La Disney ha messo le mani avanti, sconsigliando ai minori di sette anni alcune sue pellicole: Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan; contengono alcuni stereotipi sbagliati. Negli Aristogatti è il perfido, ambiguo gatto siamese, sugli altri non mi sono informato. La Disney ora non rimuove i contenuti, ma ne riconosce l’impatto dannoso, e vuole stimolare il dibattito “per creare insieme un futuro più inclusivo”. E perché non sostenibile? La Disney si è parato il sottoschiena evitando un pericoloso boicottaggio commerciale. Certo si ricordava di Aladdin (1992), quando per le proteste dell’American-Arab Anti-Discrimination Committee (ADC) cambiò in fretta le parole di una canzone dove gli Arabi non ci facevano bella figura:
“Where they cut off your ear if they don’t like your face / It’s barbaric, but, hey, it’s home”
“E ti trovi in galera anche senza un perché / che barbarie, ma è la mia tribù”
Notare che nella versione originale ti tagliano un orecchio. Di seguito ecco la versione riveduta e corretta. Notare che in italiano “barbaric” diventa “non è facile”
“Where it’s flat and immense and the heat is intense / It’s barbaric, but, hey, it’s home”
“C’è un deserto immenso e un calore intenso / Non è facile, ma io ci vivo laggiù”
Come si vede, Disney all’epoca l’aveva fatta proprio grossa e neanche era di moda la parola islamofobia, termine che io rimando sempre al mittente, non essendo lecito bollare un atteggiamento di opposizione ideologica usando le categorie della psichiatria clinica. Il dissenso non è una malattia mentale.
Ma torniamo al revisionismo estremo e trionfante dei nostri giorni. Che un’opera d’arte sia figlia del suo tempo è un optional. Si è visto di tutto: Dante censurato perché scortese con gay e musulmani, il Vangelo perché chiama Farisei gli ebrei ortodossi, Via col vento perché esalta i Sudisti schiavisti, e persino i classici latini e greci per intero perché basi fondanti del suprematismo bianco coloniale (1). Inutile dire che la civiltà europea ha dato al mondo anche la democrazia, il diritto romano, il pensiero laico, i diritti umani, il voto alle donne, la divisione dei poteri costituzionali: da quell’orecchio non ti sentono, preoccupati di azzerare la storia, la cultura e la memoria, possibilmente la propria. A questo punto ben vengano il Giorno della Memoria e i suoi derivati, a patto che diventino momenti di riflessione e di ricerca storica e non cerimonie retoriche. Il giorno della Memoria dell’esodo istriano e dalmata non è stato p.es. l’occasione di rinfocolare vecchi nazionalismi, ma anche di stimolare una ricerca storica seria, che ora ha rivelato anche la parte avuta dalle nostre forze armate nella dura repressione delle bande partigiane jugoslave. Un giudizio storico e politico si può dare soltanto cercando e rendendo pubblici i documenti storici. Memoria quindi come archivio della realtà fattuale, e non a caso il revisionismo per prima cosa si premura di riscrivere la storia e alterare i documenti, seguendo un preciso progetto di controllo politico. E qui gli esempi anche attuali non mancano, al punto di non dover neanche annoiare il lettore con le citazioni d’uso. Mi preme però far notare alcune novità.
La prima è che viviamo in un’epoca che ama poco la storia; basta vedere i programmi scolastici italiani attuali, parlare coi giovani o seguire le risposte ai quiz televisivi. Se non c’è interesse dal basso perché si vive nel presente e allo stesso tempo lo Stato non si preoccupa di insegnare storia e geografia aggiornando i programmi, il danno è completo. Notavo anni fa la mancanza di senso storico degli studenti americani con cui lavoravo: per loro l’Impero romano, l’antico Egitto, i Maya, i Ming o Guerre Stellari erano strutture complesse, strutturate ma praticamente sincroniche e parallele. Ma in fondo – si dirà – gli Stati Uniti esistono da due secoli e mezzo, quindi non hanno avuto tempo di stratificare la conoscenza. Già, ma noi? Perché buttare nel cesso la nostra cultura, come il Vaticano ha fatto con il latino e il canto gregoriano?
Seconda osservazione: se la storia non ha valore, ben vengano le contaminazioni. E qui diventa quasi un allegro gioco di società: nella serie Netflix inglese Bridgerton, dramma in costume che si ispira ai libri di Julia Quinn, vediamo attori di colore che interpretano aristocratici e dame di corte (la regina d’Inghilterra compresa) nella Londra di fine Ottocento. È il blind casting, cioè scegliere senza curarsi della coerenza. E’ antistorico, ma in fondo è finzione. Il pubblico sta al gioco: è gratificante e strizza l’occhio al politically correct. Già si era visto Achille nero in Iliad, come se la storia fosse uno spot pubblicitario dove secondo il mercato oggi è opportuno mostrare i vispi figli degli immigrati invece dei soliti pargoli biondi con gli occhi azzurri. Ricordo un film con Bud Spencer e Terence Hill ambientato in Africa: quando in un esclusivo club cittadino un bianco si scandalizza per l’ingresso di soci neri, la pronta risposta è: “per me non esistono bianchi e neri, ma solo clienti”.
Terza osservazione: il relativismo, da cui metteva in guardia papa Ratzinger. Se metti tutto sullo stesso piano, alla fine è il caos della conoscenza. E qui dilagano complotti, false verità, balle spaziali e quant’altro, amplificati se non legittimati dai social. L’Internet non era nata per diffondere odio, veleno e menzogna, ma la realtà attuale ci pone di fronte a una doverosa presa d’atto. E quando un falso ideologico o la distruzione morale di un dissidente dal pensiero corrente passano per la rete, si è visto che sono più micidiali dei mezzi di comunicazione precedenti. Si può davvero credere al delirio di QAnon? Eppure migliaia di persone ci credono o fanno finta di crederci per esaltare il proprio Ego frustrato e trovare conferma presso gli altri.
Quarta e ultima osservazione: parliamo di una censura che non viene imposta da governi autoritari e antidemocratici: quella in fondo neanche pone troppi problemi di analisi, essendo palese quanto rozza. Il problema è quando parte – come ora – da minoranze organizzate o addirittura docenti universitari che vivono in società libere e democratiche, quindi realtà apparentemente esterne al potere politico. L’unico precedente che mi sovviene è il codice Hays, censura cinematografica esterna allo Stato ma non per questo meno efficace (2) e non per niente nata negli Stati Uniti. Oggi il problema è che non solo accettiamo la censura, ma la introiettiamo per paura delle conseguenze. Censura sottovalutata solo perché non è imposta da una polizia segreta, ma da uno strisciante condizionamento mentale gestito da minoranze “social”. Ricordo una frase della regista ungherese Marta Meszàros: la vera censura è quella che hai dentro.
Note: