazioni profonde del suo popolo – lui stesso se vogliamo è “primordiale” – e si appoggia alla classe dei “siloviki”, i fedeli ed esperti funzionari ereditati dalla burocrazia sovietica e da sempre l’ossatura dello Stato.
Questo per la Russia. La seconda parte del programma di Putin ci riguarda da vicino: il fiume di denaro così recuperato si è riversato nella city londinese e in attività speculative di ogni tipo ed è diventato mezzo di pressione politica. Nell’affare ci sono dentro tutti, anche Berlusconi, Salvini e i Cinque Stelle per quello che ci riguarda, e le conseguenze di tale dipendenza da materie prime e finanza russa le vediamo adesso che in Europa c’è una guerra in corso. Detto questo, Putin ha un futuro? E’ riuscito a mantenere il potere e il consenso per anni, ma nessun regime sopravvive a una guerra persa o in stallo senza mutamenti nella struttura del suo gruppo dirigente.
Ottimi gli indici, centinaia le note, accessibile il prezzo: 17 euro.


Gli uomini di Putin. Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente
Autore: Catherine Belton
Traduttore: Alberto Cristofori
Editore: La nave di Teseo, 2022, pp. 648
EAN: 9788834610688
Prezzo: 17,00 €


Latino per ragionare

“Il latino ti fa ragionare”. E perché non l’ungherese? Strutturalmente diverso, ha comunque una sua logica interna: le lingue servono per comunicare, quindi sono macchine logiche. Più una lingua è complessa, più sottopone l’altro a uno sforzo intellettivo, ma non esistono lingue incoerenti. Questo per sfatare uno dei luoghi comuni con cui si difende il liceo classico, che in questo momento non polarizza le scelte delle famiglie. Né mi sorprende: frequentare un liceo significa dover andare all’università, mentre un istituto tecnico garantisce un ingresso più rapido nel mondo del lavoro. O dovrebbe, vista la mancanza degli adeguati istituti tecnici superiori che sono invece l’ossatura della Germania, in stretto coordinamento con le imprese industriali. Inoltre il rapido sviluppo della tecnologia ha portato in tutto il mondo al potere una classe di tecnocrati digiuni di cultura umanistica, le cui decisioni sull’ordinamento scolastico rispecchiano la loro mentalità di elettricisti. Col termine intendo un tecnico che sa far funzionare un impianto ma ne ignora le implicazioni filosofiche, con i risultati sociali e politici che sappiamo. So che in Finlandia l’attuale governo sta riducendo i fondi per le facoltà umanistiche a favore di quelle tecniche, e lo stesso fa il governo polacco (tra l’altro è stata chiusa l’Accademia polacca delle Scienze di Roma), mentre negli Stati Uniti c’è una ripresa degli studi umanistici, anche se il mondo classico deve fare i conti con la cancel culture e la valorizzazione delle minoranze etniche. Se si passasse da un eurocentrismo a un policentrismo andrebbe anche bene, ma le censure puritane inquinano la razionalità in nome di astratti principi ideologici. In realtà la cultura classica è sempre stata elitaria e non immediatamente spendibile sul mercato, ma aveva il suo prestigio, mentre è intuibile che da noi greco e latino saranno prima o poi sostituiti da spagnolo (più facile) e mediazione culturale (alla moda) in quello che mi piace chiamare Liceo Statale Semplificato (LSS). Ma già Berlusconi propugnava le tre “I” (informatica, inglese, impresa) omettendo la quarta: Italiano, mentre la sua ineffabile Gelmini ministra dell’Istruzione provvedeva a lanciare la peggior riforma della scuola italiana mai vista prima, senza risolvere peraltro il problema della formazione e selezione degli insegnanti, incoerente già dai tempi della mia laurea.

Proviamo allora ad affrontare il problema da un altro punto di vista. Una lingua si può studiare non solo perché è utile – come l’inglese o il russo – ma perché è legata a una cultura superiore di cui noi siamo gli eredi, meglio ancora se viviamo a Roma. La storia e la cultura greco-romana si sviluppano in un arco temporale e geografico che vede ascesa e declino o trasformazione di economie, istituzioni, poteri, flussi demografici e assetti geopolitici da cui possiamo ancora imparare qualcosa, per non parlare di una letteratura che comunque ha tuttora il suo peso e ha comunque prodotto in seguito secoli di classicismo nelle varie arti. Studiare una cultura attraverso la lingua in cui si esprime ti fa entrare in un mondo diverso da quello della letteratura filtrata da una cultura esterna, allo stesso modo in cui studiare Kant ed Hegel in tedesco ha un senso diverso. Ma lo stesso si può dire del Corano, che nelle traduzioni italiane non è sempre facile da comprendere per la presenza di termini tradotti secondo il filtro della nostra filosofia idealistica. E’ chiaro che il prestigio di una lingua la danno anche la ricchezza dei commerci, la potenza degli eserciti o la forza di una religione e non solo la letteratura o la storia romana. Nel corso del tempo l’inglese ha scalzato il francese, ma questo si deve allo sviluppo della ricerca e della tecnologia e al peso del commercio internazionale. Mai giudicare una lingua senza una analisi del mondo a cui è legata. Sicuramente il cinese sarà la lingua del futuro.

Ma oggi il peggior nemico del Latino non è lo stato-nazione tecnocrate, ma il Vaticano.  A parte la costosa babele derivata dall’abbandono del latino come lingua dei documenti ufficiali, l’accanimento di papa Francesco e dei vescovi contro la messa in latino e il canto gregoriano è quasi patologico, visto che la Chiesa accetta in tutto il mondo almeno una ventina di liturgie diverse. Giustamente papa Ratzinger si è addolorato, ma per il resto stiamo parlando di un clero che si è formato esclusivamente a seguito del Concilio Vaticano II ed è quindi ossessionato dalla sua realizzazione integrale. Ma prendersela contro un settore minoritario della comunità cattolica e tutto sommato di retroguardia ricorda la protervia esercitata contro i profughi istriani: astiosa, gratuita e fuori tempo. La Russia di Putin ci ha fatto capire che la politica non è purtroppo legata esclusivamente a fattori razionali. Ma diciamolo apertamente: i fantasmi cattolici sono ben altri e meglio sarebbe risparmiare energie per affrontarli, piuttosto che perder tempo con le messe in latino.

Tik-Tok War

La guerra fra Russia e Ucraina dura da un anno e ha cambiato il nostro modo di vedere la realtà. Intanto, nessuno aveva previsto che a distanza di ottanta anni dalla seconda Guerra Mondiale e a trenta dalla fine della Guerra Fredda fosse possibile e conveniente una terza guerra in Europa. Cultura, commercio, conoscenza tra i popoli avrebbero dovuto sviluppare una nuova coscienza politica in un mondo globalizzato. La stessa interconnessione fra economie diverse – basti pensare al gas russo – avrebbe dovuto garantire stabilità, mentre l’interscambio culturale e il benessere sarebbero stati lo stimolo per maggiori riforme democratiche e servizi sociali. Ebbene, questi argomenti erano correnti anche nel 1914, come leggo ne La grande storia della prima Guerra Mondiale dello storico inglese Martin Gilbert (Mondadori, 1998). Se nella dinamica delle guerre in Europa entrano in gioco parametri diversi dalla quelli della razionalità, quali sono? Sicuramente la componente primordiale del potere assoluto e la pretesa di considerare i vicini una proprietà privata, ma anche la scarsa capacità di gestire le minoranze o di non saper condurre l’azione politica con mezzi adeguati. La guerra è un’espressione della politica, lo dice Karl von Clausewitz nel suo testo Della Guerra che è la bibbia delle scuole militari. Solo che lui scriveva al tempo di Napoleone, quando la guerra ancora costava meno di quello che potevi ricavarne. Oggi, a distanza di un anno dall’Operazione speciale di Putin il fronte sembra quello della prima Guerra Mondiale: invece del movimento si vedono solo trincee nelle quali mio nonno non si troverebbe troppo spaesato.

Ma un aspetto nuovo c’è, a parte la tecnologia dei droni o delle armi ipersoniche o la migliore copertura delle comunicazioni. Parlo della visione del conflitto attraverso non tanto i media, quanto l’elettronica di consumo. Le guerre recenti le abbiamo viste quasi in diretta attraverso reportage giornalistici o riprese fatte dagli eserciti stessi, ma finora non s’era vista la continua proiezione di micro sequenze che rimbalza ogni giorno su Facebook, Tik-tok e altri social. Anche il soldato semplice o il partigiano possono usare mezzi che ancora pochi anni fa erano costosi e ingombranti mentre ora sono tutti miniaturizzati, né sembra esista un forte controllo su immagini che se condivise possono però anche dare informazioni al nemico, ed è successo. Queste immagini c’è chi se le studia per capire le operazioni sul terreno – parlo dei militari – ma la maggior parte dell’utenza è composta da gente normale, in genere giovani o giovanissimi, per i quali la guerra è un’astrazione o un videogame, e non per niente alla maggior parte di questi brevi filmati viene unita una musica rock o da effetti speciali, aumentando il senso di straniamento in chi la segue. Ma c’è di più: se le riprese documentarie sono presentate come in un videogame, i veri videogame si possono scambiare per riprese reali, specie se uno vede tutto nello schermo di un Iphone. Alludo a un videogame chiamato Arma3. In realtà è la versione ridotta e commerciale di un sistema di simulazione militare prodotto per le scuole militari e venduto solo in quel mercato. Si possono scegliere mezzi, terreni e tattiche a volontà e il realismo è massimo e il sistema si compra per 30 euro; posso dire che, vista la sua destinazione originaria, il prodotto è realistico, non è il solito sparatutto. Se posso distinguere il filmato vero dal videogame è perché nella versione commerciale restano dei limiti inavvertibili da chi ne fa un uso ludico. Faccio un esempio: se mi apposto con un’arma controcarro aspettando la colonna dei mezzi nemici, una volta colpito il primo carro e forse il secondo io prendo e scappo, mentre nel videogame continuo a sparare sempre dalla stessa posizione, il che è assurdo. Ma giuro che è difficile distinguere la ricognizione delle trincee russe fatte da un drone da cento euro dalle sequenze di un videogame ad alta definizione come Arma3. La differenza è che i soldati non si rialzano più.

Maigret fa le pulci al suo autore

Parigi, una rapina in banca a mano armata. Il commissario Maigret arriva sul posto, massiccio e impenetrabile, fumando la pipa e mangiando birra e panini: i detective sono sempre tipi tranquilli e amanti della buona tavola, come Poirot e Montalbano. Seguiamo poi Maigret per una settimana fra bistrot, vicoli, case e alberghetti. Finché, fra una fumata di pipa e l’altra, poggia la mano sulla spalla di un tipo e gli dice: “Sei fregato, bello mio!”. Ebbene, nella realtà il lavoro del poliziotto è diverso. A scriverlo è proprio Georges Simenon, ironico sul suo personaggio. In realtà fu il suo editore a spingerlo a frequentare Quai d’Orfèvres – la mitica Questura centrale di Parigi – per rendere realistici i romanzi polizieschi che Simenon già iniziava a scrivere. Ne nacquero “dritte” , appunti e articoli che rendono vivida la Parigi degli anni Trenta, divisa per quartieri e classi sociali e organizzata in modo diverso da oggi, ma brulicante di socialità. In questi appunti rivediamo sulla carta tanti film di Jean Renoir, di Julien Duvivier, di René Clair. Gli uffici di Quai des Orfèvres sono pieni di faldoni e schedari, ispettori e commissari sono gran fumatori ma per il resto si comportano e si vestono da impiegati. Informatica e videocamere sono al di là da venire e tutto si basa sulla memoria del commissario e del vice questore, sul giro del giovane ispettore per alberghetti, bistrot e locali del “milieu”, sulle soffiate dei vari informatori, sui ricatti alle corse dei cavalli, sulla familiarità con le prostitute. Gli interrogatori dei pregiudicati così come descritti negli anni Trenta oggi forse non sarebbero possibili – i questurini qui non vanno troppo  per il sottile – ma quei sistemi sbrigativi in genere funzionano e i casi irrisolti sono pochi: quando non è l’intuito e l’esperienza del commissario, c’è ampio margine per le “soffiate” o magari per i banali errori dei delinquenti, tutto sommato descritti come stupidi e abitudinari. Si descrivono assassini occasionali incapaci di nascondere un cadavere come invece delinquenti abituali schedati ognuno con le proprie manie o rituali fissi. Si distinguono quelli che crollano al primo interrogatorio e gli spavaldi fino alla condanna definitiva. Ognuno ha il suo stile ma anche il proprio tallone d’Achille e i questurini vecchio stile hanno una memoria di ferro e associano il crimine a un nome o a un ambiente preciso, che conoscono come i parenti. A leggere queste pagine piene di tenaci commissari aiutati da altrettanto tenaci ispettori e sistematici archivisti si riapre un mondo dove tutto è basato ancora sull’umana intelligenza, sulla pratica di strada. Simenon stesso ritiene che presto non ci saranno più confessioni “spontanee” e che magistrati e tecnici di laboratorio metteranno in ombra il giornaliero lavoro dei poliziotti che consumano letteralmente le scarpe per andare a cercare uomini, donne e indizi per vie e vicoli, ma hanno un controllo del territorio che oggi ci sogniamo ma che comunque è supportato dalla tecnologia. Nulla di romantico o avventuroso o atletico in questi questurini con la sigaretta in bocca, annoiati dalla routine delle coltellate tra algerini ma capaci di capire a volo nome cognome e indirizzo di un malavitoso e beccarlo in flagranza o entro due giorni dal reato commesso. Il libro è un vero affresco della Parigi degli anni Trenta e si legge tutto d’un fiato. In fondo abbiamo nostalgia anche di quel mondo ancora descrivibile.


Dietro le quinte della polizia Condividi
di Georges Simenon (Autore)
Traduttore: Lorenza Di Lella, Maria Laura Vanorio
Editore: Adelphi, 2022, pp. 281
EAN: 9788845937361
Prezzo: € 16,00